lunedì 27 maggio 2013

Ti faccio la bolla!

Quando avevo sei anni, mi capitava spesso di fare un salto nel bar sotto casa.
Non perché a quell’età avessi già sviluppato una particolare forma di alcolismo infantile, o perché sentissi la necessità di comprare un pacchetto di Camel. Andavo al bar perché, nel retrobottega, c’erano due videogiochi.
Erano due cabinati enormi ed ingombranti, allineati a una parete dalla vernice scrostata. Quello più a destra era sempre spento. Probabilmente era rotto. Non ho mai saputo che razza di gioco fosse.
Quello a sinistra, invece, funzionava benissimo e faceva girare un titolo di lotta chiamato Street Fighter II. A quei tempi sapevo a stento leggere e mi riusciva difficile comprendere le scritte in lingua inglese, così lo chiamavo semplicemente “il gioco del karate”.
La cosa divertente è che, ogni volta che scendevo al bar, a giocare con quel videogame non c’era mai nessuno. La clientela del locale non era esattamente appassionata di videogiochi: si trattava per lo più di pensionati intenti a bere un bianchino alle otto del mattino, anziani annoiati che passavano la giornate lamentandosi dei giovani che scrivevano sui muri o dei politici che non combinavano mai un cazzo di buono.
Il proprietario però era simpatico. Era un sessantenne dalla faccia rubiconda e con un folto cespuglio di capelli grigi in testa.
Ogni volta che entravo nel suo bar mi sorrideva e mi diceva che “il videogioco” era già acceso. Chiaramente, quasi sempre, c’era il solito avventore che mi fissava scuotendo la testa e commentava dicendo “Quei cosi elettronici lì ti fanno diventare scemo”, ma io lo ignoravo e andavo al bancone a comprare una coca. Non ero obbligato a ordinare qualcosa, ma mi sembrava da maleducati entrare lì per giocare e basta.
Dopo aver bevuto la mia bibita correvo nel retrobottega, infilavo le mie preziose cinquecento lire nel cabinato e mi mettevo a giocare.
Sceglievo sempre Ryu, ma io lo chiamavo “Daniel-San”, come il protagonista di Karate Kid, il mio film preferito.
Ogni tanto prendevo il fazzoletto e pulivo lo schermo del cabinato mimando la famosa scena del “Dai la cera, togli la cera”. Era il mio gesto portafortuna, ma non aiutava molto, visto che il più delle volte morivo al terzo avversario.
Non ero molto bravo a giocare. Di solito premevo i tasti a casaccio e non avevo idea di come si eseguissero le mosse segrete. Anzi, in tutta onestà non sapevo nemmeno che si potessero fare, pensavo che fossero prerogativa dei personaggi controllati del computer.
I miei combattimenti erano delle danze sgraziate in cui alternavo calci e pugni. Riuscivo ad aver ragione degli avversari più lenti, ma non appena incontravo il Guile di turno venivo crivellato da una sassaiola di Sonic Boom e Somersault Kick, anche se all’epoca ovviamente ignoravo i nomi di quelle mosse.
Mia madre mi dava sempre un solo gettone, dunque quando compariva il game over non potevo quasi mai continuare la partita. Dico quasi perché ogni tanto riuscivo ad arrangiarmi con il resto della coca cola.
Le mie sessioni videoludiche erano brevi ma intense. Arrivavo al baretto, bevevo il mio “drink”, giocavo per dieci minuti e me ne tornavo a casa più felice e sereno di prima.
Un giorno, tuttavia, qualcosa cambiò.

Era un pomeriggio di giugno e la scuola era finita da pochi giorni.
Nel locale trovai il solito gruppetto di pensionati impegnati in una partita a scopone scientifico. Bevevano bianchini e usavano le bestemmie come intercalari.
Il proprietario sedeva al bancone sfogliando la gazzetta con aria annoiata, fumando una Marlboro che gli pendeva all’angolo della bocca.
Tutto come al solito, almeno apparentemente.
