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lunedì 23 gennaio 2017

Arrival

Ted Chiang è uno scrittore di fantascienza straordinario.
Ammetto di averlo scoperto solo di recente, leggendo la sua antologia Storie della tua vita e adorando ciascuno dei racconti che la compongono, rimanendo impressionato dalla capacità dell'autore di rielaborare miti biblici e di costruire storie geniali pasticciando con linguaggio, matematica e rapporti umani.

Chiang interpreta in chiave science fantasy la torre di Babele e la cosmologia geocentrica, immagina mondi in cui le apparizioni angeliche sono all'ordine del giorno e ipotizza quali sarebbero le reazioni della società se, ricorrendo ad un intervento medico, esistesse la possibilità di diventare insensibili alla bellezza di un viso.
Nel racconto che dà il nome al libro (Storia della tua vita, appunto), l'umanità entra in contatto con una misteriosa specie extraterrestre con cui deve cercare di instaurare un dialogo. Spetta alla linguista Louise Banks il difficile compito di comprendere e tradurre la lingua aliena. La mente della donna verrà influenzata a tal punto dal modo di comunicare e di pensare dei visitatori, che la sua percezione della realtà (e del tempo) cambierà radicalmente.

Arrival di Denis Villeneuve è l'adattamento cinematografico di quest'ultimo racconto.
Da parte mia c'erano aspettative piuttosto alte, sia a causa della qualità dell'opera d'origine, sia per via del curriculum dello stesso Villeneuve, regista canadese che ha messo la firma su due recenti film che ho adorato (Sicario e Prisoners) e che attualmente è al lavoro su Blade Runner 2049; alla luce di ciò, ero quindi piuttosto curioso di vederlo alle prese con il genere fantascientifico.

Fortunatamente Arrival non mi ha deluso, rivelandosi anzi uno dei migliori film di fantascienza degli ultimi anni.
Una trasposizione magistrale che, grazie anche ad una sceneggiatura assolutamente rispettosa del materiale di partenza, traghetta sul grande schermo il racconto di Ted Chiang, apportando i giusti cambiamenti e lasciando intatto quel che su carta veniva veicolato dalla penna dell'autore.

Villeneuve conferma il suo talento, sfoggiando capacità registiche fuori dal comune e dimostrando un gusto sopraffino per inquadrature, costruzione delle scene e cura dell'immagine. Un plauso se lo merita anche la fotografia che, combinata con il design delle astronavi e l'aspetto vagamente alla Lovecraft delle creature aliene, contribuisce non poco alla quasi ipnotica maestosità visiva del film.
Arrival, a tratti, può sembrare un po' nolaniano per come si mostra, ma, nella sostanza, finisce per essere molto diverso da un Interstellar, pur condividendone diversi temi.
Il film di Villeneuve è molto meno arzigogolato e propone una storia che, per quanto intelligente, arriva al punto senza contorsionismi logici, riuscendo ad essere trascinante sin dalle prime battute.

Spalleggiata da Jeremy Renner e Forest Whitaker (che come al solito fanno il loro), la dottoressa Louise Banks è interpretata da una fantastica Amy Adams; grazie alle sue doti recitative, l'attrice riesce a conferire al personaggio un'umanità impressionante, che diventa sempre più intensa via via che la comprensione del linguaggio alieno muta la sua prospettiva sull'esistenza.

Dopo svariate eccellenti pellicole drammatiche, insomma, Villeneuve torna con un film impeccabile: Arrival, come solo la miglior fantascienza riesce a fare, ci affascina mostrandoci l'ignoto e ci commuove facendoci riflettere su chi siamo. 

venerdì 13 gennaio 2017

I Signori dei Sith

Otto anni dopo la conclusione delle Guerre dei Cloni, il Signore Oscuro dei Sith domina la galassia.
I Jedi sono stati sterminati e ormai nulla sembra in grado di minacciare la potenza dell'Impero.
Su alcuni pianeti, però, iniziano a nascere le prime sacche di resistenza. Tra queste vi è il movimento per la liberazione di Ryloth guidato dal rivoluzionario twi'lek Cham Syndulla. L'Imperatore, irritato dai continui attentati e dall'intraprendenza di questa banda di ribelli, decide di recarsi personalmente su Ryloth insieme al suo apprendista Darth Vader, con lo scopo di dare una dimostrazione di forza e di schiacciare Syndulla una volta per tutte.
Cham, tuttavia, con l'aiuto di una ex schiava twi'lek di nome Isval e dell'imperiale doppiogiochista Belkor Dray, pianifica un audace attacco allo Star Destroyer su cui Palpatine e Vader stanno viaggiando, nella speranza di ucciderli e di restituire la libertà al suo pianeta natale.

Già questo preambolo, probabilmente, lascia intuire come la storia raccontata ne I Signori dei Sith, romanzo del nuovo canone di Star Wars scritto da Paul S. Kemp e pubblicato in Italia da Multiplayer Edizioni, sia frenetica, piena d'azione e con pochissimi momenti di calma. La cosa ottima è che, nonostante l'acceleratore pigiato a tavoletta, la vicenda narrata non manca di una certa profondità.

Il cuore del romanzo, come il titolo stesso evidenzia, sta nel rapporto tra Darth Vader e il suo maestro.
In seguito all'attacco che li vede come bersagli, i due si ritrovano in una situazione critica in cui, per affrontare i ribelli e l'ambiente ostile di Ryloth, devono collaborare combattendo fianco a fianco. E si sa, le relazioni tra Sith sono contraddistinte da fiducia reciproca ma anche da rivalità. Le pagine incentrate su Palpatine e Vader restituiscono egregiamente questa "tensione" attraverso una caratterizzazione sublime dei due personaggi.
L'Imperatore si riconferma lo stesso manipolatore che abbiamo imparato ad amare (o meglio, ad odiare) grazie alle interpretazioni di Ian McDiarmid: un despota potentissimo nel Lato Oscuro della Forza, certamente temibile quando brandisce una spada laser, ma ancora più viscido, subdolo e pericoloso quando si affida alla dialettica.
Darth Vader si dimostra un personaggio altrettanto interessante, determinato a superare le prove a cui il suo mentore lo sottopone e, allo stesso tempo, perseguitato da un passato che riaffiora di continuo, alimentando la sua sofferenza e la sua rabbia.

