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martedì 26 settembre 2017

It's dangerous to go alone. Una leggenda, una principessa, un eroe

Sono passati alcuni mesi dall’uscita di The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Dopo averlo giocato e sviscerato a fondo, è arrivato il momento di parlarne, anche se molto è già stato scritto da altri. Ho aspettato a dire la mia perché l’opinione su un gioco del genere andava lasciata sedimentare, in modo da non risultare viziata da entusiasmi “di pancia”. Questo Zelda, essendo un vero e proprio titolo spartiacque tra tutto ciò che è venuto prima e tutto ciò che è destinato a venire dopo, si meritava una riflessione lucida e distaccata, non un commento scritto a caldo sull’onda dell’emotività.

Per parlare di Breath of the Wild bisogna partire da Ocarina of Time.
Arrivato verso la fine del 1998, “Zelda 64" segnò il passaggio della serie dal 2D al 3D. La sua portata rivoluzionaria non fu paragonabile a quella che Super Mario 64 ebbe nei confronti dei platform (e del videogioco tutto), ma Ocarina riuscì comunque a traslare alle tre dimensioni la struttura ludica di A Link to the Past in modo indolore, introducendo meccaniche che sarebbero diventate la norma per molti titoli usciti da lì in avanti (pensiamo banalmente alla Z-targeting). Si trattava di un gioco impressionante, che colpiva per la complessità dei suoi dungeon e per il senso di meraviglia che il microcosmo di Hyrule riusciva a trasmettere. A rivederlo con gli occhi di oggi, soprattutto dopo la maestosità di Breath of the Wild, Ocarina mette quasi tenerezza nella sua essenzialità anni Novanta; ma all’epoca nulla superava la sua atmosfera, fiabesca quando indossavamo i panni di Link bambino, apocalittica nelle vesti di Link adulto.

Dopo il grande salto generazionale rappresentato da Ocarina of Time, Nintendo cercò di evolvere The Legend of Zelda nei modi più disparati. Spesso in direzioni originali, andando controcorrente rispetto alle aspettative dei videogiocatori. Persino Twilight Princess, che in un certo senso rappresentava l’anima più reazionaria della saga (fu presentato all’E3 2004 con un trailer che aveva la colonna sonora di Conan il barbaro in sottofondo), propose sezioni di gioco anomale in cui Link si trasformava in un lupo.
Majora’s Mask, che a prima vista poteva essere scambiato per un more of the same di Ocarina, era in realtà un gioco folle, con una struttura ludica basata sul concetto di loop temporale.
Allo Space World 2001, invece, la presentazione di The Wind Waker fu spiazzante. Ci si aspettava una sorta di “Dark Zelda” che traghettasse verso il realismo lo stile visivo di Ocarina e Majora, invece Nintendo se ne uscì con “Celda”: uno titolo realizzato in cel-shading, che sembrava quasi un cartone animato di Miyazaki. Uno Zelda che oggi, proprio in virtù di questo suo stile grafico peculiare, resta ancora bellissimo da vedere. E The Wind Waker continuò a mescolare le carte in tavola anche oltre il mero aspetto visivo, sostituendo le pianure di Hyrule con un oceano navigabile.
La volontà di proporre qualcosa di nuovo si percepiva anche in Skyward Sword, che tentava di rendere più sfumato il confine tra dungeon ed overworld, e nelle trovate di alcuni episodi portatili, su tutti A Link Between Worlds (di cui parleremo tra poco).

The Legend of Zelda, tuttavia, nel dopo Ocarina ha sempre approcciato il cambiamento in modo estremamente prudente, rimanendo fedele a quelli che, fino a Breath of the Wild, erano i canoni della serie. Certo, si modificava l’approccio, si proponevano dinamiche nuove, ogni tanto si giocherellava con il sistema di controllo (sensori di movimento su Wii e touch screen su DS), ma Zelda rimaneva sempre ancorato a un certo tradizionalismo di fondo. Ogni tanto, poi, qualche magagna faceva capolino e macchiava titoli altrimenti memorabili. Il mare di The Wind Waker, per quanto poetico, dava luogo a lunghe traversate che rompevano il ritmo del gioco nella sua seconda metà. Skyward Sword aveva invece le sezioni stealth nel Silent Realm, che alla lunga potevano diventare tediose e ripetitive.
Per molti anni Zelda è stata una serie di qualità sopraffina che, pur sperimentando e pasticciando con la propria struttura in ogni sua nuova iterazione, sembrava faticare a capire quale strada prendere per tornare a sconvolgere i videogiocatori. Qualcuno, addirittura, auspicava che la saga seguisse il destino di Metroid e finisse nelle mani di Retro Studios. Inizialmente persino le dichiarazioni di Aonuma su Breath of the Wild furono prese con cautela da pubblico e critica.

Dopo anni di attesa, durante i quali il gioco è stato rinviato più volte, perdendo l’esclusività Wii U e diventando il secondo Zelda cross-generazionale (il primo fu Twilight Princess), Breath of the Wild è finalmente uscito, accompagnando il lancio di Switch e riuscendo finalmente a stravolgere la serie a cui appartiene.
Nintendo ce l’ha fatta: Zelda è cambiato. È diventato più grande, più attuale e più epico, restando comunque coerente con la propria natura. Anzi, forse questa sua nuova forma lo avvicina ancora di più alla filosofia del primo titolo della saga e all’idea che nel 1986 ispirò Shigeru Miyamoto: far provare ai giocatori le stesse sensazioni che provava lui quando, da bambino, esplorava i boschi, i campi e le grotte nei dintorni di Kyoto.

Le radici del cambiamento rappresentato da Breath of the Wild affondano nello splendido A Link Between Worlds, uno Zelda portatile che, pur essendo legato a doppio filo allo storico episodio per Super Nintendo (di cui è il seguito), potrebbe essere scambiato facilmente per un titolo minore e di scarse pretese. Nulla di più sbagliato. Uscito su 3DS alla fine del 2013, A Link Beteen Worlds proponeva infatti la grande novità della progressione non lineare. Tutti gli oggetti erano disponibili praticamente dall’inizio dell’avventura e il giocatore poteva scegliere in quale ordine affrontare i dungeon.
Ebbene, la caratteristica più peculiare di Breath of the Wild è proprio la libertà di approccio.
Fin dalle fasi iniziali del gioco, Link è lasciato senza vincoli. Certo, nelle prime ore siamo bloccati sull’Altopiano delle Origini, ma questa sezione introduttiva che fa da “tutorial” ci lascia già assaporare in scala ridotta la spaventosa libertà di cui godremo nel resto del titolo. E in effetti, utilizzando un minimo di ingegno, esiste addirittura la possibilità di abbandonare l’Altopiano prima del tempo.
In Breath of the Wild l’intero regno di Hyule è quindi liberamente esplorabile quasi da subito: niente confini invalicabili, solo ostacoli naturali che possono essere superati o, al limite, aggirati. Questo è ufficialmente il primo Zelda “No Border”. Possiamo andare dove vogliamo e fare quello che vogliamo, basta saper cogliere le possibilità che il gioco ci mette a disposizione. Vogliamo scalare un ghiacciaio senza vestiti pesanti? Raccogliamo dei peperoncini, prepariamo una pietanza che ci protegga dal freddo e partiamo. Vogliamo sfidare nemici particolarmente potenti? Possiamo lanciarci allo sbaraglio, oppure cercare dei Cuoranelli e cucinarli con della carne, ottenendo una grigliata che aumenti i cuori a nostra disposizione. A nostro rischio e pericolo, è persino possibile andare direttamente da Ganon e affrontarlo. Ma in fondo che senso ha correre verso la fine dritti come fusi, quando c’è un mondo così vasto da esplorare?

Di videogiochi open world, in questo ultimo decennio, ne abbiamo visti un’infinità. Il free roaming è stato declinato in ogni salsa, in giochi capaci spesso di sfiorare l’eccellenza. Basterebbe fare i nomi di GTA V, Red Dead Redemption e The Witcher 3: Wild Hunt. Ma sono molti altri, in realtà, i titoli che ci hanno regalato mondi vastissimi in cui è stato divertente perdersi. Pensiamo per esempio allo spettacolare Just Cause 2: girare per Panau con rampino e parapendio, facendo esplodere qualunque cosa ci capitasse a tiro, era un autentico spasso.
Nintendo ha sostanzialmente preso tutte le caratteristiche migliori degli open world di scuola occidentale e le ha utilizzate per realizzare uno Zelda. Il risultato è un gioco vasto come un titolo Rockstar in cui il mondo è denso di cosa da fare come quello di Ocarina of Time. Questa è la misura della cura con cui è stato realizzato Breath of the Wild e di ciò che ha da offrire in termini di gameplay.
In questa Hyrule non ci si annoia mai. Non c’è mai un punto morto e non si trova mai una zona della mappa che sia vuota. C’è sempre una quest dietro l’angolo, un seme Korogu da raccogliere, un enigma da risolvere. È un gioco in cui, come accade soltanto nei migliori titoli Nintendo (Mario 64 insegna), è divertente anche solo andare a zonzo senza una meta, perché puntualmente si trova qualcosa che attira la nostra attenzione e finisce per tenerci incollati alla console per un’altra ora.

