lunedì 2 settembre 2013

Il mio torreggiante amore per Stephen King

Leggere mi piace molto ma, per qualche motivo, non mi capita spesso di innamorarmi di un autore fino ad arrivare al punto di incartarmici per mesi. Certo, spesso mi appassiono ad una saga letteraria e saltuariamente mi capita tra le mani un romanzo da cui non riesco a staccare gli occhi finché non arrivo alla fine, ma di rado mi fisso morbosamente su uno specifico scrittore.

Recentemente, però, ho preso una cotta per Stephen King.
Prima di quest’anno non avevo mai letto nulla del popolarissimo autore statunitense originario del Maine (Stato in cui ambienta la stragrande maggioranza dei suoi libri).
Anch’io, come molte delle persone che lo conoscono solo per fama, commettevo l’imperdonabile errore di considerare King un semplice “maestro dell’horror”, quando invece è molto più di questo.
Per inciso, almeno a parer mio, King è uno dei più grandi narratori del nostro tempo, uno scrittore che meriterebbe di venire ricordato come un genio indiscusso.
Dite che esagero? Be’, forse sì, in fondo il mio può essere un giudizio dettato dall’entusiasmo e un’opinione che vale poco o niente.
Però cosa ci posso fare se ogni libro del "Re" che ho avuto occasione di leggere negli ultimi mesi mi è piaciuto incredibilmente, facendomi innamorare della letteratura come non mi capitava da tempo?
Vaffanculo Jimla!
Ho scoperto King grazie a 22/11/’63, uno dei suoi romanzi più recenti.
È un libro meraviglioso.
Narra di Jake Epping, un comune professore di lettere che viaggia a ritroso nel tempo per compiere una missione destinata a cambiare il corso della storia: impedire la morte del presidente Kennedy.
Ma combattere contro il flusso degli eventi non è sempre semplice, il passato non vuole essere cambiato, possiede un istinto di autoconservazione, quasi una volontà propria. E, come Doc Brown insegna, pasticciare troppo con il continuum può essere pericoloso.
Ciò nonostante il nostro protagonista non si lascia scoraggiare e la sua missione lo porta a conoscere un’epoca diversa da quella da cui proviene, un’epoca bellissima ma allo stesso tempo piena di incongruenze e storture.
22/11/’63 è un grandissimo romanzo di fantascienza e un ancor più grande libro di storia.
Il mio viaggio alla scoperta dell'universo kinghiano è poi proseguito con Notte buia, niente stelle, splendida raccolta di racconti che mi ha aiutato a comprendere ancora meglio l’eccezionale bravura di King, uno scrittore che si trova a proprio agio a raccontare qualsiasi cosa, anche gli orrori più disturbanti che si nascondono negli anfratti dell’animo umano.
King sa descrivere il male di cui sono capaci le persone comuni, quelle che magari incontriamo tutti i giorni, che ci sembrano insospettabili e di cui ci fideremmo ciecamente.
Nei racconti di King un assassino non è mai “il cattivo e basta”, ma è una persona reale, credibile. Una persona che magari è pure pazza da legare, ma che, nella sua follia e nella sua paranoia, riesce comunque ad essere coerente.
A giugno, dopo essermi portato in pari con Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, ho letto The Dome.
È un romanzone massiccio, con un sacco di personaggi e sottotrame che si intersecano.
The Dome parte dalla medesima premessa di, ehm, del film dei Simpson: Chester’s Mill, una apparentemente pacifica cittadina del Maine, si ritrova sotto una cupola trasparente di origini ignote. Isolata dal resto del mondo, la popolazione di Chester’s Mill dovrà cercare di sopravvivere, affrontando tutti i problemi che una situazione del genere può comportare e cercando di capire cosa diavolo è questa cupola apparsa dal nulla.
La cosa più interessante di The Dome è però il suo sottotesto politico. Cosa accadrebbe se, in una città completamente isolata, un folle e ambizioso consigliere comunale instaurasse una piccola dittatura, organizzando disordini ad hoc per volgere la situazione a suo vantaggio, manipolando le informazioni ed eliminando i suoi oppositori?
King ce lo spiega in questo libro, offrendoci una bella riflessione sulla natura umana e sulla velocità con cui può degenerare una società civile in un momento di crisi.
Per il mio compleanno, i miei mi hanno regalato Joyland, il romanzo di King più recente (è uscito lo scorso giugno).
Joyland è una splendida ghost-story ambientata in un parco divertimenti degli anni Settanta. Ma è anche un giallo e, soprattutto, un ottimo romanzo di formazione.
Un gioiellino, magari privo della potenza di altre opere Kinghiane, ma comunque piacevole.
Breve ed intenso. Il finale, fra l’altro, è toccante come piace a me.
"Le prugne glorificano!"
Un mio amico mi ha poi prestato una copia di On Writing: autobiografia di un mestiere.
Come si può facilmente intuire leggendo il titolo, On Writing è sia un’autobiografia che un saggio sulla scrittura.
È un libro interessantissimo e illuminante per molteplici motivi.
Prima di tutto è una lettura imprescindibile se si vuole conoscere e comprendere meglio la figura di Stephen King.
Nella prima parte, King racconta la sua vita partendo dall’infanzia fino ad arrivare all’incidente in cui, nell’estate del 1999, ha quasi trovato la morte.
In questa sezione biografica l’autore parla dei giochi che faceva da bambino, della sua passione precoce per la letteratura, dei suoi primi passi come scrittore, dei suoi problemi con alcol e droga, del suo matrimonio e di molto altro ancora. Svela anche gustosi retroscena su alcuni dei suoi romanzi più conosciuti; interessantissima, da questo punto di vista, la genesi di Carrie.
In On Writing è Stephen King il protagonista assoluto.