Il libro di Kemp, comunque, non si limita ad approfondire i due storici antagonisti della saga cinematografica, fa pure qualcosa in più. E lo fa molto bene.
In modo analogo a Rogue One, dipinge una ribellione verosimile, che appare sporca e violenta pur nel contesto di una divisione netta tra buoni e malvagi.
Cham Syndulla, personaggio già apparso in The Clone Wars e in Star Wars Rebels, è un leader che combatte da tutta la vita per l'autonomia di Ryloth, dapprima opponendosi alla Repubblica, poi lottando contro i Separatisti e infine resistendo all'occupazione messa in atto dall'Impero. Crede in un'idea, ma non è un fanatico: sa che la guerra richiede un prezzo da pagare in termini di vite e teme di superare la linea che separa la lotta per la libertà dal terrorismo.
La sua compagna Isval è invece un personaggio dalle tinte estremamente fosche: si tratta di una schiava liberata che prova un odio viscerale per gli imperiali. È una donna segnata da un passato di violenze, decisa a farla pagare cara ai suoi ex aguzzini anche a costo di rimetterci la vita; alcune delle parti del libro che la vedono protagonista riescono ad essere veramente crude e forti.

Kemp fa un ottimo lavoro anche per quanto riguarda gli ufficiali imperiali. Sia Belkor Dray che Moff Mors sono personaggi piuttosto riusciti. Il primo è un colonnello corrotto che, nella sua smania di ottenere una posizione di potere e di prestigio, arriva a fare il doppio gioco passando informazioni ai ribelli di Syndulla, andando a finire in una situazione destinata a sfuggirgli di mano.
Mors è invece un'imperiale decisamente anomala. Pigra e viziosa, preferisce passare le sue giornate negli agi a spaccarsi di droghe, piuttosto che farsi carico delle proprie responsabilità. Il bello, però, è che Mors non rimane per tutto il libro un personaggio senza sviluppi che si crogiola nel lusso sfrenato e nel nichilismo; le conseguenze del suo atteggiamento indolente la portano anzi verso una sorta di percorso di maturazione che per un villain è quantomeno inconsueto.

Le diverse storyline si alternano garantendo continui cambi di prospettiva sugli eventi che si susseguono, lasciando il giusto spazio alla descrizione del mondo alieno di Ryloth e convergendo in un capitolo conclusivo emotivamente devastante, per quanto prevedibile.

I Signori dei Sith è una lettura che consiglio, interessante sia per chi cerca un buon approfondimento sul rapporto tra Vader e Palpatine, sia per chi ha visto Rogue One e vuole leggere un'avventura ambientata nell'universo di Star Wars che abbia più o meno gli stessi toni.
È un romanzo che, pur non aggiungendo nulla di veramente imperdibile alla saga, risulta avvincente nel raccontare una storia scorrevole e con protagonisti ben tratteggiati.

mercoledì 30 novembre 2016

La terra dei figli

Leggendo La terra dei figli mi sono spesso ritrovato a pensare al romanzo La strada. Entrambe le opere raccontano una storia che si svolge in un mondo devastato da una misteriosa catastrofe, risultando incredibilmente simili per atmosfera e per emozioni trasmesse; entrambe, inoltre, sono incentrate sul rapporto padre-figlio.
Se nel libro di Cormac McCarthy, tuttavia, i protagonisti tiravano avanti in mezzo alla disperazione aggrappati con tutte le proprie forze a ciò che restava della loro umanità ("Noi portiamo il fuoco"), qui la situazione è ancora più sconfortante. Gipi ci parla di due fratelli che non hanno mai visto il mondo prima che finisse, cresciuti con rigore e violenza da un padre determinato ad indurirli, per renderli adatti a vivere su un pianeta dove non esiste più alcun tipo di civiltà. Niente amore, niente sentimenti, solo insegnamenti basilari su cosa serve fare per non crepare ed errori che vengono puniti a suon di bastonate.

È da queste premesse che si dipana un fumetto memorabile, che ci immerge in una storia raccontata in modo essenziale, senza orpelli, ma che colpisce come un pugno allo stomaco.
Il tratto di Gipi è talmente particolare e carico di potenza espressiva che riesce a far sembrare pulsanti di vita anche tavole che somigliano a bozzetti.
I dialoghi sono ridotti al minimo. Non serve una voce narrante che ci spieghi perché questo mondo si sia ridotto così e non serve che i personaggi dicano più del necessario. Persino il linguaggio utilizzato, volutamente sgrammaticato e pieno di riferimenti alla cultura popolare contemporanea ("Questa vale almeno cento laic"), contribuisce a rendere inquietante e credibile ciò che leggiamo.

La terra dei figli è un romanzo a fumetti ruvido, splendido nel suo essere stilisticamente grezzo e profondissimo nella sua semplicità narrativa. So che una descrizione del genere sembra quasi un controsenso, ma fidatevi: il viaggio nella brutale terra post apocalittica partorita dalla mente di Gipi è un'esperienza che non si dimentica tanto facilmente.

martedì 13 settembre 2016

Star Wars: Lost Stars

Sin dal lontano 1977, Star Wars ha varcato i confini del cinema per abbracciare le forme d'intrattenimento più disparate. Fumetti, libri, videogiochi e una quantità immane di merchandising paccottiglia.
Negli anni di transizione in cui la saga di Lucas era lontana dalle sale cinematografiche, autori come Timothy Zahn contribuirono a tenere vivo il Mito tramite l'Universo Espanso, cioè con storie inedite che, appunto, espandevano quanto mostrato nei film originali, raccontando ciò che era successo nella Galassia dopo i fatti di Episodio VI o scavando tra le mille possibilità offerte da questo gigantesco universo immaginario. L'ombra dell'Impero, ad esempio, riassumeva cosa era accaduto tra L'Impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi; i videogiochi della serie Knights of the Old Republic, invece, narravano i fatti che avevano sconvolto la Vecchia Repubblica ben quattromila anni prima della nascita di Luke Skywalker e soci.
Tutto questo materiale aveva una canonicità variabile a seconda di come si innestava nella saga. Esisteva un vero e proprio sistema di catalogazione che, per ciascuna opera, stabiliva il livello di canonicità all'interno della storyline. Il grado più alto era ovviamente quello dei film (il G-canon), l'unico vero punto fisso di Star Wars, superiore a qualsiasi cosa avesse a che fare con l'Universo Espanso. Va comunque sottolineato come l'epopea spaziale di George Lucas abbia sempre dovuto moltissimo alle storie che affollavano la sua continuity, tanto è vero che i prequel ne attinsero spesso a piene mani (il pianeta Coruscant fece la sua comparsa proprio nei romanzi di Zahn, giusto per citare l'esempio più celebre).