Attraversare questo regno funestato dalla Calamità Ganon è così piacevole anche grazie alla presenza della paravela e alla possibilità di scalare qualsiasi superficie. Scalata e paravela, esattamente come la combinazione di rampino e parapendio del citato Just Cause 2, esaltano la verticalità degli ambienti. Arrampicarsi sulla cima di una torre Sheikah e planare dolcemente verso il luccichio arancione di un sacrario è un’operazione che viene ripetuta più volte nel corso delle ore di gioco, ma che tuttavia lascia sempre col fiato mozzato. Ed è strano, perché in fondo non si tratta di qualcosa di così diverso dal celebre leap of faith proposto negli Assassin’s Creed (altro open world occidentale). Qui però a fare la differenza è il game design Nintendo che, in una perfetta alchimia tra meccaniche di gioco e direzione artistica, riesce a rendere appagante qualsiasi nostra azione, in modi che altri sviluppatori si sognano.

Un'altra caratteristica che rende il mondo di Breath of the Wild così vivo e verosimile è la straordinaria implementazione della fisica. Sembrerà un’esagerazione, ma in realtà non è tanto campato per aria affermare che questo Zelda potrebbe tranquillamente chiamarsi Half-Life 3.
Half-Life 2 rivoluzionava i videogiochi grazie ad un motore fisico che portava l’interazione con gli ambienti di gioco a livelli mai sperimentati prima. Breath of the Wild non ha ovviamente il medesimo impatto, ma è la prima volta che, in un mondo open world così vasto, è possibile interagire in maniera tanto profonda con quello che ci circonda. Ciò, come è ovvio, si riflette nel modo in cui risolviamo gli enigmi, affrontiamo i nemici o, più semplicemente, ci spostiamo. Spesso il gioco consente approcci diversi, lasciando totale libertà all’inventiva del giocatore ed incoraggiando le soluzioni creative. Vogliamo attivare un interruttore creando un circuito artigianale? Prego, appoggiamo i nostri oggetti di metallo sul pavimento e mettiamoli in fila in modo che conducano energia elettrica!
In effetti all’elettricità è meglio stare attenti anche quando si scorrazza per le valli di Hyrule. In caso di temporale, infatti, spade e armature possono attirare pericolosi fulmini.
Anche le condizioni meteorologiche, ovviamente, influiscono sul gameplay. Arrampicarsi su una parete di roccia resa scivolosa dalla pioggia non è affatto semplice. Come ho accennato prima, poi, Link è sensibile al caldo, al sole e al freddo. I numerosi vestiti presenti nel gioco non sono solo un vezzo estetico, ma risultano necessari per sopravvivere alle temperature rigide del monte Ranel o al clima sahariano del deserto Gerudo. Certo, si può correre ai ripari preparando pozioni e cibi particolari (che tuttavia offrono un tempo di protezione limitato), ma questa meccanica degli abiti che vanno continuamente avvicendati porta a quello che, forse, è il cambiamento più evidente di Breath of the Wild: Link non è più legato alla sua classica tunica da Peter Pan.

Questo, tra le altre cose, è di sicuro lo Zelda in cui si passa più tempo all’aria aperta, esposti alle intemperie. Il motivo è molto semplice: non esistono più i dungeon. È vero, ora ci sono i Colossi Sacri, ma è innegabile che queste titaniche macchine create dagli Sheikah non siano paragonabili ai labirinti dei precedenti episodi della serie, che rappresentavano a tutti gli effetti il cuore di quei vecchi giochi. Qui i colossi svolgono un ruolo centrale nella storia, ma sono solo una piccola parte di quello che il titolo ha da offrire.
Breath of the Wild sposta definitivamente il focus della saga dai dungeon all’overworld, ma non bisogna credere che il numero di enigmi sia drasticamente diminuito rispetto al passato. Sparsi per Hyrule ci sono infatti i sacrari, che vanno trovati e completati per ottenere gli Emblemi dell’Eroe, utili ad aumentare il numero di cuori o ad aggiungere una tacca alla barra del vigore.
I sacrari propongono sfide estremamente diversificate: si va dalle sezioni di combattimento contro i Guardiani a piccole stanze contenenti puzzle da risolvere utilizzando i poteri della tavoletta Sheikah. Queste stanze, per filosofia e atmosfera, mi hanno ricordato tantissimo quel capolavoro di Portal. Ma non è finita qui, perché spesso trovare a un sacrario è una sfida nella sfida. Alcuni di essi sono ben nascosti in aree di gioco difficili da raggiungere, altri invece richiedono la risoluzione di complesse quest per essere attivati e diventare così accessibili. È il caso, per citare l’esempio più famoso, del sacrario di Korgu Chideh, che si trova su un’isola dove, privati di tutti i nostri oggetti, ci troviamo catapultati in una missione di sopravvivenza.

Probabilmente l’unico aspetto negativo dei numerosissimi sacrari è la loro monotonia dal punto di vista estetico. Questi luoghi, che nella mitologia di Zelda sono degli appositi templi creati dagli Sheikah per addestrare l’Eroe, visivamente finiscono per assomigliarsi un po’ tutti, poiché propongono ogni volta il medesimo stile architettonico. Nulla di grave, capiamoci, ma è inevitabile che questa mancanza di varietà, dopo qualche ora di gioco, si faccia sentire. Per altro anche i Colossi Sacri soffrono dello stesso problema. In Ocarina of Time il Water Temple era diversissimo dal Forest Temple, qui invece è difficilotto distinguere dall'interno un Vah Ruta da un Vah Naboris, almeno ad una prima occhiata.

Breath of the Wild, per quanto eccezionale in ogni suo aspetto, non è esente da difetti. Poche carenze, su cui si potrebbe tranquillamente sorvolare, perché non è detto siano fastidiose per tutti i videogiocatori. Ma è importante evidenziarle, anche solo per capire in cosa Zelda potrebbe migliorare nei prossimi episodi.
I Colossi Sacri, ad esempio, per quanto siano stati una scelta coraggiosa, non sono divertenti quanto i vecchi dungeon. Personalmente li ho trovati soltanto una versione “allungata” dei sacrari e, a distanza di mesi, posso facilmente identificarli come le sezioni meno appaganti di questo gioco. Voglio precisare, non mi sto riferendo alla loro funzione nella storia (anzi, da quel punto di vista mi sono piaciuti un mondo, così come i loro Campioni), parlo proprio di ciò che mi hanno offerto in termini di gameplay. L’eredità dei vecchi labirinti è un aspetto su cui sicuramente Nintendo può lavorare.
Ho trovato invece di poco conto alcuni dei difetti di cui si sono lamentati altri giocatori. La meccanica di usura delle armi, per quanto inizialmente noiosa ed invasiva come evidenziato da molti, spinge a sperimentare, a provare tutti gli strumenti che i nemici sconfitti abbandonano a terra. In questa maniera il sistema di combattimento ne guadagna in strategia e varietà, pur pagando il prezzo di qualche leggero calo di ritmo. Già più scomodo, invece, l’inventario, così come il sistema di preparazione del cibo. Cucinare è un’operazione che diventa presto monotona e probabilmente non sarebbe stato male avere un ricettario che tenesse nota delle ricette già scoperte. Anche qui, comunque, più che di difetti che compromettono la qualità del gioco si parla di elementi che, con qualche accorgimento (soprattutto a livello di interfaccia), potevano essere più dinamici.

Si è detto infine che questa Zelda, paradossalmente il primo capitolo della saga con dialoghi doppiati, possiede carenze sul piano narrativo.
Se Skyward Sword era stato criticato per una narrazione fin troppo logorroica, Breath of the Wild è andato incontro a critiche opposte: un titolo eccellente da giocare, in cui però la storia è relegata in secondo piano e viene raccontata con superficialità.
Non sono assolutamente d’accordo.
The Legend of Zelda: Breath of the Wild è un gran bel racconto fantasy in cui la narrazione procede con grande eleganza, amalgamandosi perfettamente con il gameplay. Come è sempre accaduto nei migliori capitoli della serie (da A Link to the Past ad Ocarina), siamo noi giocatori a costruire l'avventura di Link vivendo il suo viaggio. La vicenda che fa da antefatto al gioco viene raccontata con brevi ma incisivi flashback, che riescono a delineare la storia di questa versione del regno di Hyrule con grande potenza. Per una volta, anche l’escamotage narrativo del protagonista che perde la memoria viene sfruttato in maniera intelligente e contribuisce a rendere ancora più intensa l’atmosfera del gioco. Quando Link si sveglia e l’avventura inizia, noi non sappiamo nulla del mondo che ci circonda. Le prime ore che passiamo sull’Altopiano delle Origini sono caratterizzate da una sensazione di straniamento e di mistero che pochi giochi riescono a restituire. Persino l’idea di risvegliare i ricordi sopiti dell'eroe visitando determinati luoghi è geniale nella sua semplicità, poiché è un ulteriore incentivo all’esplorazione. La storia di Breath of the Wild è, se vogliamo, essenziale, ma attraverso poche e decise pennellate, senza mai spezzare la giocabilità, dipinge una delle Hyrule più affascinanti di sempre.
La stessa caratterizzazione della principessa Zelda è memorabile.
Nintendo ha sempre cercato di stratificare il personaggio femminile che dà il nome alla serie, elaborando la figura letteraria della fanciulla in pericolo. Questo probabilmente è il gioco in cui tale figura viene riletta meglio: Zelda appare inizialmente come un’adolescente insicura, che vive un rapporto difficile con suo padre e si sente inadeguata al compito di affrontare le tenebre che minacciano il suo regno. Tuttavia non si arrende. Cerca infatti di studiare un modo per sconfiggere Ganon recuperando l’antica tecnologia della civiltà Sheikah. Quando il suo nemico riesce inaspettatamente a sconfiggere i Campioni e a prendere il controllo delle macchine ancestrali, Zelda lo fronteggia e, da sola, riesce a contenerlo per cento anni all’interno del castello di Hyrule, mentre Link è in coma all’interno del sacrario della rinascita.
Il ruolo di Zelda è dunque decisivo. La giovane principessa si dimostra un personaggio umano sia nelle proprie debolezze che nella propria determinazione. È un’eroina tutt’altro che passiva allo svolgersi degli eventi.