Non appena il proprietario si accorse della mia presenza, infatti, sollevò lo sguardo dal quotidiano che stava leggendo e mi disse «Oh, ciao! Vedi che oggi il gioco è occupato!».
Per un attimo non capii, poi realizzai. Sbirciai nel retrobottega e vidi che, accanto ai due cabinati, c’era qualcun altro.
Il barista sorrise e prese la solita coca da sotto il bancone. Sganciai la banconota da mille lire e bevvi la lattina tutta d’un fiato, dopodiché mi infilai di corsa nel retrobottega.
Con mia sorpresa vidi che c’era una bambina davanti al cabinato del gioco del karate. Era di qualche anno più grande di me (più tardi appresi che aveva dieci anni), portava una maglietta verde scolorita e aveva i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo.
Era talmente concentrata sulla sua partita che non si accorse della mia presenza. Con la sua Chun-Li stava cercando di mandare KO un agguerritissimo Blanka che, tuttavia, stava decisamente avendo la meglio. Nel giro di un minuto, infatti, il gigante verde si chiuse a palla e si scagliò con violenza contro la lottatrice cinese, sconfiggendola per la seconda volta di fila e facendo comparire la scritta “Continue?”.
La bambina tirò un pugno contro il cabinato e urlò un “CAZZO!” che mi fece rimanere di sasso.
Solo in quel momento la ragazza si voltò e vide che la stavo fissando con gli occhi sbarrati.
Si mise a ridere. «Ah, scusa, non mi ero accorta che c’era un bambino piccolo!» disse arrossendo un po’.
Un bambino piccolo…
«Puoi giocare tu, adesso! Se avessi avuto un altro gettone potevamo fare un doppio!» esclamò scostandosi dallo schermo.
Senza dire una parola infilai le mie cinquecento lire nel cabinato, continuando a fissarla. Che diavolo era un doppio, tra l’altro?
La ragazzina rimase di fianco a me, mentre compariva la schermata di selezione del personaggio.
«Ti secca se ti guardo mentre giochi?» chiese.
Risposi che andava bene, così lei prese uno sgabello e mi si sedette accanto con aria divertita.
Io scelsi come al solito Daniel-San e a quel punto attesi che il computer pescasse il mio avversario.
Mi toccò Dhalsim. Pessimo, gli arti allungabili di quell’indiano anoressico mi mettevano sempre in crisi.
«Ahaha. Sei fortunato!» commentò la ragazza. «Dhalsim è debolissimo!»
Evitai di risponderle e mi concentrai sulla partita.
Il combattimento cominciò. Saltai verso il mio avversario e quello intercettò il mio attacco con un calcio (ovviamente allungabile) che mi fece volare via. Tentai in tutti i modi di avvicinarmi, ma il bastardo mi teneva a distanza con i suoi pugni, che mi colpivano anche se mi trovavo dall’altra parte dello schermo. Digrignai i denti per la rabbia e riuscii a mandare a segno un paio di colpi, ma Dhalsim parò il terzo attacco e mi mandò a terra con uno Yoga Flame.
Primo round perso.
La ragazza mi fissò perplessa e io la guardai di rimando.
«Che cosa c’è?» le chiesi innervosito.
«C’è che stai sbagliando tutto. Devi colpirlo da lontano.»
Non capii. Come facevo a colpirlo da lontano? Daniel-San mica ce le aveva le braccia che si allungavano.
Ricominciai a giocare.
Il secondo round non andò troppo diversamente dal primo.
Quando la mia barra di energia si trovava più o meno a metà, la ragazza perse la pazienza, mi tirò una spallata e si mise ai comandi.
«CHE COSA FAI? STO GIOCANDO IO!» urlai scandalizzato.
«Ti faccio la bolla!» disse lei. «Così lo batti e vai avanti.»
Io non capivo. La bolla? La bolla potevano farla solo i nemici! O almeno era ciò che credevo.
Tornai a guardare lo schermo e vidi il mio Daniel-San muoversi con un’agilità che, quando ero io a manovrarlo, non possedeva.