Poi arrivò l'acquisizione di Disney, la quale, per non avere le mani eccessivamente legate in vista della realizzazione di nuovi film e spin-off, decise di fare tabula rasa di (quasi) tutto l'Expanded Universe, creando un nuovo canone il più possibile coerente con gli episodi cinematografici e spianando così la strada ad una vera e propria narrazione interconnessa tra film, serie tv, fumetti e quant'altro.
È a questo nuovo canone che appartiene il libro di cui mi accingo a parlarvi: Lost Stars di Claudia Gray.
Diventata celebre come scrittrice di romanzi young-adult, Claudia Gray fa il suo esordio nell'universo di Star Wars raccontando una storia d'amore avente come sfondo gli eventi della Guerra Civile Galattica.
Thane Kyrell e Ciena Ree provengono da Jelucan, un pianeta dell'Orlo Esterno. Lui di estrazione sociale nobile, lei di origini umili, nascono entrambi alla fine delle Guerre dei Cloni e vivono la proprio infanzia indottrinati dall'Impero, sognando di arruolarsi per lasciare il proprio sistema stellare e vivere un'esistenza emozionante.
Una volta adulti, riescono ad entrare nell'Accademia di Coruscant e, dopo aver superato numerose difficoltà, diventano ufficiali della Flotta Imperiale; è a questo punto che capiscono di amarsi, ma alla consapevolezza dei propri sentimenti si associa la scoperta della vera natura dell'Impero. È così che i due finiscono per fare scelte diverse, giungendo a combattere una guerra su fronti opposti, in attesa del giorno in cui si troveranno faccia a faccia sul campo di battaglia.

Lost Stars è un gran bel romanzo. Sarebbe un grave errore snobbarlo, perché Claudia Gray si dimostra una scrittrice talentuosa, che ha compreso perfettamente come tirar fuori una buona storia dall'universo di Star Wars.
Il rapporto d'amore e rivalità tra Thane e Ciena è praticamente roba young-adult, inutile negarlo, però regge, coinvolge e commuove. I due protagonisti sono caratterizzati splendidamente a partire dal contesto sociale in cui nascono, il loro comportamento è sempre coerente con il loro carattere e la loro particolare cultura.
A tutto ciò si aggiunge il modo spettacolare in cui la Gray racconta, attraverso la prospettiva di questi due giovani amanti, vent'anni di storia starwarsiana.
Lost Stars copre un arco temporale che va dai primissimi anni dell'Impero alla battaglia di Jakku. Il romanzo si collega direttamente ai film della Trilogia Classica, mostrandoci eventi come l'assalto alla Tantive IV o le battaglie di Yavin e di Hoth da un punto di vista inedito. Immancabile la presenza di personaggi importanti come Tarkin e Darth Vader; Claudia Gray si dimostra poi molto abile nell'approfondire in maniera estremamente dettagliata lo scenario storico della guerra civile tra Alleanza e Impero, mostrandoci cosa accadeva a bordo degli incrociatori Mon Calamari o il modo in cui gli imperiali di rango più basso, resi ciechi dalla propaganda e dall'addestramento ricevuto, percepivano i ribelli come folli guerriglieri idealisti che, chissà poi per quale motivo, si opponevano con tutte le proprie forze alla "pace galattica" sognata da Palpatine.
Perché sì, Lost Stars riesce, nella sua semplicità, ad essere interessante anche per quanto concerne il political drama. Non a caso Bloodline, il secondo romanzo a tema "Guerre Stellari" scritto dalla Gray (già uscito negli USA), è ambientato sei anni prima di The Force Awakens e fa luce sullo scenario geopolitico che vede contrapposti Nuova Repubblica e Primo Ordine.

Se insomma non siete ancora saturi di Star Wars e, come il sottoscritto, non potete fare a meno di esultare quando questo immenso mosaico narrativo composto da spade laser, caccia stellari e droidi guadagna un tassello di qualità, il consiglio è di recuperare Lost Stars senza pensarci due volte.
Anche solo per capire che sì, magari il giorno in cui Disney rovinerà tutto arriverà, ma quel giorno non è sicuramente oggi.
Che poi non ho ancora capito cosa ci sarebbe da rovinare. Voglio dire, niente può essere peggio di Jar Jar Binks.

lunedì 2 settembre 2013

Il mio torreggiante amore per Stephen King

Leggere mi piace molto ma, per qualche motivo, non mi capita spesso di innamorarmi di un autore fino ad arrivare al punto di incartarmici per mesi. Certo, spesso mi appassiono ad una saga letteraria e saltuariamente mi capita tra le mani un romanzo da cui non riesco a staccare gli occhi finché non arrivo alla fine, ma di rado mi fisso morbosamente su uno specifico scrittore.