Nella seconda parte del libro, invece, King parla dell’arte della scrittura e spiega cosa significa scrivere, dando una lunga serie di consigli utilissimi a chiunque abbia il desiderio di intraprendere il mestiere dello scrittore. Se pensate che questa parte del libro sia noiosa, vi sbagliate, e di grosso!
King riesce ad appassionare e a divertire anche quando parla di grammatica, scelta dei vocaboli e costruzione dei dialoghi.
On Writing è comunque un libro molto personale, nel senso che in esso King affronta il tema dello scrivere basandosi sul suo approccio, sulla sua visione, sul suo modus operandi. Spiega cosa significa narrare storie attenendosi a quella che è la propria esperienza, spronando il lettore a seguire la sua passione senza lasciarsi scoraggiare, migliorandosi e correggendosi dovunque sia possibile.

Ho trovato la lettura di On Writing utilissima. Un libro non può trasformarti in uno scrittore dalla sera alla mattina, ci mancherebbe altro, ciononostante quest’autobiografia mi ha aiutato a comprendere meglio il mio modo di scrivere e mi ha dato un paio di dritte che spero possano tornarmi utili.
Grazie, Stephen.
Non si può stare attenti su uno skateboard.
Infine arriviamo a IT.
So che molta gente lo considera, insieme all’Ombra dello Scorpione, il grande capolavoro di King. Il romanzo della vita, quello che entra nella storia e ci rimane.
IT è anche molto di più.
È un libro memorabile, che miscela alla perfezione svariati generi letterari: horror, fantasy, thriller, romanzo formativo.
In IT c’è tutto questo.

È la storia di alcuni bambini che stanno uscendo dall’infanzia per fare il loro ingresso nella difficile età dell’adolescenza e, da lì, avviarsi verso l’età adulta.
È poi la storia di questi bambini divenuti adulti, immemori della propria fanciullezza e del tempo in cui la loro immaginazione aveva il potere di sfidare qualcosa di incommensurabilmente più grande di loro; qualcosa di mostruoso, di abominevole, qualcosa che teneva un’intera città imprigionata in una morsa di violenza e di terrore.
Ma è soprattutto la storia di un gruppo di amici, di una banda di perdenti.

IT è un romanzo che parla di crescita, coraggio e amicizia.
Di come uno spaventoso nemico che ha la capacità di assumere la forma delle nostre peggiori paure possa essere sfidato, affrontato e infine sconfitto.
IT è un romanzo che parla di persone normali, di ragazzi normali, di vite normali.
Il leader del Club dei Perdenti è un bambinetto balbuziente. C’è poi il ragazzo ipocondriaco che ha una madre iperprotettiva, c’è quello con problemi di peso, c’è il ragazzo di colore che viene tormentato dai soliti bulletti razzisti, c’è il perfettino, c’è il buffone con gli occhiali e c’è la ragazza che subisce quotidianamente i soprusi di un padre violento.
Apparentemente si potrebbe pensare di avere a che fare con le classiche macchiette stereotipate, ma di fatto non è assolutamente così. Ciascuno dei Perdenti possiede una personalità complessa che vanta pagine su pagine di approfondimento psicologico.
E non solo i Perdenti in realtà, dato che in questo libro persino alcuni dei personaggi secondari meriterebbero di essere protagonisti indiscussi di un romanzo a parte.

In IT la capacità di King di caratterizzare vite immaginarie, situazioni e luoghi è espressa all’ennesima potenza.
È un romanzo dalle mille sfaccettature che non si vorrebbe finire mai e che ti fa giungere alla conclusione con un groppo alla gola.
Vi basti sapere che, pur avendolo finito da più di una settimana, non sono ancora riuscito a riporlo nella mia libreria e a lasciarlo lì a prender polvere. Ogni tanto lo riprendo in mano e rileggo qualche passaggio che mi è piaciuto particolarmente.
Nello specifico, credo di essermi riletto lo splendido epilogo ormai quattro o cinque volte.
In IT c’è tutto quello che mi fa amare King alla follia.