Breath of the Wild, insomma, non sacrifica la narrazione sull’altare del gameplay. Al contrario prova a dosarla, per renderla quanto più possibile coesa con il proprio impianto ludico.
Il risultato è un gioco epico che, come accennato, nelle fasi iniziali è quasi spaesante. È in questo aspetto che Breath of the Wild ripropone con maggiore fedeltà quella che era l’atmosfera di The Legend of Zelda per NES. Anche lì Hyrule era un luogo misterioso, che trasmetteva uno strano senso di inquietudine. Qui accade lo stesso. Viaggiamo attraverso un regno colorato, dalla natura rigogliosa e popolato da creature buffe che contrappongono il loro aspetto cartoon al realismo degli scenari; tuttavia percepiamo una minaccia costante, che si acuisce mano a mano che ci avviciniamo al castello in cui Ganon è confinato e vediamo i segni sempre più evidenti della distruzione.
C’è un che dei Grandi Antichi di Lovecraft nella caratterizzazione della storica nemesi di Link e Zelda. Anche qui, per certi versi, torniamo alle origini della serie: il Ganon di Breath of the Wild è un'entità mostruosa che ci viene presentata immediatamente come una calamità. Una forza di male assoluto totalmente disumanizzata, lontana anni luce sia dal guerriero Gerudo dell’incipit di Ocarina of Time che dal villain quasi shakespeariano dell'epilogo di The Wind Waker. Incontriamo questa incarnazione di odio e rancore solo alla fine del gioco, ma ne percepiamo la presenza per tutta l’avventura.
Entrando nel castello di Hyrule (il cui level design sarebbe in effetti un ottimo punto di partenza per quella che potrebbe essere l’evoluzione dei dungeon), sperimentiamo insieme a Link lo stesso terrore che avevano fronteggiato i Perdenti entrando nella tana di It, la stessa angoscia che attanagliava Frodo davanti ai cancelli di Mordor.

Questo episodio di Zelda si dimostra un degno erede del capostipite della saga anche per quanto concerne il livello di sfida. Non è ovviamente altrettanto ostico, ma la libertà di esplorazione che concede può spesso portare il giocatore sprovveduto di fronte a situazioni troppo ardue per le sue capacità. Combattere contro un Lynel è un’esperienza traumatica anche dopo molte ore di gioco. La difficoltà stessa dei boss varia parecchio in base a quanto sia stato potenziato il nostro Link. Nei primi giorni dopo l’uscita del titolo sono fioccati addirittura i paragoni con Dark Souls, ma onestamente mi sembra un accostamento azzardato: semplicemente, questo Zelda lascia al giocatore molta libertà, permettendogli di commettere errori e di sbattere la testa. Non è un soulslike, è solo un gioco che non ci prende per mano, concedendoci di scoprire le cose da soli. Un gioco alla portata di tutti che, a seconda di come viene affrontato, può rivelare picchi di difficoltà inaspettati.

Nintendo ha saputo dunque cambiare Zelda e ci è riuscita seguendo due strade.
La prima via l’ha portata a prendere ispirazione dagli open world occidentali, pescando idee di giochi belli ma imperfetti (spesso esageratamente bistrattati?) e sviluppandole per creare un capolavoro senza sbavature. Da qui non si tornerà indietro, perché chiunque, in futuro, dovrà fare i conti con la vastità, l’opulenza ludica e il valore artistico di Breath of the Wild, tenendolo come metro di paragone.
La seconda strada ha portato invece Nintendo a guardare alle proprie spalle, riprendendo la filosofia del gioco di avventura che era il primo titolo per NES ed adattandola alle caratteristiche del videogioco moderno.
Resta ora da capire in quale direzione potranno andare i prossimi titoli della serie. Fare previsioni non serve perché, come abbiamo visto, già in passato la grande N è stata capace di spiazzarci.
E in fondo, per una volta, non sentiamo nemmeno il bisogno di guardare al futuro. Breath of the Wild è qui ed è più bello che mai. È un titolo impressionante come lo era stato solo Super Mario 64. Ed è la cosa migliore capitata ai videogiochi dai tempi di Half-Life 2. Ho aspettato mesi per dirlo, ma ora è il momento di affermarlo con convinzione.
Che la Triforza ci protegga dalla follia dei nostri tempi.
Lunga vita a te, principessa Zelda!

martedì 19 settembre 2017

Thimbleweed Park

Sono nato nel bel mezzo degli anni Ottanta e, come molti miei coetanei, ho trascorso l'infanzia portandomi un Game Boy nello zaino e passando pomeriggi sulle console a 16 bit. Tuttavia non sono mai stato un grande giocatore PC, anche perché in casa mia un computer ci è arrivato solo verso la fine del 1995. Mi sono dunque perso gli anni d'oro della avventure grafiche LucasArts. Day of the Tentacle, Maniac Mansion, i Monkey Island, Indiana Jones and the Fate of Atlantis... tutti giochi di cui da bambino sentivo parlare, ma che ho avuto occasione di conoscere in modo approfondito solo qualche anno più tardi.

Su di me, di conseguenza, Thimbleweed Park non ha potuto contare sullo stesso deflagrante "effetto nostalgia" che immagino abbia investito come un treno carico di girelle i videogiocatori cresciuti a pane e SCUMM. Il nuovo gioco di Gary Winnick e Ron Gilbert, però, non è solo un omaggio a un passato che non c'è più. È un'avventura grafica che, ereditando le meccaniche e lo stile di titoli usciti più di vent'anni fa, riesce ad essere rilevante anche al giorno d'oggi.

Il gioco si svolge nel 1987 ed è un brillante incrocio tra un giallo dai toni sci-fi e una commedia.
Gli agenti federali Ray e Reyes arrivano nella contea di Thimbleweed Park per indagare su un omicidio. Nel corso delle indagini, oltre ai bizzarri abitanti della città, incontreranno Delores, un'aspirante programmatrice di videogiochi, e Ransome, un clown su cui la strega locale ha scagliato una maledizione. Infine verranno a conoscenza della scomparsa di Franklin, il padre di Delores, che a loro insaputa è stato assassinato ed è diventato un fantasma.

Controllando questi cinque personaggi giocabili (quattro viventi ed un'entità ectoplasmatica) bisognerà venire a capo del mistero che avvolge la cittadina, destreggiandosi tra enigmi intricati e dialoghi surreali.
La storia, raccontata in modo divertente e divertito, scorre che è un piacere. È impossibile non lasciarsi sedurre dall'atmosfera e dai toni sopra le righe di un titolo che riesce a risultare coinvolgente senza mai prendersi sul serio. Il merito è anche da attribuire alla straordinaria traduzione italiana, che mantiene intatta la freschezza e la genialità della scrittura di Gilbert (SPOILER: al punto in cui Franklin deve cercare di ottenere un oggetto esprimendosi come un paninaro stavo morendo).

Certo, bisogna venire a patti con una struttura ludica che a molti potrebbe apparire eccessivamente complicata e anacronistica. L'interfaccia è presa di peso dalle storiche avventure grafiche Lucas e la difficoltà degli enigmi è spesso calibrata verso l'alto. Non sempre risulta chiaro cosa fare per procedere nella storia e i giocatori meno avvezzi alle meccaniche dei vecchi punta e clicca avranno inevitabilmente qualche problema a venire a capo di situazioni che richiedono materia grigia e una certa capacità di pensiero laterale. Fortunatamente Thimbleweed Park non si fa problemi a fornire un efficace sistema di aiuti e, addirittura, una modalità Casual che riduce i passaggi necessari per risolvere determinati enigmi, dando alla narrazione un ritmo decisamente più rapido. Lo scotto da pagare è che, giocando a questo livello di difficoltà, alcune aree non saranno accessibili, quindi molte chicche che il titolo ha da offrire andranno perse.

Thimbleweed Park è un atto d'amore ai classici del suo genere ed è un gioco scritto e creato da chi, quel genere, lo ha reso grande.
Stiamo parlando di una delle migliori avventure uscite negli ultimi anni, un'avventura che sarebbe ingiusto liquidare come "ottima operazione nostalgia". Il titolo di Ron Gilbert è prima di tutto una gran bella storia che funziona così bene perché è raccontata nel modo migliore in cui poteva essere narrata: vale a dire attraverso quella stessa struttura di gioco che ha contribuito a rendere eterni i capolavori LucasArts. Quel gameplay che in apparenza sembra una strizzatina d'occhio nostalgica è in realtà parte integrante di una straordinaria narrazione apprezzabile anche da chi, come me, quell'epoca di grandi avventure l'ha vissuta solo grazie al retrogaming.