Recentemente, però, ho preso una cotta per Stephen King.
Prima di quest’anno non avevo mai letto nulla del popolarissimo autore statunitense originario del Maine (Stato in cui ambienta la stragrande maggioranza dei suoi libri).
Anch’io, come molte delle persone che lo conoscono solo per fama, commettevo l’imperdonabile errore di considerare King un semplice “maestro dell’horror”, quando invece è molto più di questo.
Per inciso, almeno a parer mio, King è uno dei più grandi narratori del nostro tempo, uno scrittore che meriterebbe di venire ricordato come un genio indiscusso.
Dite che esagero? Be’, forse sì, in fondo il mio può essere un giudizio dettato dall’entusiasmo e un’opinione che vale poco o niente.
Però cosa ci posso fare se ogni libro del "Re" che ho avuto occasione di leggere negli ultimi mesi mi è piaciuto incredibilmente, facendomi innamorare della letteratura come non mi capitava da tempo?
Vaffanculo Jimla!
Ho scoperto King grazie a 22/11/’63, uno dei suoi romanzi più recenti.
È un libro meraviglioso.
Narra di Jake Epping, un comune professore di lettere che viaggia a ritroso nel tempo per compiere una missione destinata a cambiare il corso della storia: impedire la morte del presidente Kennedy.
Ma combattere contro il flusso degli eventi non è sempre semplice, il passato non vuole essere cambiato, possiede un istinto di autoconservazione, quasi una volontà propria. E, come Doc Brown insegna, pasticciare troppo con il continuum può essere pericoloso.
Ciò nonostante il nostro protagonista non si lascia scoraggiare e la sua missione lo porta a conoscere un’epoca diversa da quella da cui proviene, un’epoca bellissima ma allo stesso tempo piena di incongruenze e storture.
22/11/’63 è un grandissimo romanzo di fantascienza e un ancor più grande libro di storia.
Il mio viaggio alla scoperta dell'universo kinghiano è poi proseguito con Notte buia, niente stelle, splendida raccolta di racconti che mi ha aiutato a comprendere ancora meglio l’eccezionale bravura di King, uno scrittore che si trova a proprio agio a raccontare qualsiasi cosa, anche gli orrori più disturbanti che si nascondono negli anfratti dell’animo umano.
King sa descrivere il male di cui sono capaci le persone comuni, quelle che magari incontriamo tutti i giorni, che ci sembrano insospettabili e di cui ci fideremmo ciecamente.
Nei racconti di King un assassino non è mai “il cattivo e basta”, ma è una persona reale, credibile. Una persona che magari è pure pazza da legare, ma che, nella sua follia e nella sua paranoia, riesce comunque ad essere coerente.
A giugno, dopo essermi portato in pari con Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, ho letto The Dome.
È un romanzone massiccio, con un sacco di personaggi e sottotrame che si intersecano.
The Dome parte dalla medesima premessa di, ehm, del film dei Simpson: Chester’s Mill, una apparentemente pacifica cittadina del Maine, si ritrova sotto una cupola trasparente di origini ignote. Isolata dal resto del mondo, la popolazione di Chester’s Mill dovrà cercare di sopravvivere, affrontando tutti i problemi che una situazione del genere può comportare e cercando di capire cosa diavolo è questa cupola apparsa dal nulla.
La cosa più interessante di The Dome è però il suo sottotesto politico. Cosa accadrebbe se, in una città completamente isolata, un folle e ambizioso consigliere comunale instaurasse una piccola dittatura, organizzando disordini ad hoc per volgere la situazione a suo vantaggio, manipolando le informazioni ed eliminando i suoi oppositori?
King ce lo spiega in questo libro, offrendoci una bella riflessione sulla natura umana e sulla velocità con cui può degenerare una società civile in un momento di crisi.
Per il mio compleanno, i miei mi hanno regalato Joyland, il romanzo di King più recente (è uscito lo scorso giugno).
Joyland è una splendida ghost-story ambientata in un parco divertimenti degli anni Settanta. Ma è anche un giallo e, soprattutto, un ottimo romanzo di formazione.
Un gioiellino, magari privo della potenza di altre opere Kinghiane, ma comunque piacevole.
Breve ed intenso. Il finale, fra l’altro, è toccante come piace a me.
"Le prugne glorificano!"
Un mio amico mi ha poi prestato una copia di On Writing: autobiografia di un mestiere.
Come si può facilmente intuire leggendo il titolo, On Writing è sia un’autobiografia che un saggio sulla scrittura.
È un libro interessantissimo e illuminante per molteplici motivi.
Prima di tutto è una lettura imprescindibile se si vuole conoscere e comprendere meglio la figura di Stephen King.
Nella prima parte, King racconta la sua vita partendo dall’infanzia fino ad arrivare all’incidente in cui, nell’estate del 1999, ha quasi trovato la morte.
In questa sezione biografica l’autore parla dei giochi che faceva da bambino, della sua passione precoce per la letteratura, dei suoi primi passi come scrittore, dei suoi problemi con alcol e droga, del suo matrimonio e di molto altro ancora. Svela anche gustosi retroscena su alcuni dei suoi romanzi più conosciuti; interessantissima, da questo punto di vista, la genesi di Carrie.
In On Writing è Stephen King il protagonista assoluto.

Nella seconda parte del libro, invece, King parla dell’arte della scrittura e spiega cosa significa scrivere, dando una lunga serie di consigli utilissimi a chiunque abbia il desiderio di intraprendere il mestiere dello scrittore. Se pensate che questa parte del libro sia noiosa, vi sbagliate, e di grosso!
King riesce ad appassionare e a divertire anche quando parla di grammatica, scelta dei vocaboli e costruzione dei dialoghi.
On Writing è comunque un libro molto personale, nel senso che in esso King affronta il tema dello scrivere basandosi sul suo approccio, sulla sua visione, sul suo modus operandi. Spiega cosa significa narrare storie attenendosi a quella che è la propria esperienza, spronando il lettore a seguire la sua passione senza lasciarsi scoraggiare, migliorandosi e correggendosi dovunque sia possibile.

Ho trovato la lettura di On Writing utilissima. Un libro non può trasformarti in uno scrittore dalla sera alla mattina, ci mancherebbe altro, ciononostante quest’autobiografia mi ha aiutato a comprendere meglio il mio modo di scrivere e mi ha dato un paio di dritte che spero possano tornarmi utili.
Grazie, Stephen.
Non si può stare attenti su uno skateboard.
Infine arriviamo a IT.
So che molta gente lo considera, insieme all’Ombra dello Scorpione, il grande capolavoro di King. Il romanzo della vita, quello che entra nella storia e ci rimane.
IT è anche molto di più.
È un libro memorabile, che miscela alla perfezione svariati generi letterari: horror, fantasy, thriller, romanzo formativo.
In IT c’è tutto questo.

È la storia di alcuni bambini che stanno uscendo dall’infanzia per fare il loro ingresso nella difficile età dell’adolescenza e, da lì, avviarsi verso l’età adulta.
È poi la storia di questi bambini divenuti adulti, immemori della propria fanciullezza e del tempo in cui la loro immaginazione aveva il potere di sfidare qualcosa di incommensurabilmente più grande di loro; qualcosa di mostruoso, di abominevole, qualcosa che teneva un’intera città imprigionata in una morsa di violenza e di terrore.
Ma è soprattutto la storia di un gruppo di amici, di una banda di perdenti.

IT è un romanzo che parla di crescita, coraggio e amicizia.
Di come uno spaventoso nemico che ha la capacità di assumere la forma delle nostre peggiori paure possa essere sfidato, affrontato e infine sconfitto.
IT è un romanzo che parla di persone normali, di ragazzi normali, di vite normali.
Il leader del Club dei Perdenti è un bambinetto balbuziente. C’è poi il ragazzo ipocondriaco che ha una madre iperprotettiva, c’è quello con problemi di peso, c’è il ragazzo di colore che viene tormentato dai soliti bulletti razzisti, c’è il perfettino, c’è il buffone con gli occhiali e c’è la ragazza che subisce quotidianamente i soprusi di un padre violento.
Apparentemente si potrebbe pensare di avere a che fare con le classiche macchiette stereotipate, ma di fatto non è assolutamente così. Ciascuno dei Perdenti possiede una personalità complessa che vanta pagine su pagine di approfondimento psicologico.
E non solo i Perdenti in realtà, dato che in questo libro persino alcuni dei personaggi secondari meriterebbero di essere protagonisti indiscussi di un romanzo a parte.

In IT la capacità di King di caratterizzare vite immaginarie, situazioni e luoghi è espressa all’ennesima potenza.
È un romanzo dalle mille sfaccettature che non si vorrebbe finire mai e che ti fa giungere alla conclusione con un groppo alla gola.
Vi basti sapere che, pur avendolo finito da più di una settimana, non sono ancora riuscito a riporlo nella mia libreria e a lasciarlo lì a prender polvere. Ogni tanto lo riprendo in mano e rileggo qualche passaggio che mi è piaciuto particolarmente.
Nello specifico, credo di essermi riletto lo splendido epilogo ormai quattro o cinque volte.
In IT c’è tutto quello che mi fa amare King alla follia.