Si avvicinò a Dhalsim con rapidità e gli sferrò un calcio volante in faccia, dopodiché arretrò, raccolse le mani, le scagliò in avanti e fece scaturire da esse una specie di bolla fiammeggiante blu che centrò in pieno l’indiano, togliendogli una quantità impressionante di energia.
Spalancai la bocca.
Fissai la ragazza, che stava giocando con una maestria che non avevo mai visto prima.
«COME HAI FATTO?» domandai sconvolto.
«A fare cosa?» chiese mentre continuava a riempire Dhalsim di mazzate, mandandolo infine KO.
«Quella cosa blu! La mossa speciale! Io non pensavo che si potesse fare!»
«Ma… Ma certo che si può fare. Pensavi che la bolla potessero spararla solo i nemici? Basta sapere la combinazione di pulsanti giusta. Se vuoi ti insegno.»
Ripresi i comandi del gioco, mentre la ragazza si apprestava a darmi istruzioni.
«È semplice.» spiegò. «Devi muovere dal basso in avanti la levetta con cui controlli il personaggio, eseguendo una specie di mezza luna. Così, vedi? Poi devi premere il tasto del pugno. Chiaramente devi farlo velocemente. Provaci.»
Ok, avevo capito. Incredibile, non avrei mai pensato che una femmina potesse diventare il mio “maestro Miyagi” personale.
Iniziò il terzo round. Tentai di eseguire la combinazione della bolla tenendomi a distanza dal mio avversario. I primi tentativi andarono a vuoto e mi ritrovai a tirare pugni all’aria. Quando iniziai a pensare che la bambina mi stesse prendendo in giro, finalmente sentii Daniel-San esclamare una frase strana in giapponese e, dalle sue mani, vidi uscire una bolla azzurra che colpì Dhalsim.
Urlai di gioia e la ragazza mi diede una pacca sulle spalle.
Grazie a quella mossa riuscii a sconfiggere il mio avversario con estrema facilità: innanzitutto la utilizzavo per stordirlo, tenendomi a distanza di sicurezza, poi gli andavo addosso, colpendolo prima con un calcio alto e poi con un calcio basso. Il colpo finale fu un pugno potentissimo. Dhalsim urlò di dolore con la sua voce digitalizzata e cadde rovinosamente al suolo al rallentatore.
Sullo schermo comparve la scritta “YOU WIN” e Daniel-San alzò il pugno verso il cielo in segno di esultanza, mentre gli elefanti barrivano sullo sfondo.
Avevo vinto!
Guardai la ragazza estasiato e lei mi sorrise, compiaciuta dei miei progressi.
«Mi chiamo Giulia!» disse con aria sbarazzina.

Quell’estate incontrai Giulia al bar quasi tutti i giorni. Solitamente ci davamo appuntamento nel primo pomeriggio e rimanevamo a giocare per almeno mezz’ora prima di andare a fare un giro al parco o a mangiarci un gelato in riva al lago.
Giocavamo spesso l’uno contro l’altra (ecco cos’era il misterioso “doppio”) e ben presto i gettoni non furono più un problema, almeno quando ci cimentavamo contro il computer, che ormai stava diventando un avversario troppo prevedibile.
I doppi ci servivano da allenamento: giocare contro persone reali era molto più difficile e impegnativo e, scontro dopo scontro, si diventava sempre più forti.
In breve tempo, andando a tentativi, imparai anche le altre mosse di Daniel-San: Giulia mi spiegò che il “pugno con salto” si chiamava Shoryuken, mentre il calcio rotante aveva un nome impronunciabile (Tatsumakisenpukyaku, ancora oggi non sono sicuro di scriverlo bene).
Dopo un mese di partite giornaliere eravamo diventati entrambi talmente bravi da riuscire ad arrivare fino a Vega, il secondo boss, utilizzando un solo gettone.