Note conclusive:
- Ho giocato Thimbleweed Park su PS4, portandolo a termine due volte: la prima in modalità Casual e la seconda in modalità Hard. Mi sono divertito come un matto e ho sbloccato tutti i trofei. Il sistema di controllo tramite Dual Shock 4 è comodo e non fa rimpiangere mouse e tastiera.
- Vestire i panni del clown Ransome mi ha fatto pensare che sarebbe fantastico giocare un'avventura grafica (o al limite un'esperienza cinematografica alla Life is Strange) basata su It. Qualcuno che non sia Telltale me la sviluppi, grazie.

lunedì 26 giugno 2017

ARMS


ARMS è uno dei titoli più chiacchierati di questi ultimi mesi. Normale che una nuova IP della casa di Kyoto desti clamore e curiosità, ma qui la faccenda è forse anche più interessante del solito.
Picchiaduro singolare in cui i lottatori sono dotati di braccia allungabili, ARMS pone una forte enfasi sulla propria componente online, evidenziando, come già aveva fatto Splatoon, l'attenzione della grande N per la scena degli eSport. Come primo gioco hardcore pensato e sviluppato con in mente le caratteristiche di Switch, rappresenta anche un banco di prova importante per una console che, pur avendoci già dato diverse soddisfazioni, ha finora fatto un po' troppo affidamento sui porting (lo stesso Breath of the Wild è pur sempre un titolo uscito anche su Wii U).

ARMS, come tutti i migliori giochi Nintendo, colpisce immediatamente per la sua veste grafica incredibilmente azzeccata. È un beat 'em up stilosissimo e allegro, che investe il giocatore con i suoi colori accesi e la sua direzione artistica di gran classe. Viene facile innamorarsi di un character design che ispira da subito simpatia, proponendoci personaggi bizzarri e dai tratti ben riconoscibili (colpo di genio le braccia "a DNA" di Helix, un tuffo al cuore i capelli bayonettosi di Twintelle).
Gradevoli anche le arene, essenziali ma funzionali al gameplay.


Come si diceva, ARMS è un gioco ideato per sfruttare le caratteristiche del nuovo hardware Nintendo, di conseguenza propone svariati sistemi di controllo: nella mia prova sono passato senza soluzione di continuità dal motion control con i due Joy-Con in ciascuna mano alla modalità portatile con i controller inseriti nella console. Premettendo che usando i tasti si guadagna qualcosa in precisione, mi sono trovato bene in entrambi i casi (al netto di alcune cose che mi piacciono poco, come l'esecuzione della parata, che risulta scomoda sia tramite la pressione dello stick analogico sinistro, sia utilizzando i sensori di movimento).

In ogni caso, a prescindere dal modo in cui si sceglie di giocare, ARMS è un picchiaduro molto più tecnico di quanto ci si potrebbe aspettare. Prendere dimestichezza con il sistema di combattimento ideato da Nintendo non sarà affatto una passeggiata. Ci vorrà del tempo per diventare bravi e padroneggiare in modo accettabile i vari personaggi: in ARMS è importante saper saltare, parare e schivare, non solo tirar cazzotti. Menare le mani, comunque, richiede qui un minimo di impegno tattico: la capacità di dare un effetto ai pugni dà spesso luogo a combattimenti tesi e ragionati in cui è importantissimo studiare i movimenti dell'avversario e capire in che modo anticiparlo.
Il gioco, inoltre, prevede diverse variabili. In fondo stiamo parlando dell'ultima follia partorita da Nintendo, non di un qualsiasi titolo di boxe.


Ognuno dei personaggi selezionabili possiede determinate peculiarità. Ribbon Girl, ad esempio, può eseguire un doppio salto; Master Mummy compensa la lentezza con la resistenza e la capacità di rigenerare la propria salute mentre tiene la guardia alzata; Twintelle è in grado di rallentare i colpi dei nemici. Cambiando lottatore, dunque, anche il gameplay varia in modo tutt'altro che marginale.

Non si combatte usando solo guantoni. Vi sono diversi tipi di armi che modificano anche radicalmente gli attacchi: teste di drago che sputano raggi infuocati, missili, martelli, boomerang e tante altre chincaglierie offensive che, in virtù delle loro differenze balistiche, si rivelano più o meno adatte al nostro stile di combattimento.
Le armi possono essere sbloccate con la valuta del gioco e utilizzate per personalizzare il nostro lottatore a seconda delle esigenze: è infatti possibile combinarle tra loro, mettendo ad esempio un guantone nella mano sinistra e un serpente frusta in quella destra.
Infine, utilizzando la parata o tenendo premuto il tasto della schivata, i pugni possono essere caricati con un effetto elementale che ne incrementerà i danni.

Imparare a gestire tutto questo, districandosi anche tra super combo, proiezioni ed item che compaiono sul campo di battaglia, richiederà impegno e allenamento.


Per prendere la mano con un gameplay tanto originale sarebbe stato il massimo avere a disposizione un single player massiccio e ricco di contenuti.
ARMS è però abbastanza spoglio da questo punto di vista, dato che propone solo incontri versus e il classico Arcade Mode, che qui viene chiamato Gran Torneo e, nel tentativo di offrire un po' di varietà, alterna scontri uno contro uno ad alcuni minigiochi (versioni a tema di pallavolo, basket e tiro a segno).
Questo Gran Torneo è senza dubbio una modalità importante, se non altro perché richiede di essere completato con almeno un personaggio al livello di difficoltà medio (il 4) per sbloccare le partite classificate online. Compito tutt'altro che facile, visto che il tasso di sfida è parecchio elevato.
Il lato positivo è che vi farete le ossa in vista degli incontri multiplayer ufficiali (in cui personalmente ho preso una marea di legnate).

È comunque possibile buttarsi nella mischia fin da subito grazie alle amichevoli. In queste, dopo essere entrati in una lobby con altri giocatori, potrete lanciarvi sul ring senza il bisogno di superare una fase di qualificazione offline, prendendo immediatamente parte a match classici e a minigiochi.
Nulla da segnalare sul netcode: un burro. Funziona tutto alla perfezione, non ho mai trovato lag e non sono mai incappato in disconnessioni fastidiose.

Nintendo, insomma, fa centro ancora una volta, mettendosi in gioco con una nuova IP a suo modo coraggiosa che, per fortuna, non delude le aspettative.
ARMS trasuda carisma da ogni texture e, soprattutto, è divertente e profondo.
Non è un titolo che si farà apprezzare da tutti, e qualche contenuto in più non avrebbe certo guastato il pacchetto, ma come esordio non c'è male.
Sarà fra l'altro interessante vedere in che modo il gioco verrà ampliato nei prossimi mesi, tramite aggiornamenti ed inevitabili DLC.

lunedì 19 giugno 2017

Farpoint

La realtà virtuale è riuscita a stupirmi e a convincermi sin dalla prima volta che ho indossato PlayStation VR e mi sono immerso negli scenari di Rez Infinite. Mi è risultato immediatamente chiaro che stavo sperimentando una tecnologia scomoda e acerba ma dalle potenzialità sconfinate; un'innovazione in grado di portare i videogiochi in territori inesplorati al prezzo di qualche limite tecnico, un po' come era accaduto quando si passò dagli sprite di SNES e Mega Drive ai poligoni delle console a 32 bit.

L'unico aspetto negativo di questi primi mesi di VR risiedeva nell'offerta limitata dei giochi disponibili. Offerta basata principalmente su esperienze interattive intense ma brevissime, parecchie demo tecniche e titoli dall'approccio arcade.
Intendiamoci, per me non è stato un grosso problema: ho goduto tantissimo calandomi nei panni dell'uomo pipistrello in Batman Arkham VR, da amante degli arcade frenetici mi sono divertito un mondo con Thumper e, da buon fanatico di Star Wars, ho rigiocato la missione VR di Battlefront una decina di volte. È tuttavia innegabile che la realtà virtuale fatichi ancora ad offrire esperienze di gioco capaci di competere con le maggiori produzioni tripla A e a solleticare i palati di chi vorrebbe indossare il visore e spararsi un GdR di duecento ore.
A risollevare la situazione ci ha pensato l'ottimo Resident Evil 7, anche se onestamente, dopo averlo provato in demo, non ho avuto il coraggio di calarmi fino in fondo nei suoi orrori e ho preferito giocarlo in modo classico.
Il mese scorso invece è arrivato Farpoint, con la sua ambientazione fantascientifica decisamente più alla portata delle mie coronarie rispetto alla villa dei Baker.

Il titolo sviluppato da Impulse Gear è il primo gioco a traghettare in modo convincente il genere degli sparatutto in prima persona su PlayStation VR.
A determinare la grandiosità di questo FPS è la periferica con cui viene venduto in bundle: l'Aim Controller è un fucile di plastica che funziona alla maniera di un Move e contribuisce da solo a rendere questo sparatutto un'esperienza indimenticabile che svetta su tutti gli altri titoli pensati per la realtà virtuale di casa Sony.