Che dire, sono veramente contento di aver scoperto questo autore così eccezionale e sono ancora più contento se penso che devo ancora leggere la maggior parte delle sue opere.
Giusto per non farmi mancare nulla, ho già recuperato Duma Key, Stagioni diverse, Il miglio verde, Al crepuscolo, La bambina che amava Tom Gordon e Shining, ma comunque voglio cercare anche L’Ombra dello Scorpione e un po’ di altra roba.
Che poi una delle cose più deliziose dei romanzi di King è leggerli cogliendo tutti i riferimenti, le citazioni e i collegamenti tra le varie opere. In tal senso sarebbe più logico leggersi i libri in ordine di pubblicazione e non a casaccio come sto facendo io.
Intanto, se posso darvi un consiglio evitando di fare spoiler, vi suggerisco di leggere prima IT e, successivamente, 22/11/’63.
Fidatevi.

mercoledì 21 novembre 2012

A Feast for Crows

La genesi di A Feast for Crows è abbastanza contorta.
Inizialmente Martin aveva progettato di far passare un lasso di tempo di cinque anni tra gli eventi narrati alla fine del terzo libro de "Le Cronache del ghiaccio e del fuoco" e gli eventi raccontati nel quarto (che doveva intitolarsi A Dance with Dragons).
Questo consistente salto temporale doveva presumibilmente servire a delineare meglio la situazione politica dei Sette Regni e a far procedere alcune sotto-trame di importanza marginale.
Giunto a un buon punto della stesura del quarto libro, tuttavia, Ciccio-Martin si è accorto che la cosa non funzionava, di conseguenza ha deciso di fare tabula rasa e di scrivere un nuovo romanzo che facesse da collegamento tra A Storm of Swords e A Dance with Dragons.
Nacque così A Feast for Crows.
Il problema è che A Feast for Crows stava venendo troppo lungo, ergo il nostro amato scrittore trollone e barbuto ha deciso di segare via tutti i capitoli incentrati su alcuni dei protagonisti più interessanti, per poi inserirli in blocco nel libro successivo.
Insomma, il bordello!

La conseguenza di questa stesura travagliata è facilmente intuibile: A Feast for Crows è decisamente un romanzo meno interessante rispetto al suo predecessore.
L'impressione, a volte, è proprio quella di leggere un filler di oltre ottocento pagine che si concentra su archi narrativi di importanza secondaria.
Se avete letto qualcosa delle Cronache del ghiaccio e del fuoco, saprete che ogni capitolo è narrato dal punto di vista di uno dei protagonisti (i cosiddetti "POV characters").
Come ho spiegato, in questo libro mancano del tutto capitoli dedicati a personaggi fondamentali come Jon Snow, Daenerys, Bran o Tyrion. Personaggi che spiace un po' non poter rivedere, soprattutto perché alla fine di A Storm of Swords ci avevano lasciati con la voglia di scoprire in che modo si sarebbero sviluppate le loro vicende.
In compenso, qui troviamo un mucchio di capitoli dedicati a POV characters secondari a cui vanno ad aggiungersi svariati volti nuovi.

Se posso dirlo, ho trovato abbastanza antipatica la decisione di Martin di buttare nel calderone così tanti punti di vista inediti: arrivati a questo punto della saga sarei stato curioso di conoscere le storie dei protagonisti a cui mi sono già affezionato, non quelle di comprimari di cui non me ne importa praticamente nulla.
E' brutto da dire, ma la sensazione è quella di avere che fare con una brodaglia allungata.
Poi per carità, volendo vedere il bicchiere mezzo pieno la scelta operata dall'autore ha anche alcuni lati positivi.
Ampliando il numero di POV si contribuisce a sviluppare meglio la saga e a rendere il mondo in cui è ambientata ancora più affascinante.
In A Feast for Crows si pone attenzione su un sacco di faccende che, nei libri precedenti, rimanevano sempre sullo sfondo (vediamo per la prima volta Dorne, ad esempio). In questo senso la cosa è anche apprezzabile, il guaio è che la narrazione ne esce ancora più lenta e spezzettata di quanto fosse in precedenza.
I capitoli dedicati a personaggi di un certo spessore in realtà non mancano, ma sia gli archi narrativi di Arya e Sansa che quelli di Jaime si rivelano abbastanza noiosetti.
Per la prima volta, inoltre, sono presenti capitoli dedicati a Cersei, ma personalmente li ho trovati molto deludenti (più che altro perchè lei è odiosa ai limiti del sopportabile e il suo personaggio non riserva particolari sorprese).
Non aspettatevi inoltre colpi di scena a raffica come in A Storm of Swords, anzi.
Di fatto non accade mai nulla di rilevante fino alla fine del libro, quando in effetti avvengono un paio di eventi tutto sommato imprevedibili.

Il problema di A Feast for Crows, dunque, è proprio quello di essere un libro di passaggio.
Non è affatto brutto, ma purtroppo si limita a gettare le basi per ciò che accadrà in seguito, proponendo una narrazione sfilacciata e spalmata sui punti di vista di troppi personaggi minori, che spesso entrano in scena solo per pochi capitoli e faticano a tenere alta la soglia d'attenzione del lettore.
Il primo volume di A Dance with Dragons, da quanto ho capito, dovrebbe svolgersi più o meno in contemporanea a questo quarto libro e tornerà a concentrarsi sui protagonisti che qui sono stati lasciati da parte.
E meno male, perchè Tyrion mi manca un casino!

martedì 2 ottobre 2012

A Storm of Swords

Se c'è una cosa che mi piace del modo di scrivere di Martin è la sua imprevedibilità.
Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco sono sì interessanti perchè propongono un mondo fantasy diverso dal solito e tratteggiato fin nei minimi particolari, ma la loro caratteristica più peculiare è proprio la capacità di lasciare di sasso il lettore con twist della storia inaspettati.
A Storm of Swords, terzo libro della saga, è proprio l'apoteosi di questa spiazzante imprevedibilità.

Se A Clash of Kings aveva il difetto di essere un libro in cui accadevano ben poche cose interessanti, A Storm of Swords ha quasi il problema opposto.
Nelle sue milleduecento pagine succede di tutto e di più.
Quasi in ogni capitolo c'è un evento importante e sorprendente, qualcosa che sconvolge il punto di vista dei protagonisti o che rimescola completamente le carte in tavola.
Martin dimostra di essere uno scrittore che non si fa troppe paranoie a spiazzare il lettore con morti inattese o stravolgimenti che modificano totalmente la psicologia di determinati personaggi (mi sto mordendo la lingua per non spoilerare, sappiatelo).
Il bello, infatti, è che i colpi di scena non sono mai messi lì semplicemente per fare la sparata ad effetto, ma sono quasi sempre funzionali all'evolversi della vicenda e alla caratterizzazione dei protagonisti.