La prima volta che finii Street Fighter II (da quando c’era Giulia avevo smesso di chiamarlo “il gioco del karate”) era una piovosa mattina di fine luglio. Quando Bison venne colpito sul mento dal mio Shoryuken urlai di gioia e Giulia mi abbracciò strillando, sollevandomi da terra in preda all’euforia.
«CE L’HAI FATTA, CE L’HAI FATTA!»
Uno dei pensionati al bar, sentendoci fare tutto quel baccano, si voltò verso di noi fissandoci con aria severa, farfugliando incomprensibili parole in dialetto.
Lo ignorammo e ci gustammo il finale del gioco, una breve sequenza in cui Daniel-San si incamminava verso il tramonto, alla ricerca di nuovi avversari e nuove battaglie

I primi giorni di agosto io e Giulia ci salutammo ed andammo entrambi in villeggiatura con i nostri rispettivi genitori. Lei andò in montagna dai suoi nonni, io al mare.
Rimanemmo d’accordo che ci saremmo incontrati al bar il primo lunedì del mese di settembre. Volevamo provare a finire Street Fighter II con un personaggio diverso da Daniel-San.
Fu così che, quel giorno di fine estate, ci ritrovammo davanti al locale ed entrammo impazienti.
Notammo però che c’era qualcosa di strano. Il proprietario non era più lo stesso. Al posto del simpatico signore sempre intento a leggere la gazzetta c’era ora un giovanotto allampanato, con i capelli biondi tagliati a spazzola e una camicia elegante.
«Buongiorno, ragazzi!» disse il nuovo barista. «Posso esservi utile?»
Giulia lo fissò confusa. «Dov’è il vecchio proprietario?» chiese.
Il giovanotto sorrise e spiegò che il suo predecessore era andato in pensione e ora la gestione del bar era passata a lui.
Senza badarci troppo ordinammo la solita coca cola e, dopo averla bevuta, ci dirigemmo di corsa sul retro.
Ci bloccammo entrambi di colpo quando, con orrore, scoprimmo che i due cabinati erano scomparsi!

Al posto di Street Fighter II e del coin-op rotto vi erano ora due orrendi videopoker. Attorno a quelle macchinette c’era un capannello di pensionati intenti a dilapidare i propri risparmi. Uno di loro era lo stesso che, poche settimane prima, ci aveva rimproverati per il baccano che stavamo facendo.
Mi voltai verso Giulia e per un attimo mi spaventai vedendo la sua faccia. Era infuriata.
Si voltò di scatto e corse al bancone, dal nuovo proprietario.
«Dove sono i giochi?!» chiese.
Il giovane la guardò senza capire, poi si rese conto di cosa intendesse e rispose. «Ah, eravate qui per quelli? Mi dispiace, ma li ho dovuti togliere. Uno era rotto e sull’altro non ci giocava mai nessuno. Inoltre molti dei clienti si lamentavano, li trovavano fastidiosi.»
«Fastidiosi?!» sbottò incredula.
Io rimasi zitto, senza commentare. Vidi che uno degli anziani al videopoker si voltò verso di noi.
«Quei ragazzini…» lo sentii berciare rivolgendosi a un altro pensionato. «Sono talmente presi da quei giochi elettronici da sembrare dei drogati. Che mondo!» disse prima di tornare a smanettare con il suo gioco d’azzardo.
Il proprietario intanto continuava a fissare Giulia, senza sapere come comportarsi. «Mi dispiace, siete minorenni. Non potete giocare ai videopoker.»
Giulia, stizzita, pestò il piede destro per terra ed esclamò: «Non vogliamo giocare a quella MERDA!».
Il barista sbiancò, rimanendo senza parole, e Giulia mi afferrò per il braccio trascinandomi fuori dal bar. Ormai non avevamo più motivo per restare in quel posto.
Andammo al parco e ci sedemmo su una panchina. Non avremmo più giocato a Street Fighter II.
Nel nostro quartiere non c’erano sale giochi e né io né lei potevamo permetterci di comprare una console.