Volendolo analizzare come un gioco normale, Farpoint si rivela essere poco più che un on rail shooter. Ci si può spostare liberamente tramite stick analogico, certo, ma non c'è molto da fare oltre a muoversi lungo livelli "corridoio", sparando a tutto ciò che compare sullo schermo (anzi, sulle lenti). Il gioco Impulse Gear è uno sparatutto adrenalinico e senza fronzoli in cui bisogna tenere costantemente il dito sul grilletto e non c'è assolutamente spazio per enigmi o trovate di gameplay originali.
Descritto così, Farpoint sembrerebbe oggettivamente trascurabile, ma ci pensano appunto PlayStation VR ed Aim Controller a cambiare le carte in tavola: il senso di immersione garantito dall'utilizzo combinato di visore e light gun è qualcosa di eccezionale.

Tramite il filtro della realtà virtuale, il fucile di plastica nelle nostre mani si trasforma in un'arma uscita da un film di fantascienza; un'arma che ci possiamo rigirare davanti agli occhi, ammirandola in tutta la sua fisicità fittizia e in ogni suo dettaglio. È una sensazione incredibile che viene ulteriormente amplificata nel momento in cui esplode l'azione e la canna del nostro mitragliatore inizia a vomitare proiettili sulle creature aliene che cercano di farci la pelle. Possiamo avvicinare il fucile d'assalto al visore e mirare attraverso il puntatore olografico per avere più precisione, oppure gettarci nella mischia facendo esplodere insettoni con il nostro shotgun.

Pilotare un X-Wing nella missione VR di Battlefront era fantastico, ma alla fine ci ritrovavamo pur sempre con un DualShock 4 in mano. Qui invece l'Aim Controller ci restituisce davvero l'impressione di avere un'arma tra le braccia e, credetemi, questa cosa fa tutta la differenza del mondo.
Grazie alla sua periferica, Farpoint trascende la propria natura di sparatutto blando e povero di idee, diventando un videogioco assolutamente soddisfacente, sia come esperienza interattiva che come shooter. Impulse Gear ha confezionato infatti un titolo che, pur non brillando per longevità (la campagna dura cinque ore scarse), offre un gameplay solido, con sparatorie intense e un livello di sfida piuttosto interessante (le missioni finali vi faranno sudare). Le armi a disposizione del giocatore sono tutte divertenti da usare e ben differenziate tra loro, in modo da garantire una discreta libertà di approccio negli scontri a fuoco. Una buona varietà interessa anche i nemici, presenti in diverse tipologie e dimensioni. Peccato solo che la loro aggressività, probabilmente per venire incontro ai limiti intrinseci della VR, non sia mai eccessiva. Non è un dramma, perché la difficoltà è bilanciata con sapienza, dunque ci troveremo spesso ad affrontare situazioni concitate in cui dovremo mettere sotto torchio la nostra abilità di pistoleri spaziali; solo non verremo mai minacciati da pattern d'attacco particolarmente complessi o da un'intelligenza artificiale incredibilmente evoluta.

Anche sul piano narrativo le cose funzionano abbastanza: immaginate un Interstellar che incontra le battaglie di Starship Troopers e avrete idea di cosa aspettarvi. Forse, dato che comunque si parla di un gioco ignorantone in cui non si fa altro che maciullare alieni, avrei gradito una storia che si prendesse meno sul serio, ma alla fine va benissimo anche così; la vicenda è ben raccontata e si lascia seguire con piacere, senza mai venire a noia.

Farpoint è un graditissimo esperimento che, basandosi su un concept di gameplay rodato, evidenzia la forza latente della realtà virtuale. È senza ombra di dubbio il titolo PlayStation VR più convincente sia dal punto di vista grafico che da quello del sistema di controllo. L'Aim Controller è infatti un'ottima periferica che, si spera, verrà sfruttata da molti altri titoli, magari anche più ambiziosi in termini di meccaniche.
Nel frattempo, comunque, abbiamo già un bello sparatutto che viene esaltato da questo giocattolone di plastica. Credetemi, guardandovi intorno imbracciando un'arma futuristica e posando gli occhi sulla vostra ombra proiettata sulla superficie di un pianeta alieno, la linearità di Farpoint passerà immediatamente in secondo piano. 

giovedì 8 giugno 2017

Tekken 7

Quella di Tekken è una saga capace di scatenare un effetto nostalgia devastante in qualsiasi giocatore che abbia superato la soglia dei trent'anni. I primi tre episodi, usciti inizialmente nelle sale giochi e poi convertiti su PlayStation, segnarono gli anni d'oro della console a 32 bit Sony, diventandone giochi simbolo insieme ai vari Final Fantasy VII, Metal Gear Solid e Ridge Racer.
PlayStation 2 fece il suo esordio annoverando Tekken Tag Tournament tra i titoli di lancio (ah, le discussioni sulle scalette), continuando poi con Tekken 4 e con l'ottimo Tekken 5, probabilmente il titolo della serie a cui ho giocato di più insieme a Tekken 3.
Fu poi la volta di PSP, che ospitò una sorprendente conversione di Tekken 5 Dark Resurrection. Quest'ultimo accompagnò anche i vagiti di PlayStation 3, diventando uno dei primi titoli disponibili su PlayStation Store. Fu proprio sulla terza home console Sony (e per la prima volta su console Microsoft) che la saga di Bandai Namco subì una battuta d'arresto, con un sesto episodio valido ma indubbiamente meno esaltante dei suoi predecessori. Un sesto episodio che, per altro, dovette vedersela con la concorrenza agguerrita di Street Fighter IV. Il ritorno in auge dei beat 'em up a incontri, tuttavia, favorì la nascita di Tekken Tag Tournament 2 e dell'esperimento free-to-play Tekken Revolution.

Ad ogni modo, Tekken è sempre stato un picchiaduro piuttosto amato (almeno da me) e capace di proporre un sistema di combattimento divertente, solido e accessibile, calandolo in un immaginario sopra le righe in cui delle idol combattono contro grizzly e cyborg ninja prendono a calci imprenditori giapponesi posseduti da demoni che sparano raggi laser. Non che solitamente i giochi di menare offrano storie più sobrie, intendiamoci, ma è indubbio che il livello di trash toccato da Tekken sia difficile da eguagliare.

Due anni dopo il suo esordio nelle sale giochi nipponiche (probabilmente qualche cabinato si può trovare anche fuori dal Giappone, ma non ci metterei la mano sul fuoco), Tekken 7 arriva su PS4, Xbox One e PC con il suo gameplay collaudato, le sue novità e le sue faide famigliari che sembrano uscite da un bizzarro incrocio tra Occhi del cuore e un film con Van Damme.
Il settimo capitolo di Tekken si presenta benino, con un motore grafico (l'Unreal Engine 4) che garantisce un buon dettaglio grafico sia nei fondali che nei personaggi. Siamo comunque lontani dall'eccellenza, se non altro perché l'immagine, almeno su PS4, risulta sempre un po' sporcata da decine di effetti grafici, esplosioni e zoomate a caso che appesantiscono il quadro visivo nel suo complesso.

Al di là di questo, comunque, Tekken 7 si lascia guardare e, soprattutto, giocare con piacere.
Il roster è molto ampio e le new entry sono tutte interessanti sia in fatto di look che di mosse. L'unico lottatore che per i miei gusti stona è Akuma, personaggio di Street Fighter che non mi sembra si trovi particolarmente a suo agio con le meccaniche di Tekken e che, nello Story Mode, si rivela un avversario fin troppo ostico e overpowered.
L'aggiunta più importante del combat system riguarda la gestione del Rage Mode. Introdotto in Tekken 6 (ma già visto con un diverso nome nel primo Tekken Tag), questo stato potenziava gli attacchi del personaggio quando la barra d'energia stava per esaurirsi. In Tekken 7 ci permetterà di effettuare una Rage Art o una Rage Drive. La prima non è altro che l'equivalente tekkeniana delle Ultra di Street Fighter. La Rage Drive invece è sostanzialmente una super combo. Entrambe sono tecniche particolarmente potenti che, se usate al momento giusto, possono ribaltare le sorti di un incontro che volge a nostro sfavore.

Tekken 7, come tutti i picchiaduro, dà il meglio di sé giocato tra amici, stravaccati sul divano in una serata estiva mentre sorseggiamo una birra fresca. C'è comunque qualcosa da fare anche per il giocatore solitario.
Sono presenti una modalità arcade (in verità piuttosto breve e scialba), una Battaglia Tesoro in cui dovremo combattere avversari sempre più forti ottenendo crediti e oggetti da usare nella (corposissima) personalizzazione del personaggio e, soprattutto, lo story mode "La saga dei Mishima".
Ora... non so se esistano persone seriamente interessate alla soap opera folle che è diventata la trama di Tekken nel corso degli anni, ma comunque sappiate che questo settimo episodio vi mostrerà finalmente l'epilogo della vicenda di Heihachi e Kazuya. Epilogo che rimarrà tale fino a quando non uscirà Tekken 8 (?).
Vi sono poi alcuni brevi capitoli dedicati ai numerosi personaggi secondari, ma siamo veramente al minimo sindacale (testo introduttivo, scontro e fmv).
In estrema sintesi, il single player di Tekken 7 fa il suo dovere ma non brilla. Ci passerete qualche ora piacevole e probabilmente spenderete molto tempo nella Battaglia Tesoro per sbloccare roba e prendere confidenza con le mosse del vostro personaggio preferito, ma se cercate un buon pestaduro da spolpare in solitudine, fareste meglio ad orientarvi su altro (mi dicono che Injustice 2 da questo punto di vista sia molto convincente, giusto per darvi una dritta).