E a proposito di caratterizzazione, anche stavolta tocchiamo vette sublimi.
Personaggi che fino allo scorso libro ci sembravano quasi dei villain "bidimensionali" qui acquistano rinnovato spessore e si rivelano ben più sfaccettati di quanto potessero sembrare.
Il confine tra "buoni" e "cattivi" è spesso labile e, salvo rare eccezioni (Joffrey è sempre una merda umana), sono le motivazioni e i punti di vista a fare la differenza sulla percezione che si ha di un determinato personaggio o di un determinato evento.
In base al tipo di relazione che un protagonista ha con un altro può cambiare veramente tutto quanto.
Ed è sempre un piacere vedere come qualsiasi cosa possa apparire bianca o nera a seconda che sia osservata da Caio o da Tizio.

A Storm of Swords è un romanzo fantasy bellissimo. Lungo, denso, magari fin troppo pieno di nomi, di fatti e di dettagli da ricordare, ma allo stesso tempo dannatamente scorrevole e assuefacente.
Per ora lo considero a mani basse il miglior libro della saga di Martin, vediamo se i due che restano sapranno farmi cambiare idea.

Ho letto A Storm of Swords nella sua edizione italiana.
Nel nostro paese il libro è stato suddiviso in tre volumi di circa quattrocento pagine ciascuno: Tempesta di Spade, I Fiumi della Guerra e Il Portale delle Tenebre.
Per scofanarmi tutto ci ho messo poco più di un mese.
Noticina per chi segue la serie televisiva: questo terzo libro, vista la lunghezza, sarà suddiviso in due stagioni. Scelta che mi sento di condividere in toto, vista la mole di cose da raccontare.

mercoledì 25 gennaio 2012

Ready Player One


Ready Player One non è un capolavoro assoluto.
Di fatto il libro di Ernest Cline non é esattamente scritto in maniera impeccabile, è incredibilmente derivativo e non se la gioca assolutamente con i grandi capolavori della letteratura.
Stiamo parlando di un libro scorrevolissimo, che coinvolge tantissimo, ma che nessuno si sognerebbe mai di definire "punto di riferimento per il genere sci-fi".
Ciononostante, se come il sottoscritto amate i videogiochi, avete visto un'infinità di volte film come Star Wars, Blade Runner o Ritorno al Futuro e adorate qualsiasi cosa riguardi la cultura nerd anni '80, allora ignorate quello che ho appena scritto.
Perché per voi Ready Player One é una lettura obbligata, che amerete in maniera viscerale dalla prima pagina fino all'ultima.

Ma andiamo con ordine e spieghiamo un paio di cosette.
Ready Player One si svolge nel 2044, in un futuro in cui l'umanitá sta affrontando da decenni una pesantissima crisi economica ed energetica.
Il mondo sta andando a puttane. La maggior parte della popolazione mondiale è ridotta alla fame e alla povertá, vive in fatiscenti baraccopoli e ogni giorno deve fare i conti con una vita difficile e pericolosa.
La civiltà umana si sta avviando inesorabilmente verso il tracollo.
L'unica via di fuga, in questo mondo orribile, é rappresentata da un videogioco: OASIS.
Oasis è un gioco multiplayer online in cui gran parte dell'umanitá si rifugia per "scappare" dalla dura realtà di tutti i giorni.
Chiamarlo "gioco" è estremamente riduttivo visto che, interfacciandosi ad esso tramite una sorta di casco per la realtà virtuale, lo si puó utilizzare anche per lavorare, andare a scuola e fare ogni genere di attività che ci viene in mente.
Oasis è composto da centinaia di mondi diversissimi l'uno dall'altro.
Alcuni sono a tema cyberpunk, altri a tema fantasy, altri ancora sono interamente coperti da riproduzioni di luoghi reali.
Non solo, perché su Oasis si possono trovare persino pianeti che riproducono minuziosamente mondi visti in altre opere di fantasia del passato. Chi vuole può girovagare liberamente per tutti i sistemi della galassia di Star Wars o guadagnare punti esperienza combattendo orchi nella Terra di Mezzo.
Insomma, Oasis, pur essendo a tratti inquietante, é il sogno bagnato di qualunque nerd.

Un giorno James Halliday, geniale creatore di Oasis ossessionato da videogiochi, cinema e musica anni '80, muore senza lasciare eredi.
Prima di schiattare lascia un messaggio a tutti gli utenti di Oasis in cui afferma di aver nascosto un Easter Egg all'interno del gioco. Chi troverà questo Easter Egg, risolvendo tutti gli enigmi che lui ha seminato all'interno della simulazione, erediterà tutto il suo patrimonio e il controllo stesso di Oasis.
Parte così una gigantesca caccia al tesoro in cui tutti iniziano a studiare e a setacciare gli interessi di Halliday per cercare di decifrare l'unico indizio che ha lasciato prima di morire.
Giocare a vecchi giochi o guardare film usciti negli anni '80 fino a impararli a memoria sembra l'unico modo per arrivare a mettere le mani sull'Easter Egg.
Nonostante gli sforzi dei milioni di Gunter (vale a dire gli Egg Hunter), dopo cinque anni nessuno é ancora riuscito a fare un minimo passo avanti nella ricerca dell'Easter Egg.
Proprio nel momento in cui il testamento di Halliday inizia a sembrare ormai una leggenda metropolitana, un ragazzo povero in canna di nome Wade Watts riesce a risolvere la prima parte dell'enigma e prende così il via la storia di Ready Player One.
E qui si ferma anche il mio riassuntino, visto che non voglio rovinarvi la lettura.

Ready Player One è una storia avvincente e dotata di gran ritmo, uno di quei libri che inizi e non riesci a mollare fino a quando non sei giunto alla fine.
Me lo sono divorato nel giro di due giorni, cosa abbastanza rara considerando che di solito i miei ritmi di lettura sono lunghissimi.
Come si può intuire dalla sua premessa, é un romanzo ricco di citazioni e di riferimenti alla cultura pop anni '80.
I film, le canzoni e i videogiochi citati sono innumerevoli e la cosa bella è che questo marasma di citazioni non appesantisce minimamente la lettura, che come ho detto risulta sempre acchiappante.
Ma Player One non è un romanzo videoludico a tutto tondo solo per una questione di citazionismo, lo è anche per come i videogiochi e la cultura nerd si pongono costantemente al centro della vicenda.
Spesso si ha l'impressione di leggere una sorta di Harry Potter piú adulto in cui i videogiochi e le meraviglie del mondo nerd prendono il posto della magia.
Del resto stiamo parlando di un libro in cui i personaggi salgono di livello, equipaggiano armature atomiche e spadoni elfici, mettono in ordine il loro inventario, prendono allegramente per il culo gente piú forte di loro in territori non PvP, risolvono le dispute giocando a vecchi arcade e si spostano a bordo di caccia Tie o DeLorean volanti.
È un libro in cui i videogiochi, ma anche e soprattutto i videogiocatori stessi, sono i protagonisti.