Che dire, sono veramente contento di aver scoperto questo autore così eccezionale e sono ancora più contento se penso che devo ancora leggere la maggior parte delle sue opere.
Giusto per non farmi mancare nulla, ho già recuperato Duma Key, Stagioni diverse, Il miglio verde, Al crepuscolo, La bambina che amava Tom Gordon e Shining, ma comunque voglio cercare anche L’Ombra dello Scorpione e un po’ di altra roba.
Che poi una delle cose più deliziose dei romanzi di King è leggerli cogliendo tutti i riferimenti, le citazioni e i collegamenti tra le varie opere. In tal senso sarebbe più logico leggersi i libri in ordine di pubblicazione e non a casaccio come sto facendo io.
Intanto, se posso darvi un consiglio evitando di fare spoiler, vi suggerisco di leggere prima IT e, successivamente, 22/11/’63.
Fidatevi.

mercoledì 3 luglio 2013

I miei film del mese

Tanto per non interrompere la striscia positiva di aggiornamenti del blog, ho deciso di scrivere il solito post cumulativo per parlare brevemente dei film visti nel mese di giugno.
Pronti, via!
 
Man of Steel
Piacevole. I primi trailer rilasciati erano così belli che mi hanno leggermente pompato le aspettative, ma alla fine non sono rimasto deluso.
Certo, ci sono un paio di stronzate abnormi a livello di sceneggiatura e, in generale, il film avrebbe meritato una durata maggiore, che permettesse di sviluppare con più calma certe cosette trattate un po’ alla pene di segugio.
Però, nel complesso, Man of Steel funziona. Henry Cavill possiede il giusto physique du role ed è un Kal-El assolutamente perfetto, le parti su Krypton sono ganze, i flashback sull’infanzia di Clark molto belli e le mazzate sono finalmente esagerate e spettacolari.
Indiscutibilmente meglio di Superman Returns del 2006 che, pur non facendo così schifo come si dice in giro, in effetti era un po’ insipido.
Unico appunto? Mi manca tantissimo il main theme di John Williams.


Star Trek Into Darkness
Premessa: non sono un fan di Star Trek.
Leggo da tutte le parti che Into Darkness è il classico film che fa inacidire gli appassionati della saga. Personalmente, essendo io un perfetto ignorante in materia, l’ho trovato piuttosto figo. Divertente, scorrevole, mai noioso. E poi c’è Simon Pegg.
L’idea che mi sono fatto, leggendo le lamentele dei Trekkies, è che Abrams sia un regista abilissimo nel confezionare prodotti d’intrattenimento, ma che non riesca a infondere la giusta dose di “epica”.
Era una cosa che si notava anche in Super 8, un'opera che ricalcava i film per ragazzi anni Ottanta in maniera pedissequa, non riuscendo a coglierne del tutto il fascino e l’atmosfera.
Perché in fin della fiera funzionava tutto, in Super 8, ma si vedeva troppo che era un film del 2011 che cercava di sembrare un film del 1985.
Quindi immagino che, per un fan di Spock e company, questo Into Darkness sia una pellicoletta di fantascienza che cerca di sembrare Star Trek.
In tal senso, da appassionato di Star Wars, sono preoccupatissimo per Episodio VII.
JJ, non fare cazzate.
 
 
Cloud Atlas
Bel mattonazzo americano-crucco.
Cloud Atlas racconta sei storie, ambientate in epoche diverse, che hanno svariati punti in comune e trattano le medesime tematiche.
Niente male, una pellicola che si lascia seguire senza intoppi nonostante continui a saltare di palo in frasca. Merito dell'ottimo montaggio e di una regia mai confusionaria.
Certe storie sono prevedibilmente più riuscite di altre, ma nel complesso è interessante fare caso a tutti i parallelismi e cercare di capire quali personaggi sono interpretati dal medesimo attore. E la cosa non è sempre così semplice, fidatevi.
Cast d’eccezione, tra l’altro (segnalo la presenza di Tom Hanks, Hugh Grant e Hugo Weaving).
Visivamente è pure molto bello, quindi thumbs up!
 
 
Fast & Furious 6
Niente, mi limito a linkare un paio di recensioni.
Qui c’è quella di Leo Ortolani e qui trovate quella di Nanni Cobretti sul blog i400Calci.
Dicono tutto loro, non mi sembra il caso di aggiungere altro!
Anzi, una cosa la dico: andare al cinema a vedere Fast & Furious è sempre spassosissimo perché, nel parcheggio del multisala, si vedono robe assurde. Robe che ti fanno ringraziare i Sette Dei di non averti fatto nascere zarro!
Del tipo che mi sto ancora chiedendo quale trauma infantile debba aver subito un tizio che se ne va in giro a bordo di una Punto rosa leopardata.