La carenza di contenuti single player non sarebbe un grosso problema, visto che viviamo nel ventunesimo secolo ed esiste il multiplayer online. Il guaio è che, nel momento in cui scrivo (8 giugno 2017), il netcode della versione PS4 di Tekken 7 è imbarazzante. Non so come sia la situazione su One e PC, ma personalmente in una settimana sono riuscito a giocare solo cinque volte, tentando di trovare qualche partita più o meno ogni giorno e incappando in un'infinità di errori di connessione.
Si spera in una patch che risolva il problema e renda il matchmaking vivibile, anche perché mi manca solo il trofeo dei dieci incontri online per prendere il Platino. Non che ci tenga particolarmente, però che fastidio, no?

EDIT: neanche il tempo di lamentarmi che è uscita la patch. Ora il matchmaking sembrerebbe a posto. Trofeo di platino sbloccato, per la cronaca.

lunedì 19 dicembre 2016

Star Wars Battlefront - Rogue One: X-Wing VR Mission

Ricordo nitidamente il giorno in cui giocai per la prima volta a Rogue Leader.
Era un sabato di inizio maggio, correva l'anno 2002, non avevo ancora compiuto diciassette anni e mi sentivo felicissimo perché ero appena tornato a casa con un Nintendo Gamecube. Avevo collegato la console al modesto televisore della mia camera e, attraverso quello schermo di pochi pollici, mi ero ritrovato a rivivere l'attacco alla prima Morte Nera nei panni di Luke Skywalker, ai comandi di un caccia X-Wing.
Grazie anche ad una grafica che all'epoca appariva a due passi dal fotorealismo, mi sentivo immerso in maniera totalizzante nell'universo di Star Wars. Stavo giocando una scena storica di uno dei miei film preferiti ed era bellissimo.
Per anni ho giudicato le sensazioni suscitate dal titolo Factor 5 difficilmente replicabili, in parte per un discorso di nostalgia e in parte perché il gioco era proprio figo.
Poi, pochi giorni fa, è uscita la missione VR di Star Wars Battlefront, che di colpo ha fatto sembrare Rogue Leader non troppo lontano da The Empire Strikes Back per Atari 2600.

Sto armeggiando da qualche settimana con PlayStation VR e ormai credevo di essermi abituato all'impatto devastante della realtà virtuale sui miei sensi. Ma un conto è sperimentare la discesa negli abissi di Ocean Descent o la sinestesia di Rez Infinite, un altro paio di maniche è ritrovarsi improvvisamente catapultati in un universo che amiamo e che vorremmo toccare con mano sin da quando eravamo bambini. È un'emozione che fatico a descrivere a parole, perché si tratta davvero di un'esperienza che travalica il concetto di videogioco e si avvicina ad un sogno divenuto realtà. È meraviglioso e allo stesso tempo un po' inquietante.

A lasciarmi senza fiato poteva bastare la schermata iniziale di questo DLC, con quel torreggiante camminatore imperiale che mi passava vicino in tutta la sua imponenza, ma è stato quando sono entrato nella cabina di pilotaggio dell'X-Wing che le mie sinapsi sono partite per la tangente.
Ero lì, in un caccia stellare, circondato da tutta quella strumentazione dall'aspetto malandato. Se voltavo la testa e guardavo all'indietro, potevo vedere la mia unità R2.
Galleggiavo nello spazio profondo; intorno a me, i miei compagni di squadriglia e, soprattutto, la flotta dell'Alleanza Ribelle. Potevo volare al fianco di gigantesche astronavi come la fregata Redemption per ammirarne le dimensioni e i dettagli. Addirittura riuscivo a sentire il rombo dei motori subluce, se mi avvicinavo abbastanza. Quasi immaginavo lo stato d'animo di Luke mentre vedeva quei bestioni di metallo per la prima volta, dopo aver lasciato Tatooine.

Dunque è iniziata la missione vera e propria. La mia nave è scivolata attraverso le stelle ed è entrata nell'iperspazio, arrivando in un campo d'asteroidi.
Dopo un po' di zig-zag e di tiro a segno con i cannoni laser, la mia squadriglia ha raggiunto l'obiettivo. Sembrava fatta, ma uno Star Destroyer ci ha teso un'imboscata. È spuntato dal nulla, me lo sono ritrovato sopra la testa, minaccioso come nella scena d'apertura di Episodio IV.
In men che non si dica stavo combattendo la guerra contro l'Impero che mi aveva tenuto col fiato sospeso per tre quattro film e decenni di Expanded Universe. Sciami di caccia TIE sfrecciavano nell'oscurità dello spazio con il loro tipico "barrito". Mi sono lanciato al loro inseguimento, mentre l'incrociatore stellare che li aveva vomitati continuava a bersagliarmi con le sue batterie di turbolaser.
In modo un po' rocambolesco, io e i miei compagni siamo riusciti ad avere la meglio sui nostri nemici e a fuggire balzando nell'iperspazio, ricongiungendoci con la flotta ribelle nei pressi del pianeta Yavin.

Poi tutto è finito.
Sono rimasto seduto, con il pad tra le mani e un casco dall'aspetto ridicolo inforcato in testa. Stordito da ciò che avevo appena visto, ma felice come non mai e pronto a ricominciare immediatamente la missione da capo.
Perché sentivo il bisogno di tornare a tuffarmi in quell'universo, volevo tornare lì, dentro le guerre stellari.

Giocare a questo DLC è stato strepitoso. Commovente, oserei dire.
Solo che, accidenti, di realtà virtuale in salsa Star Wars ne voglio ancora e in misura maggiore.
È probabile che, da oggi, desidererò l'annuncio di un vero e proprio Rogue Leader VR più di quanto desideri Half-Life 3.
Incrocio le dita e che la Forza sia con me.

mercoledì 7 dicembre 2016

Final Fantasy XV: The Chocobo Awakens

Ci ha messo un decennio, ma finalmente Final Fantasy XV è uscito. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Noi videogiocatori, tuttavia, sappiamo bene che spesso i titoli dallo sviluppo travagliato si rivelano al di sotto delle aspettative maturate nel corso degli anni.
Final Fantasy XV è passato tra le mani di mille persone diverse, ha cambiato pelle e forma più volte (da spin-off di Final Fantasy XIII ad episodio regolare della serie) ed è balzato da una generazione di console all'altra. Il rischio di un disastro di proporzioni epocali era molto alto.
Non è andata così.
Dopo circa venticinque ore di gioco, posso dire che questo nuovo capitolo della storica saga Square Enix è un ottimo titolo, con un sacco di frecce al suo arco. Non è un gioco perfetto, ma riesce nel difficile compito di infondere una bella dose di audacia ad una serie che, pur potendo contare su una schiera di fan tutt'altro che esigua, da troppo tempo si accontentava di stare in panchina.

Sottolineo che questa non è una recensione. Penso di non essere arrivato nemmeno a metà dell'avventura di Noctis, quindi il mio giudizio su Final Fantasy XV non può ancora essere definitivo.
Ci tenevo comunque a condividere le mie impressioni, visto che già ora ho parecchie osservazioni da fare.


- Iniziamo toccandola piano: Final Fantasy XV mi ricorda Metal Gear Solid V. No, non sto impazzendo. Semplicemente, come The Phantom Pain, anche il gioco di Tabata prende una serie storica e la attualizza, introducendo un sacco di novità mirate a svecchiare una formula venuta un po' a noia. Certo, l'ultima fatica di Sua santità Kojima aveva meccaniche più rifinite ed era senz'altro un titolo globalmente meno goffo, ma è anche vero che, molto probabilmente, un vero e proprio Metal Gear Solid VI non lo vedremo mai, a meno di non voler scomodare Death Stranding come "erede spirituale", cosa che francamente mi sembra un po' tirata per i capelli. Un sedicesimo Final Fantasy, invece, ci sarà quasi di sicuro ed è innegabile che le basi gettate da questo quindicesimo capitolo siano estremamente intriganti proprio in ottica futura.

- Vediamo dunque quali sono, queste basi. Final Fantasy XV punta sin da subito sull'open world, proponendo un mondo vastissimo e liberamente esplorabile (pur con qualche paletto messo per esigenze narrative e di progressione). La mappa offre un sacco di quest ed attività secondarie in cui perdersi. I vecchi Final Fantasy erano tendenzialmente giochi lineari che si aprivano nella fase finale, qui accade il contrario.
L'idea è buona, anche se, va detto, le varie missioni facoltative tendono un po' ad assomigliarsi tra loro e alla lunga rischiano di venire a noia.
Pure gli spostamenti non sono proprio snellissimi, sia che si decida di viaggiare in auto, sia che si preferisca galoppare in sella ad un Chocobo (scordatevi di andare a piedi, viste le distanze da percorrere).
In ogni caso, il mondo di Eos è a dir poco affascinante; mi è capitato più di una volta di dire "Ancora dieci minuti e stacco", per poi ritrovarmi all'una di notte impegnato a dare la caccia all'ennesimo mostro.