Ready Player One è un romanzetto leggero e mai troppo pesante, sebbene (neanche troppo di sfuggita) tocchi argomenti abbastanza spinosi come l'isolamento o la dipendenza da giochi di ruolo online.
Fortunatamente Ernest Cline evita buttarla sul drammone e preferisce concentrarsi sullo sviluppo serrato della vicenda invece che ammorbarci calcando eccessivamente la mano sulla condizione grottesca in cui si trova il genere umano ormai assuefatto da Oasis.
Anche perché è una cosa che leggendo il libro si riesce a percepire benissimo attraverso gli occhi del protagonista (o almeno, io l'ho percepita e non ho sentito il bisogno di ulteriori pippe mentali).
Qualcuno potrebbe dire che in questo senso il potenziale di un libro come Ready Player One è sprecato, che si poteva osare di più, ma io non la vedo così, visto che il tutto funziona e il messaggio trasmesso dal libro mi pare chiaro.
Anche la caratterizzazione dei personaggi, pur essendo semplice ed essenziale, funziona alla grande e i rapporti tra Wade e i suoi amici virtuali sono quasi sempre ben tratteggiati.
C'è persino lo spazio per una bella storia d'amore e ovviamente non manca il nemico malvagio e implacabile che deve essere fermato a tutti i costi.

Altra cosa interessante é che il romanzo di Cline riesce anche a essere collegato a doppio filo a quello che è il mondo di internet odierno. I meccanismi che regolano Oasis sono spesso simili, se non identici, a quelli di popolari mmorpg come World of Warcraft.
Non solo, perché spesso il protagonista fa utilizzo di servizi di cui anche oggi facciamo uso quotidianamente. Certo, si potrebbe obiettare che è abbastanza ridicolo pensare che nel 2045 esista ancora YouTube o che il modo di parlare della rete non sia cambiato neanche un po' in quasi mezzo secolo.
Ma la cosa passa abbastanza in secondo piano nel momento in cui si comprende che tutto ciò, oltre ad essere in parte giustificato dal background di crisi economica e culturale, è probabilmente voluto dall'autore stesso per rendere in qualche modo Oasis un luogo famigliare al lettore dei giorni nostri.
Del resto ipotizzare in che modo potrebbe evolversi internet nei prossimi 40 anni è abbastanza impossibile, per come la vedo io.
Casomai si potrebbe storcere il naso vedendo che raramente si parla di videogiochi o film che vengono dopo il 2000 e questo potrebbe sembrare già un plot hole piú evidente. Ma qui il pretesto narrativo che giustifica la cosa c'è tutto, quindi non mi sembra il caso di lamentarsi.

Concludendo, Ready Player One è una bellissima storia a sfondo videoludico che vale la pena di essere assaporata.
Magari non sarà una pietra miliare, ma per quanto mi riguarda è uno dei libri che maggiormente mi hanno gasato negli ultimi anni.
E sì, soggettivamente lo considero un piccolo capolavoro.

giovedì 14 luglio 2011

Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco: ho tutto!

Recuperati tutti i libri delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco.
Che dire, durante le ferie avrò un bel po' di roba da leggere!
Dubito di riuscire a finire tutto entro la fine di Agosto come avevo preventivato.
Se è per questo dubito di finire anche entro Natale, ma vabbè...
Comunque sia, ho già iniziato Il Trono di Spade e sono circa a metà.
Sembrerà una cosa banale da dire, ma consiglio a tutti quelli che hanno adorato la prima stagione di Game of Thrones di recuperare i libri di Martin come ho fatto io. Fidatevi, ne vale assolutamente la pena.

L'unica roba che mi fa girare le palle è che mi sono spoilerato la morte di un personaggio leggendo il riassuntino sul retro di uno dei libri. Manco l'ho fatto apposta, semplicemente mi è caduto l'occhio mentre stavo facendo altro.

E ora vi lascio con questo video!
Magari lo avrete già visto, ma merita sempre!
"Stay low!"

martedì 5 luglio 2011

Letture estive

Teo: "Ho recuperato i primi quattro libri delle cronache del ghiaccio e del fuoco!"
Nab: "Non esiste "leggere" in Dothraki!"


Quanta verità nelle parole di un genovese interista.
Comunque sia, la prima stagione di Game of Thrones è finita nel modo in cui era cominciata, vale a dire in maniera spettacolare.
Che dire, una serie TV di una qualità allucinante, terminato il decimo episodio mi sentivo gasato come alla fine della prima stagione di Lost!
Hype, hype, hype e ancora hype!
Peccato che non appena ho realizzato quanto tempo mancasse all'inizio della seconda serie di Game of Thrones mi si sia istantaneamente ammosciato l'entusiasmo.
Quasi un anno, porco il cazzo.

Per ingannare l'attesa ho quindi deciso di recuperare i libri da cui è tratta la serie HBO, in modo da portarmi avanti con la storia degli Stark, dei Lannister e dei Targaryen.
Del resto, stando al parere di tutti quelli che li hanno già letti, i tomoni scritti da George R. R. Martin sono anche meglio della serie televisiva. Quindi oh, interessarsi all'opera di partenza era abbastanza naturale.
Poi ci sarebbe la spinosa questione "spoiler".
Parliamoci chiaro: riuscire a schivare ogni possibile anticipazione sulla trama in un anno di attesa? Sì, va bene, ciao.
Non per niente, durante la prima serie, Rikkyz era già riuscito a bruciarsi il colpo di scena più grosso. E lui di solito è uno che agli spoiler ci sta attento.

Quindi, visto che oggi passavo per puro caso dalla Ubik, ho pensato bene di entrare e di raccattare tutto il raccattabile.
Sì, perchè in realtà non ho trovato tutto.
I quattro volumi che vedete in foto sarebbero solo i primi due libri delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco.
Il Trono di Spade, per capirci, dovrebbe essere quello da cui è tratta la serie che si è appena conclusa. Che poi sarebbe solo la prima parte del primo libro, vale a dire, per l'appunto, A Game of Thrones.
Insomma, un gran casotto.
In totale, per il momento, sono stati pubblicati quattro libri, che nell'edizione italiana sono stati suddivisi in ben nove volumi.
Tra l'altro il 12 Luglio dovrebbe uscire in America il quinto libro della saga, A Dance with Dragons (no, per il momento non ho intenzione di leggerlo in inglese).