Stasera vado a vedere World War Z, il film con gli zombi che sembrano le formiche rosse di The Kingdom of Crystal Skull.
Aspettative bassine, ma comunque sono curioso.

martedì 2 luglio 2013

New Super Luigi U

Il rapporto travagliato di Nintendo con tutto ciò che riguarda l’interwebz è stato spesso oggetto di rumorose pernacchie.
Pensiamo soltanto al mancato inserimento del multiplayer online in alcuni titoli che ne avrebbero immensamente beneficiato (ciao Nintendo Land, quanto saresti stato più figo anche solo con delle semplici leaderboard?), alla macchinosità dei codici amico e alla delirante gestione dei giochi acquistati in digital delivery, che rimangono legati a una console anziché a un account.
Cose antipatiche e giustamente criticate da tutti.
Questa concezione del videogioco squisitamente anni Novanta ha anche tagliato fuori la grande N dal discorso DLC.
Per tutta la durata della generazione appena trascorsa abbiamo visto uscire su PS3 e XBOX 360 contenuti scaricabili di ogni tipo e per qualsiasi genere di gioco.
Troppo spesso si trattava di roba brutta o tranquillamente evitabile, ma ogni tanto saltavano fuori anche contenuti aggiuntivi con tutti i crismi, come le due ottime espansioncine di Alan Wake.
Su Wii, invece, c’era la desolazione più completa.
Solo ultimamente Nintendo sembra essersi accorta delle possibilità offerte dall’internet in tal senso.
Nei mesi scorsi, infatti, è stato possibile scaricare su 3DS piccoli set di livelli per la modalità Coin Rush di New Super Mario Bros 2, oltre che svariate mappe aggiuntive per Fire Emblem Awakening.
New Super Luigi U è però il primo, vero, DLC di un certo peso ad uscire per un gioco Nintendo (New Super Mario Bros U per Wii U, ricordiamolo giusto per non fare confusione).
È un contenuto aggiuntivo bello massiccio, che possiede i connotati di una vera e propria espansione.
New Super Luigi U offre, al prezzo non proprio irrisorio di venti euro, la possibilità di affrontare ottantadue nuovi livelli nei panni del fratello smilzo e fifone di Mario.
Apparentemente identico al gioco che va ad ampliare, questo DLC è in realtà un titolo che, innestandosi sull’estetica di New Super Mario Bros U, propone un gameplay con un feeling radicalmente differente.
Tutti i nuovi livelli sono costruiti remixando e stravolgendo gli elementi di quelli presenti nel titolo originale, tenendo conto delle caratteristiche di Luigi, personaggio che si controlla in maniera molto diversa rispetto al fratello. L’idraulico vestito di verde è infatti più veloce, ha un’inerzia che lo porta a scivolare sul terreno, salta più in alto e, quando si trova a mezz’aria, può eseguire una sorta di breve planata muovendo freneticamente le gambe.
Tutti i livelli di questo DLC offrono un level design perfido ed esigente che strizza l’occhio alle abilità peculiari di Luigi. Un level design che, stile grafico e qualità generale a parte, ha ben poco in comune con quello del titolo di partenza.
La sfida è inoltre altissima sin dal primo mondo e anche chi ha portato a termine al cento per cento New Super Mario Bros U (che facilissimo non era, soprattutto nelle fasi più avanzate) si stupirà della difficoltà di questo DLC.
Persino la struttura base dei livelli è cambiata, dato che ora sono più brevi, il tempo disponibile per portarli a termine è limitato a cento secondi e non c’è nessun checkpoint a metà percorso. Il che rende facilmente intuibile che New Super Luigi U possiede un ritmo molto più serrato rispetto a Mario U.

New Super Luigi U è dunque un contenuto scaricabile che avrebbe parecchie cose da insegnare ai DLC smorti che spesso vanno ad ampliare (per modo di dire) i giochi disponibili su console Sony e Microsoft.
Non è un’aggiunta blanda, non è un pezzo del titolo originale segato via e venduto a parte.
È di fatto un’esperienza inedita che reinventa New Super Mario Bros U e possiede l’indiscutibile capacità di tenere impegnato qualunque appassionato di platform per diverse ore, facendolo incazzare e godere allo stesso tempo.
È il DLC alla maniera di Nintendo e la cosa ci piace.
Speriamo solo che la casa di Kyoto continui su questa strada e, in futuro, non faccia porcate.
Del tipo, io ho quest'incubo ricorrente di uno Zelda free-to-play.
Gli episodi per Philips CD-i sembrano improvvisamente bellissimi, vero?

Ricordo che a fine luglio uscirà nei negozi la versione pacchettizzata di New Super Luigi U. Costerà un po’ di più rispetto a questo DLC, ma in compenso potrà essere giocata senza avere una copia di Mario.
Inoltre, se l’idea di possedere un gioco per Wii U in una confezione verde vi attizza, direi che l’acquisto è praticamente obbligato.

venerdì 28 giugno 2013

Necst-gen


Sta per arrivare la next-gen e io sono perplesso.
Vediamo di fare il punto della situazione.
 