- Ecco, l'ambientazione di questo Final Fantasy XV è davvero splendida. C'è una certa pretesa di realismo che inizialmente potrebbe apparire bizzarra, ma in fin dei conti Final Fantasy VIII faceva un po' la stessa cosa. Perché è vero che qui si parla di quattro ragazzotti che intraprendono un'avventura on the road su un macchinone tamarro, ma è anche vero che il modo in cui questo gioco rilegge tutta la mitologia della serie è a dir poco affascinante. Le summon, giusto per fare un esempio, sono qualcosa di esagerato sia per impatto visivo che per il modo in cui vengono contestualizzate all'interno della storia.
Poi certo, ci sono anche lati negativi. Un mondo che si presenta coerente nel suo essere fantastico deve per forza rinunciare a location assurde come il Gold Saucer di Final Fantasy VII. Ma è una rinuncia su cui si può chiudere un occhio, considerando che i momenti in cui si rimane a bocca aperta non mancano.
I problemi più grossi riguardano forse il ritmo della narrazione, che risente moltissimo della natura sandbox del titolo, apparendo spesso claudicante (ennesima similitudine con Metal Gear Solid V). Però anche qui, la guerra tra l'Impero di Niflheim e il Regno di Lucis che fa da sfondo alla nostre avventure convince. L'unico guaio? Per capire fino in fondo il lore, è necessario guardarsi il lungometraggio Kingslaive (che comunque non è nemmeno così terribile).

- Se si discute del lato narrativo di Final Fantasy XV, è impossibile non parlare dei suoi quattro protagonisti.
Ora, su Noctis, Prompto, Ignis e Gladio si è detto di tutto ed è stata fatta ogni battuta che avesse a che fare con gli emo, con le boy band e con l'incapacità cronica dei gdr nipponici di proporre personaggi caratterizzati in modo maturo.
È inutile negare che i personaggi di questo Final Fantasy siano abbastanza stereotipati. Il punto, tuttavia, è che nell'economia del gioco funzionano. È divertente vedere questi quattro ragazzi che vanno in giro in macchina dicendo scemate e punzecchiandosi a vicenda. Se nei vecchi Final Fantasy erano i momenti epici a suscitare una forte empatia, qui è proprio l'atmosfera alla Stand by Me a tirare il giocatore per un braccio e a farlo affezionare a Noctis e alla sua cricca.
Non a caso anche molte delle caratteristiche di gioco sono, in un certo senso, influenzate dalle peculiarità dei nostri compagni. Prompto, ad esempio, è il buffone del gruppo e passa il tempo a scattare foto (spesso stupidissime) che possono essere condivise sui social network. Ignis è il perfettino saccente della combriccola, ma è anche un ottimo cuoco, quindi può cucinare pietanze che danno un boost temporaneo alle nostre statistiche.

- Dove Final Fantasy XV rivoluziona maggiormente la saga è nel gameplay. Il battle system è stato completamente stravolto rispetto al passato, essendo ora in tempo reale e senza stacchi con le sezioni di gioco esplorative. Il giocatore può controllare direttamente solo Noctis, con la gestione dei compagni limitata ad alcune tecniche attivabili da un apposito menu. È una scelta coraggiosa, che rende i combattimenti estremamente dinamici e frenetici, facendoli assomigliare ad una rivisitazione in salsa action di quelli di Final Fantasy XII. Inizialmente il tutto appare abbastanza confusionario, oltre che martoriato da una telecamera a dir poco scandalosa; dopo un po' di pratica, però, ci si prende la mano e le battaglie iniziano a diventare appaganti. C'è un'enorme libertà di approccio e ogni avversario, pur con le sue debolezze, può essere affrontato nel modo che più ci è congeniale, sfruttando le armi che preferiamo.
Una cosa con cui devo ancora imparare ad andare d'accordo è la gestione delle magie. Sulla carta sarebbe una figata: i vari attacchi magici sono ora delle "granate alchemiche" craftabili combinando elementi di fuoco, elettricità o ghiaccio con oggetti di vario tipo. Molto bello eh, peccato che il tutto sia piuttosto macchinoso. Mi spiace perché un Criora usato nel momento giusto fa un male assurdo e provoca un impatto visivamente spettacolare sull'area di gioco circostante.

- Un altro cambiamento importante riguarda il sistema di potenziamento dei personaggi.
I punti esperienza possono essere guadagnati sia sconfiggendo nemici che completando quest; ora però si accumulano fino a quando non decidiamo di accamparci o di pernottare in un albergo. Nel secondo caso, pagando qualche guil, possiamo usufruire di moltiplicatori che arrivano addirittura a raddoppiarli. Da ciò si può dedurre che salire di livello velocemente sia abbastanza semplice. Con l'avventura principale mi trovo ancora in alto mare, eppure sono già arrivato a livello 44 facendo semplicemente alcune delle quest secondarie. In sintesi: sono overpowered pur avendo sfruttato unicamente le possibilità che il gioco mi offre, senza essermi assolutamente ammazzato di farming forzato. Forse è anche per questo che sto trovando il livello di sfida piuttosto blando, ma aspetto di proseguire, prima di lamentarmi di eventuali problemi di bilanciamento.
Più simile a quanto visto in passato è invece il funzionamento dei punti abilità. Questi si possono ottenere sia in combattimento che nelle attività secondarie e vanno spesi in una sorta di tabella che ci consente di sbloccare tecniche e potenziamenti di vario tipo.

Come si può capire da queste mie osservazioni, Final Fantasy XV mi sta piacendo molto, pur con qualche riserva.
Al netto dei difetti, quasi tutti dipendenti da alcune ruggini tipiche di molti giochi giapponesi (perché non mi fate salvare nei dungeon?), lo sto trovando un titolo davvero coinvolgente. Forse dipende dal fatto che è arrivato in un momento in cui sono dell'umore adatto per approcciare un'esperienza videoludica di questo tipo, ma comunque è la prima volta che gioco un Final Fantasy uscito dopo il 2000 che non mi faccia venir voglia di piantar lì tutto e rimettere su uno degli episodi usciti su SNES o PlayStation (anche se le vecchie musiche di Uematsu ascoltabili dalla radio della Regalia sciolgono il cuore).
Anzi, come spiegavo prima, giocando a Final Fantasy XV viene proprio voglia di vedere quale sarà il futuro della saga, più che di tuffarsi nel passato abbandonandosi alla nostalgia. Perché è impossibile non vedere un enorme potenziale nel lavoro svolto da Square Enix. E francamente l'idea di un Final Fantasy XVI capace di giocarsela ad armi pari contro futuri colossi come Cyberpunk 2077 mi esalta non poco.
Staremo a vedere, intanto il mio giudizio è in sospeso. 
C'è chi si lamenta di una seconda parte del gioco che, essendo probabilmente un retaggio di quello che fu Final Fantasy Versus XIII, sarebbe molto più lineare e malriuscita rispetto a quella in cui mi trovo ora. Però insomma, non penso che ciò che mi aspetta possa vanificare totalmente quanto di buono ho visto finora.
Almeno spero.

martedì 2 luglio 2013

New Super Luigi U

Il rapporto travagliato di Nintendo con tutto ciò che riguarda l’interwebz è stato spesso oggetto di rumorose pernacchie.
Pensiamo soltanto al mancato inserimento del multiplayer online in alcuni titoli che ne avrebbero immensamente beneficiato (ciao Nintendo Land, quanto saresti stato più figo anche solo con delle semplici leaderboard?), alla macchinosità dei codici amico e alla delirante gestione dei giochi acquistati in digital delivery, che rimangono legati a una console anziché a un account.
Cose antipatiche e giustamente criticate da tutti.
Questa concezione del videogioco squisitamente anni Novanta ha anche tagliato fuori la grande N dal discorso DLC.
Per tutta la durata della generazione appena trascorsa abbiamo visto uscire su PS3 e XBOX 360 contenuti scaricabili di ogni tipo e per qualsiasi genere di gioco.
Troppo spesso si trattava di roba brutta o tranquillamente evitabile, ma ogni tanto saltavano fuori anche contenuti aggiuntivi con tutti i crismi, come le due ottime espansioncine di Alan Wake.
Su Wii, invece, c’era la desolazione più completa.
Solo ultimamente Nintendo sembra essersi accorta delle possibilità offerte dall’internet in tal senso.
Nei mesi scorsi, infatti, è stato possibile scaricare su 3DS piccoli set di livelli per la modalità Coin Rush di New Super Mario Bros 2, oltre che svariate mappe aggiuntive per Fire Emblem Awakening.
New Super Luigi U è però il primo, vero, DLC di un certo peso ad uscire per un gioco Nintendo (New Super Mario Bros U per Wii U, ricordiamolo giusto per non fare confusione).
È un contenuto aggiuntivo bello massiccio, che possiede i connotati di una vera e propria espansione.
New Super Luigi U offre, al prezzo non proprio irrisorio di venti euro, la possibilità di affrontare ottantadue nuovi livelli nei panni del fratello smilzo e fifone di Mario.
Apparentemente identico al gioco che va ad ampliare, questo DLC è in realtà un titolo che, innestandosi sull’estetica di New Super Mario Bros U, propone un gameplay con un feeling radicalmente differente.
Tutti i nuovi livelli sono costruiti remixando e stravolgendo gli elementi di quelli presenti nel titolo originale, tenendo conto delle caratteristiche di Luigi, personaggio che si controlla in maniera molto diversa rispetto al fratello. L’idraulico vestito di verde è infatti più veloce, ha un’inerzia che lo porta a scivolare sul terreno, salta più in alto e, quando si trova a mezz’aria, può eseguire una sorta di breve planata muovendo freneticamente le gambe.
Tutti i livelli di questo DLC offrono un level design perfido ed esigente che strizza l’occhio alle abilità peculiari di Luigi. Un level design che, stile grafico e qualità generale a parte, ha ben poco in comune con quello del titolo di partenza.
La sfida è inoltre altissima sin dal primo mondo e anche chi ha portato a termine al cento per cento New Super Mario Bros U (che facilissimo non era, soprattutto nelle fasi più avanzate) si stupirà della difficoltà di questo DLC.
Persino la struttura base dei livelli è cambiata, dato che ora sono più brevi, il tempo disponibile per portarli a termine è limitato a cento secondi e non c’è nessun checkpoint a metà percorso. Il che rende facilmente intuibile che New Super Luigi U possiede un ritmo molto più serrato rispetto a Mario U.