In un certo senso sapevamo entrambi che sarebbe finita così. Prima o poi anche il vecchio proprietario, se fosse rimasto, avrebbe deciso di liberarsi di quei vecchi cabinati per installare i più remunerativi videopoker.
Ripensai alle parole pronunciate dal pensionato: “Quei ragazzini… Sono talmente presi da quei giochi elettronici da sembrare dei drogati. Che mondo!”.
All’epoca ero troppo piccolo per capire la reale idiozia di quella frase, ma sapevo già che quella considerazione era totalmente sbagliata, frutto di stupidi luoghi comuni e di ignoranza. Io e Giulia non eravamo dei drogati.
Anzi, senza Street Fighter II non saremmo mai diventati amici, del resto per quale motivo una bambina di dieci anni avrebbe dovuto socializzare con un bambino di sei? Quel gioco invece ci aveva avvicinati, ci aveva fatto scoprire che avevamo cose in comune e ci aveva messo di fronte a delle sfide che avevamo superato aiutandoci e spronandoci a vicenda.
Di sicuro non ci aveva rincoglioniti.

Quando il pomeriggio volgeva ormai verso sera, ci incamminammo verso casa.
Passammo nuovamente davanti al bar.
Proprio mentre stavamo per lasciarcelo alle spalle, vedemmo che la porta d’ingresso si stava aprendo.
Con nostro immenso stupore, il vecchio proprietario uscì dal locale.
«Ehy, bambini!» esclamò vedendoci. «Che caso, ero giusto venuto a cercare voi!»
Aveva la solita faccia grassa e arrossata dal caldo, così come l’immancabile Marlboro all’angolo della bocca, ma quel giorno, al posto della gazzetta, teneva tra le mani quello che sembrava essere un grosso pacco regalo.
«Me ne sono andato senza dirvi niente e mi dispiace. Voi magari non sarete tra i miei clienti migliori, è vero, ma di sicuro siete i più simpatici. Ogni giorno portavate un po’ di allegria in questo covo di vecchiacci burberi. Quindi, insomma, visto che non ci vedremo più ho pensato di farvi un presente.»
Appoggiò il pacco per terra e si mise a braccia conserte con aria soddisfatta. «Apritelo!» disse.
Io e Giulia ci avventammo sul regalo, strappando in fretta e furia la carta colorata che lo avvolgeva. Quando ci rendemmo conto di quel che conteneva la scatola rimanemmo entrambi scioccati per la felicità.
«Vi piace? Il gioco è quello, no?» domandò l’ex proprietario del bar.
Giulia alzò gli occhi lucidi verso di lui e lo abbracciò ringraziandolo, scoppiando a piangere dalla gioia.
Io fissai il regalo e balbettai «È… è un Super Nintendo! Con Street Fighter II!»
Proprio così.
Il vecchio proprietario si era affezionato a noi a tal punto da regalarci il gioco che, ogni giorno di quella calda estate, ci aveva condotti nel suo bar. Non poteva permettersi due console, ma una sì. E sapeva che io e Giulia non avremmo mai litigato fra di noi per giocarci.
Lo ringraziammo commossi e corremmo a casa mia per collegare il regalo al televisore e giocare a Street Fighter fino alla mattina successiva, senza paura di spendere gettoni e senza quegli odiosi vecchi che dicevano stupidaggini.
Nei giorni seguenti finimmo il gioco con tutti i personaggi, imparammo tutte le mosse e poi io e Giulia iniziammo a mettere da parte i soldi per comprare altri titoli. Continuammo così per anni, fino a quando non passammo prima alla PlayStation e poi alla PlayStation 2.

Oggi io e Giulia siamo sposati.
Collegato al nostro televisore, in ogni caso, c’è sempre quel vecchio Super Nintendo che non abbiamo mai avuto il coraggio di vendere. Con una cartuccia di Street Fighter II inserita, ovvio.
Abbiamo anche una bambina di pochi mesi.
Credo che un giorno le insegneremo a fare la bolla!