XBOX ONE
Da una parte abbiamo una console che sembra il mio vecchio videoregistratore e che viene venduta insieme a un accrocchio HAL 9000-wannabe che potrebbe rivelarsi una figata ma magari anche no.
Questo almeno fino ad oggi, dato che Microsoft cambia idea sulle caratteristiche di XBOX ONE un giorno sì e l’altro pure. Quindi chi lo sa, magari domani mattina mi sveglio, vado su IGN e vedo che hanno annunciato una versione del botolone venduta a 99 Euro e senza Kinect. A ‘sto punto me lo aspetto.
Epperò c’è da dire che Forza 5 è figo, Dead Rising 3 pare GTA V con gli zombi, Killer Instinct è una tamarrata bellissima pur essendo un free-to-play (anche se pure qui non si è capito un cazzo) e Ryse… No, lasciamo perdere, Ryse è un cesso.
In compenso c’è il nuovo titolo dei tipi che hanno fatto Resistance che sembra bellissimo.
E Quantum Break. Del gioco vero e proprio non abbiamo praticamente visto niente ma oh, è roba Remedy, day-one sulla fiducia.
Ma poi cioè, vogliamo parlare del più grande colpo di scena della storia videoludica moderna?
Dapprima DRM, blocco sui giochi usati, sistema di condivisione complessissimo, obbligo di connessione giornaliera, cani e gatti che vivono insieme.
Poi l’internet si incazza, i forum di videogiochi iniziano di colpo ad assomigliare a scuole oKKupate, il bordello.
La situazione si scalda ancora di più quando salta fuori che PS4 leggerà tranquillamente i giochi usati e costerà cento dollari in meno del botolone.
In questo clima sereno alla "All Cops Are Bastards", Microsoft rilascia dichiarazioni sulla falsariga di “Noi non trattiamo con i terroristi!”, ma è chiaro che in realtà è nel panico, e infatti a un certo punto decide di fare dietrofront: niente DRM sull’usato e, diotiringrazio, niente poottanate colossali come l’obbligo di connessione ogni 24 ore.
Bella lì, che non si sa mai, posso sempre trovarmi in un posto in cui non ho la possibilità di collegarmi a internet. Metti che vado sul K2, ad esempio. In quel caso posso caricare il boxone sulle spalle di uno Sherpa e via, mi metto a giocare a Mirror’s Edge 2 una volta arrivato in vetta.

PlayStation 4
Dall’altra parte abbiamo una console che sembra sempre il mio vecchio registratore, solo un po’ storto, che a farlo dritto poi veniva identico al gigascatolo e pareva brutto.
Qui l’accrocchio che ti stalkera te lo vendono a parte, ma in compenso c’è il Playstation Plus che come primo gioco gratis ti regala lammerda Drive Club, come secondo probabilmente quella figata di Knack e come terzo The Last of Us PS4 Edition, così saranno tutti contenti tranne Nab.
A leggere quello che si dice sull’internet, poi, pare che Sony stia facendo tutto giusto a ‘sto giro.
Son finiti i tempi di Riiiiidge Racer e dei Giant Enemy Crabs, adesso è completamente diverso.
Che brava Sony, che figa Sony, che pucciosa Sony. Il rispetto per i videogiocatori e per i diritti umani, l’emancipazione femminile, gli indie, Jonathan Blow, le coppie di fatto, Naughty Dog, la laicità dello Stato, l’amore libero.
Tutto bello, se non fosse che Sony sarebbe anche quella che un annetto fa ha lanciato Vita e l’ha lasciata lì a morire. Quindi insomma, rispetto per i giocatori una beata fava. Brava eh, Sony, bel modo di supportare un handheld che, volendo, potrebbe spaccare pianeti tipo Superman.
Poi sì, ho capito che a breve arrivano Tearaway e Killzone ma oh… duegiochidue!
E a proposito, che titoli di lancio interessanti c’ha la PS4?

Ecco, appunto.
 