New Super Luigi U è dunque un contenuto scaricabile che avrebbe parecchie cose da insegnare ai DLC smorti che spesso vanno ad ampliare (per modo di dire) i giochi disponibili su console Sony e Microsoft.
Non è un’aggiunta blanda, non è un pezzo del titolo originale segato via e venduto a parte.
È di fatto un’esperienza inedita che reinventa New Super Mario Bros U e possiede l’indiscutibile capacità di tenere impegnato qualunque appassionato di platform per diverse ore, facendolo incazzare e godere allo stesso tempo.
È il DLC alla maniera di Nintendo e la cosa ci piace.
Speriamo solo che la casa di Kyoto continui su questa strada e, in futuro, non faccia porcate.
Del tipo, io ho quest'incubo ricorrente di uno Zelda free-to-play.
Gli episodi per Philips CD-i sembrano improvvisamente bellissimi, vero?

Ricordo che a fine luglio uscirà nei negozi la versione pacchettizzata di New Super Luigi U. Costerà un po’ di più rispetto a questo DLC, ma in compenso potrà essere giocata senza avere una copia di Mario.
Inoltre, se l’idea di possedere un gioco per Wii U in una confezione verde vi attizza, direi che l’acquisto è praticamente obbligato.

venerdì 28 giugno 2013

Necst-gen


Sta per arrivare la next-gen e io sono perplesso.
Vediamo di fare il punto della situazione.
 
XBOX ONE
Da una parte abbiamo una console che sembra il mio vecchio videoregistratore e che viene venduta insieme a un accrocchio HAL 9000-wannabe che potrebbe rivelarsi una figata ma magari anche no.
Questo almeno fino ad oggi, dato che Microsoft cambia idea sulle caratteristiche di XBOX ONE un giorno sì e l’altro pure. Quindi chi lo sa, magari domani mattina mi sveglio, vado su IGN e vedo che hanno annunciato una versione del botolone venduta a 99 Euro e senza Kinect. A ‘sto punto me lo aspetto.
Epperò c’è da dire che Forza 5 è figo, Dead Rising 3 pare GTA V con gli zombi, Killer Instinct è una tamarrata bellissima pur essendo un free-to-play (anche se pure qui non si è capito un cazzo) e Ryse… No, lasciamo perdere, Ryse è un cesso.
In compenso c’è il nuovo titolo dei tipi che hanno fatto Resistance che sembra bellissimo.
E Quantum Break. Del gioco vero e proprio non abbiamo praticamente visto niente ma oh, è roba Remedy, day-one sulla fiducia.
Ma poi cioè, vogliamo parlare del più grande colpo di scena della storia videoludica moderna?
Dapprima DRM, blocco sui giochi usati, sistema di condivisione complessissimo, obbligo di connessione giornaliera, cani e gatti che vivono insieme.
Poi l’internet si incazza, i forum di videogiochi iniziano di colpo ad assomigliare a scuole oKKupate, il bordello.
La situazione si scalda ancora di più quando salta fuori che PS4 leggerà tranquillamente i giochi usati e costerà cento dollari in meno del botolone.
In questo clima sereno alla "All Cops Are Bastards", Microsoft rilascia dichiarazioni sulla falsariga di “Noi non trattiamo con i terroristi!”, ma è chiaro che in realtà è nel panico, e infatti a un certo punto decide di fare dietrofront: niente DRM sull’usato e, diotiringrazio, niente poottanate colossali come l’obbligo di connessione ogni 24 ore.
Bella lì, che non si sa mai, posso sempre trovarmi in un posto in cui non ho la possibilità di collegarmi a internet. Metti che vado sul K2, ad esempio. In quel caso posso caricare il boxone sulle spalle di uno Sherpa e via, mi metto a giocare a Mirror’s Edge 2 una volta arrivato in vetta.

PlayStation 4
Dall’altra parte abbiamo una console che sembra sempre il mio vecchio registratore, solo un po’ storto, che a farlo dritto poi veniva identico al gigascatolo e pareva brutto.
Qui l’accrocchio che ti stalkera te lo vendono a parte, ma in compenso c’è il Playstation Plus che come primo gioco gratis ti regala lammerda Drive Club, come secondo probabilmente quella figata di Knack e come terzo The Last of Us PS4 Edition, così saranno tutti contenti tranne Nab.
A leggere quello che si dice sull’internet, poi, pare che Sony stia facendo tutto giusto a ‘sto giro.
Son finiti i tempi di Riiiiidge Racer e dei Giant Enemy Crabs, adesso è completamente diverso.
Che brava Sony, che figa Sony, che pucciosa Sony. Il rispetto per i videogiocatori e per i diritti umani, l’emancipazione femminile, gli indie, Jonathan Blow, le coppie di fatto, Naughty Dog, la laicità dello Stato, l’amore libero.
Tutto bello, se non fosse che Sony sarebbe anche quella che un annetto fa ha lanciato Vita e l’ha lasciata lì a morire. Quindi insomma, rispetto per i giocatori una beata fava. Brava eh, Sony, bel modo di supportare un handheld che, volendo, potrebbe spaccare pianeti tipo Superman.
Poi sì, ho capito che a breve arrivano Tearaway e Killzone ma oh… duegiochidue!
E a proposito, che titoli di lancio interessanti c’ha la PS4?

Ecco, appunto.
 
Wii U
Nel mezzo abbiamo Wii U, la console che OHMMADONNASANTA QUANTO E’ BELLO MARIO KART 8!!!
No, un attimo, analizziamo la cosa senza abbandonarci a facili entusiasmi.
Mario Kart 8 è bellissimo, ok. Ha i kart antigravitazionali, il track design che sembra quello di F-Zero e una grafica che finalmente rende giustizia alla console su cui gira. Totale, vedo già fioccare i 10 e i paragoni con Citizen Kane, però solo a me pare che, di tutti i giochi mostrati da Nintendo, sia l’unico a provocare l’effetto “mandibola slogata”?
Non lo so eh, però io ho come l’impressione che la grande N non abbia più voglia di stupire.
Personalmente, come tutti, attendevo con ansia il nuovo Mario per WiiU e mi aspettavo una roba da esplosione cerebrale, non un seguito del (pur ottimo) Mario 3D Land.
Vent’anni fa, quand’ero un pischello che andava alle elementari, c’era un gioco per Game Boy chiamato Super Mario Land 2, un gioco che faceva spavento perché sembrava quasi un Mario per una console casalinga.
Oggi invece abbiamo un Mario per una console casalinga che sembra quasi un Mario per una console portatile.
Eh.
Ma che cazzo è successo?
E i Retro Studios? Io Donkey Kong Country Returns l’ho adorato e sicuramente amerò alla follia anche Tropical Freeze, però non sarebbe stato un attimino meglio se i Retro fossero stati al lavoro su qualcosa di diverso? Qualcosa di differente da un platform, magari, che su Wii U mi pare che abbondino.
Che ne so, un Metroid capace di umiliare Halo 4 dal punto di vista grafico/stilistico, un Mother (see, ciao Teo), ma anche una nuova IP.
In soldoni è palese che il futuro di Wii U sia pieno di giochi di qualità (tra i non citati segnalo anche Pikmin 3Wind Waker HD, Bayonetta 2 e Wonderful 101), ma è innegabile che manchi un po' di coraggio. E a me dispiace ‘sto fatto, perché trovo che i videogiochi siano sì divertimento, ma anche stupore. Sono pur sempre uno di quelli che nel 1996 leggeva Game Power e sbavava di fronte alle immagini di Mario 64.
In ogni caso pace, di roba da giocare ce n’è davvero tanta, tantissima. Da qui a Natale esce il mondo e il 2014 sembrerebbe ancora più promettente dato che, oltre allo stesso Mario Kart 8, arriveranno Xenocoso e il nuovo Smash Bros, che vanterà un roster arricchito di nuovi lottatori, tra cui Megaman e i disturbanti Wii Fit Trainer e Animal Crossing Villager. Quest’ultimo, in particolare, c’ha una faccia da serial killer che levatevi.

La cosa divertente è che, in tutto ciò, il buon 3DS sta distribuendo calci a destra e a manca.
È da marzo che esce almeno un capolavoro al mese e personalmente sto ancora coccolando il mio XL per avermi fatto passare quaranta ore meravigliose con Fire Emblem Awakening.
Bellino il mio 3DS, il Citizen Kane delle console portatili.