I libri che ancora mi mancano li recupererò in seguito.
Intanto inizierò a spararmi questi, in fondo direi che di roba ne ho in abbondanza.
Poi oh, magari mi rompo il cazzo dopo pochi capitoli e decido di aspettare tranquillamente la seconda stagione.
Del resto coi libri da millemila pagine tendo a comportarmi in due modi radicalmente differenti: o mi scoraggio e li pianto lì quasi subito, oppure mi scimmio e divento una specie di drogato che passa intere giornate a leggere, trascurando il sonno, il lavoro, la vita sociale e facendo solo qualche sporadica pausa per mangiare (nutrendomi con Red Bull e pizza a domicilio).
Insomma, divento un giocatore di World of Warcraft.
Belle cose.

domenica 30 settembre 2007

Harry Potter and the Deathly Hallows

Attenzione perchè questo post contiene parecchi spoiler.
Con un lievissimo ma in parte giustificato ritardo, mi metto a parlarvi dell'ultimo libro di Harry Potter. E stavolta è l'ultimo in tutti i sensi.
A causa dello spaventoso hype che girava intorno a Deathly Hallows dopo il Principe Mezzosangue e soprattutto a causa del timore che avevo che nei mesi che separavano l'uscita dell'edizione inglese da quella italiana mi sarebbe stato spoilerato TUTTO, l'estate scorsa ho deciso di accaparrarmi una copia inglese e di leggermela.
Mai decisione fu più saggia. Prima di tutto ho avuto per la prima volta il piacere e la soddisfazione di leggermi un libro in lingua originale (cosa che non avevo praticamente mai fatto se non per doveri scolastici). In secondo luogo perchè l'inglese della Rowling è effettivamente abbastanza semplice e comprensibile, per cui alla fine non ho quasi fatto fatica e i capitoli scorrevano via lisci come l'olio.
Parlando del libro in sè posso dire che senza ombra di dubbio merita parecchio e che alcune idee in esso contenute sono davvero ottime e geniali.
La struttura del romanzo è abbastanza simile a quella degli Harry Potter precedenti con l'unica differenza che stavolta va a perdersi l'ambientazione fantasy-scolastica che fino al sesto libro aveva caratterizzato la saga. Alla fine del Principe Mezzosangue Harry decide di mollare la scuola e di partire alla ricerca degli Horcrux, quindi stavolta per la maggior parte del libro non si vedrà Hogwarts. Al contrario Harry e i suoi amici saranno costretti a un'estenuante peregrinazione in giro per l'Inghilterra, costantemente braccati dai Mangiamorte e alla ricerca degli Horcrux, gli oggetti che rappresentano l'unico vero punto debole di Voldemort.
Nonostante questo la struttura dell'intreccio rimane simile a quella dei libri precedenti. La vicenda raccontata dura grossomodo un anno scolastico e come al solito in autunno si infittiscono i misteri, si scoprono sporadici dettagli durante l'inverno e viene risolto tutto in primavera.
Parlando della storia vera e propria possiamo dire che stavolta la Rowling ha per certi versi superato sè stessa. Lasciando per un attimo da parte le vicende di Hogwarts la scrittrice ha potuto mostrarci cosa accade nel Mondo Magico una volta che Voldemort sale al potere. Un Voldemort che in questo libro assume le connotazioni di un viscido e malvagio dittatore piuttosto che di uno spietato Signore Oscuro: anche quando raggiunge il potere impossessandosi del Ministero della Magia preferisce restare nell'ombra, lasciando i suoi gregari a compiere i misteri più sporchi, piuttosto che mettersi chiaramente in vista.
L'unica cosa che preme a Voldemort sembra essere sbarazzarsi una volta per tutte di Harry e impossessarsi della Elder Wand.
E' chiaro che la Rowling per caratterizzare Voldy e i suoi seguaci si sia palesemente ispirata al nazismo di Hitler e all'idea della razza ariana. Ciò si capiva già nei romanzi precedenti ma stavolta i riferimenti ai campi di sterminio e al concetto di pulizia razziale sono decisamente palesi, soprattutto vedendo come i Mangiamorte al potere trattano Mezzosangue, Babbani e Maghinò. Una storia molto più adulta e complessa rispetto ai libri precedenti. A proposito di questo ho trovato semplicemente fantastica la vicenda del giovane Silente e di Grindelwald. Vedere gli errori di gioventù commessi da un personaggio che fino al sesto libro veniva considerato il simbolo incarnato della saggezza è quantomeno straniante, ma senza dubbio contribuisce a rendere la figura del mago dalla barba bianca incredibilmente più vera e più umana.
Il personaggio che però esce vincente da Deathly Hallows è comunque Severus Piton. Il capitolo "flashback" che racconta la sua storia e la sua amicizia con Lily è sicuramente uno dei più belli degli interi sette libri e fornisce un enorme spessore a un personaggio veramente fantastico. Al contrario questo capitolo vi farà letteralmente odiare James Potter, ma diciamolo, è dai tempi dell'Ordine della Fenice che questo stronzo sta sul cazzo un po' a tutti. Odierete anche la Rowling, perchè se da un lato è stata brava a far rimanere Piton nell'ombra per la maggior parte della durata dell'ultimo libro, dall'altro ha gestito malissimo la sua morte. Meritava una fine decisamente più studiata e meno affrettata. Voglio dire, è quasi più commovente la dipartita di Dobby!
Se non altro mi è molto piaciuta la sequenza della finta-morte di Harry. Veramente bello (e da eroe, concediamoglielo) il modo in cui affronta la sua morte necessaria e profondissimo il capitolo onirico di King's Cross con il frammento dell'anima di Voldemort che trema e piange, impaurito dalla morte, mentre Harry, tranquillo e sereno capisce di aver trovato il potere che il suo nemico non conosce: avere il coraggio di morire, cosa che Tom Riddle non aveva mai saputo fare.
Potrei parlarvi di tante altre cose, ma preferisco fermarmi qui.
Deathly Hallows è comunque la degna conclusione per una saga che, non mi vergogno ad ammetterlo, in futuro mi mancherà parecchio. Un Harry Potter ben scritto e ben strutturato che piacerà sicuramente tanto a chi si è "mangiato" i sei libri precedenti. Magari alcune cose sono un po' scontate ma in questo la Rowling è stata bravissima a raccontare con maestria anche le cose che i fan avevano previsto da un pezzo, rendendole così molto godibili e appassionanti.
Bel libro e ottima saga.
Ah, a proposito l'edizione italiana dovrebbe intitolarsi "Harry Potter e i Doni della Morte" e dovrebbe uscire il 5 Gennaio 2008. Traduzione del titolo piuttosto azzeccata vista l'origine delle tre Deathly Hallows, devo ammetterlo.