Wii U
Nel mezzo abbiamo Wii U, la console che OHMMADONNASANTA QUANTO E’ BELLO MARIO KART 8!!!
No, un attimo, analizziamo la cosa senza abbandonarci a facili entusiasmi.
Mario Kart 8 è bellissimo, ok. Ha i kart antigravitazionali, il track design che sembra quello di F-Zero e una grafica che finalmente rende giustizia alla console su cui gira. Totale, vedo già fioccare i 10 e i paragoni con Citizen Kane, però solo a me pare che, di tutti i giochi mostrati da Nintendo, sia l’unico a provocare l’effetto “mandibola slogata”?
Non lo so eh, però io ho come l’impressione che la grande N non abbia più voglia di stupire.
Personalmente, come tutti, attendevo con ansia il nuovo Mario per WiiU e mi aspettavo una roba da esplosione cerebrale, non un seguito del (pur ottimo) Mario 3D Land.
Vent’anni fa, quand’ero un pischello che andava alle elementari, c’era un gioco per Game Boy chiamato Super Mario Land 2, un gioco che faceva spavento perché sembrava quasi un Mario per una console casalinga.
Oggi invece abbiamo un Mario per una console casalinga che sembra quasi un Mario per una console portatile.
Eh.
Ma che cazzo è successo?
E i Retro Studios? Io Donkey Kong Country Returns l’ho adorato e sicuramente amerò alla follia anche Tropical Freeze, però non sarebbe stato un attimino meglio se i Retro fossero stati al lavoro su qualcosa di diverso? Qualcosa di differente da un platform, magari, che su Wii U mi pare che abbondino.
Che ne so, un Metroid capace di umiliare Halo 4 dal punto di vista grafico/stilistico, un Mother (see, ciao Teo), ma anche una nuova IP.
In soldoni è palese che il futuro di Wii U sia pieno di giochi di qualità (tra i non citati segnalo anche Pikmin 3Wind Waker HD, Bayonetta 2 e Wonderful 101), ma è innegabile che manchi un po' di coraggio. E a me dispiace ‘sto fatto, perché trovo che i videogiochi siano sì divertimento, ma anche stupore. Sono pur sempre uno di quelli che nel 1996 leggeva Game Power e sbavava di fronte alle immagini di Mario 64.
In ogni caso pace, di roba da giocare ce n’è davvero tanta, tantissima. Da qui a Natale esce il mondo e il 2014 sembrerebbe ancora più promettente dato che, oltre allo stesso Mario Kart 8, arriveranno Xenocoso e il nuovo Smash Bros, che vanterà un roster arricchito di nuovi lottatori, tra cui Megaman e i disturbanti Wii Fit Trainer e Animal Crossing Villager. Quest’ultimo, in particolare, c’ha una faccia da serial killer che levatevi.

La cosa divertente è che, in tutto ciò, il buon 3DS sta distribuendo calci a destra e a manca.
È da marzo che esce almeno un capolavoro al mese e personalmente sto ancora coccolando il mio XL per avermi fatto passare quaranta ore meravigliose con Fire Emblem Awakening.
Bellino il mio 3DS, il Citizen Kane delle console portatili.

mercoledì 26 giugno 2013

The Last of Us

La grande peculiarità dei videogiochi, a parere di chi scrive, è quella di far vivere esperienze interattive.
Banale, lo so, ma in fondo incontestabile.
Quando noi leggiamo un romanzo ci limitiamo ad immaginare la storia narrata dall’autore, mentre quando guardiamo un film non possiamo far altro che osservare ciò che accade sullo schermo. Stesso dicasi per i fumetti, le serie televisive e tutti gli altri media di cui fruiamo rimanendo sostanzialmente passivi. Solo i videogiochi, pur con tutti i loro limiti e compromessi, permettono un livello di interazione che vada oltre la semplice comprensione della trama.
In un videogioco noi non ci riduciamo a guardare il protagonista combattere, soffrire, avere paura e affezionarsi a qualcuno, in un videogioco noi “siamo” il protagonista, di conseguenza abbiamo teoricamente la possibilità di vivere in prima persona tutte le sue emozioni, piacevoli o dolorose che siano.
Purtroppo molti titoli sembrano non curarsi di questo immane potenziale del medium videoludico. Troppo spesso ci troviamo a giocare schifezze che non lasciano niente, tanto è vero che sono il primo ad affermare che i videogiochi abbiano ancora molta strada da fare per raggiungere la potenza espressiva già toccata da cinema e letteratura.
Devo ancora trovare il corrispettivo videoludico di 22/11/’63 di Stephen King, tanto per citare un libro letto di recente che riesce ad essere al tempo stesso una piacevole lettura di intrattenimento e un grandissimo romanzo storico, capace di tratteggiare con maestria la realtà dell’America anni Cinquanta e Sessanta. Forse alcuni titoli Rockstar riescono a fare qualcosa del genere, ma direi che i Red Dead Redemption del caso sono più che altro delle eccezioni in quello che è il panorama videoludico attuale.
È anche per questo motivo che è difficile non entusiasmarsi di fronte a The Last of Us, un gioco che riesce perfettamente a esprimere il potenziale del medium a cui appartiene. Un gioco che, oltre a coinvolgerti con un gameplay di assoluto pregio, giunge addirittura a colpirti, raccontandoti (anzi, facendoti vivere) una storia che ti entra nel cuore.

The Last of Us è frutto dell’impegno dei Naughty Dog, sviluppatori californiani che hanno sempre contribuito a segnare in maniera indelebile la storia di tutte le console targate Sony.
Crash Bandicoot su PSOne, Jak & Daxter su PS2 e, in tempi recenti, la saga di Uncharted su PS3.
È proprio in Uncharted che The Last of Us pone le sue radici, anche se in realtà i due titoli hanno molto meno in comune di quanto potrebbe sembrare a una prima occhiata distratta. Di fatto direi che le somiglianze si riducono alla visuale in terza persona. E non sto esagerando.
Entrambi, tuttavia, sono giochi che puntano moltissimo sulla componente narrativa.
Uncharted è il gioco d’avventura story driven per eccellenza, di fatto è il corrispettivo videoludico di Indiana Jones.
The Last of Us, invece, lascia da parte le ricerche di antichi tesori e prova a raccontare una storia di tutt’altro genere. Una storia cupa, priva di ogni spensieratezza, che stordisce e che entra nelle viscere.
Amici lettori, con The Last of Us va in scena il tramonto della razza umana!
È un mondo post apocalittico, quello di The Last of Us.
Una misteriosa pandemia ha colpito il genere umano, trasformando le persone infettate in mostruose creature simili a zombi: esseri divorati da uno strano fungo che, col tempo, devasta i loro corpi fino a sfigurarli completamente, rendendoli degli aberranti involucri ciechi che cacciano le prede affidandosi unicamente a un udito super sviluppato simile a un sonar.
Sono passati vent’anni dalla repentina diffusione di questo terrificante morbo e l’umanità sta morendo.
I pochi superstiti vivacchiano di stenti in presidi fortificati, tenuti sotto controllo da una forza militare dispotica. Chi vive all’esterno di questi avamposti è ridotto ancora peggio ed è costretto a lottare per la propria sopravvivenza, aggrappandosi alla vita con le unghie e con i denti.
Ma soprattutto, gli esseri umani hanno perso la propria umanità.
Chi, prima dell’apocalisse, era un tranquillo padre di famiglia che non avrebbe mai fatto del male a una mosca, per sopravvivere in questo mondo spietato e violento ha dovuto abbandonare qualsiasi vincolo morale, trovandosi costretto a fare cose di cui mai si sarebbe ritenuto capace. Uccidi o rimani ucciso, ruba o muori di fame. Gli egoisti sopravvivono, tutti gli altri soccombono.
Nel mondo di The Last of Us il fine ultimo è la propria sopravvivenza e quella delle poche persone care che ci sono rimaste. Se ci sono rimaste, chiaro.

È questa la dura realtà in cui si trova Joel, il protagonista del gioco. Joel è un cinquantenne che ha visto la fine del mondo (e della speranza) con i propri occhi e che, suo malgrado, è stato obbligato ad adattarsi a questa nuova vita.
Non è un eroe, non è nemmeno una brava persona, in effetti. È semplicemente un sopravvissuto, come è lui stesso a definirsi in una delle prime sequenze d’intermezzo.
Il suo compito sarà quello di scortare attraverso ciò che resta degli Stati Uniti la giovane Ellie, una ragazza di quattordici anni con cui, dopo un po’ di titubanza iniziale, svilupperà un rapporto profondo destinato a farvi venire gli occhi lucidi in più di un’occasione.
È proprio la caratterizzazione di Joel ed Ellie la cosa più convincente del titolo Naughty Dog.
Lui ormai stanco e rassegnato, consapevole dell’incapacità del genere umano di risollevarsi da questo abisso in cui sta precipitando e memore di un mondo che non esiste più. Un mondo che non sembra essere mai esistito, che ormai perdura soltanto nei sogni e in pochi, dolorosi, ricordi.
Ellie invece è giovane, nata dopo l’apocalisse che ha distrutto ogni cosa, totalmente ignara di ciò che esisteva prima della fine della civiltà. È inconsapevole delle cose che non ha potuto vedere con i propri occhi e spesso incredula di fronte alle frammentarie informazioni riguardanti il mondo che l’ha preceduta.
“Davvero una volta le persone sceglievano di non mangiare per una questione estetica? Davvero la massima preoccupazione delle ragazze come me era scegliere quali scarpe indossare per andare a scuola?”
Ma Ellie non è un personaggio cupo e triste, è anzi un’adolescente che ha vissuto tutta la sua breve esistenza in una realtà diversa dalla nostra e, come tutte le adolescenti, ha ancora la forza di ridere, di scherzare, di avere un minimo di speranza. Ellie è la dimostrazione vivente che, anche quando tutto sembra finito, quando tutto sembra marcio e corrotto, può esserci ancora qualcosa di buono.
The Last of Us racconta la storia di questo strano duo. Un uomo e una ragazza diversissimi fra loro che si trovano ad affrontare un viaggio insieme, sostenendosi e aiutandosi a vicenda.
Il loro rapporto, nelle battute iniziali freddo e distaccato, si delinea nelle cutscene e nelle fasi giocate.
Queste ultime funzionano meglio rispetto ad Uncharted, dove i toni solari della narrazione stridevano con il fatto che un avventuriero bonaccione come Drake fosse costretto ad ammazzare centinaia di poveri cristi per procedere nell'avventura.
In The Last of Us, invece, le fasi di gameplay sono molto più coerenti.
Anche qui Joel si trova nella situazione di dover uccidere un sacco di gente, ma in questo contesto la cosa risulta molto meno stonata.
I combattimenti, inoltre, con la loro violenza e la loro notevole fisicità, contribuiscono ulteriormente a delineare il mondo di gioco. Un mondo in cui è necessario lottare per la propria vita, sia contro i mostruosi infetti che contro gli altri sopravvissuti che cercano di farci la pelle, e in cui è importante capire quando conviene adottare un basso profilo (prediligendo un approccio di gioco stealth) e quando invece ci si può permettere di affrontare gli avversari di petto, facendo affidamento su tutte le risorse a nostra disposizione.
Il gioco funziona a meraviglia e riesce sempre a trasmettere un forte senso di tensione e di precarietà, tanto è vero che mi sono trovato a morire abbastanza spesso anche a difficoltà normal.

Tra una sparatoria, un combattimento a mani nude e un breve momento di calma apparente, il viaggio di Ellie e Joel continua.
I due parlano del più e del meno, discutono, litigano, interagiscono con le poche persone amichevoli che incontrano, gioiscono nel rivedere la luce del sole dopo essere finalmente usciti da un passaggio sotterraneo.
Non perdono nemmeno occasione di commentare ciò che vedono girando per le rovine delle città, per i boschi e per gli avamposti abbandonati. In questo gioco le ambientazioni, oltre a trasudare atmosfera da ogni poligono, hanno una loro storia da raccontare. Gli scenari di The Last of Us, esattamente come quelli di altri capolavori videoludici rispondenti al nome di Half-Life 2 e Portal 2, sono ricchi di dettagli che fanno intuire ciò che è accaduto a chi è passato di lì prima di noi e, probabilmente, non ce l’ha fatta.
The Last of Us, come il recente The Walking Dead di Telltale, affronta inoltre tematiche che raramente vengono toccate in un videogioco, dispensando mazzate emotive con una naturalezza che lascia di stucco.
La storia, pur lasciandosi andare a qualche tòpos del genere post apocalittico, si sviluppa in maniera ritmata e tutto sommato abbastanza imprevedibile, turbando ed emozionando il giocatore con momenti di grande impatto, resi spesso in modo magnifico grazie anche all’impressionante recitazione degli attori virtuali coinvolti.
È interessante notare come, per una volta, i creatori di Uncharted non abbiano puntato ad impressionare utilizzando la spettacolarità fine a se stessa, evitando di infarcire il gioco di passaggi roboanti eccessivamente sopra le righe.
The Last of Us, a dispetto della sua violenza intrinseca, è quasi un gioco intimista, a tratti poetico, che preferisce coinvolgere sfruttando i dialoghi, la regia e l’atmosfera piuttosto che le sequenze fracassone. È un gioco trascinante, che incolla al televisore e mette in ansia per la sorte dei suoi protagonisti. La vicenda raccontata da Naughty Dog è malinconica, amara, non ci prova nemmeno ad addolcire i toni. Joel ed Ellie, nel corso del loro lungo viaggio, si troveranno più di una volta a fare i conti con la morte, lo sconforto e la disperazione più assoluta.

Che altro dire?
Devo davvero mettermi a parlare del lato tecnico di questo titolo?
Perché potrei star qui per ore a triturarvi le gonadi facendo discorsi chilometrici sulla bontà grafica di The Last of Us, su quanto faccia spavento, su quanto sia dettagliato, su quanto sia incredibile che un tale spettacolo giri su una semplice PS3. Ma non mi sembra il caso, del resto della bellezza visiva di questo gioco ne hanno già parlato in tanti e dai creatori di Uncharted non ci si può aspettare meno che l’eccellenza.
Paradossalmente ci sarebbe molto da dire anche sui difetti.
Il titolo Naughty Dog non è infatti un titolo perfetto in ogni sua parte. L’IA dei nemici poteva forse essere più evoluta, dato che i nostri avversari hanno questa fastidiosa tendenza a ignorare totalmente ciò che fanno gli NPC che ci accompagnano (Ellie inclusa). In certi frangenti il gameplay potrebbe poi risultare un po’ ripetitivo. Inoltre, se i combattimenti sono sempre tesi e assai riusciti, lo stesso non si può dire dei (pochi) enigmi ambientali proposti.
In ogni caso, per quanto mi riguarda, trovo che The Last of Us sia un gioco che vada premiato per i suoi meriti, meriti che contribuiscono a creare un’esperienza videoludica di assoluto valore, che non viene minimamente intaccata da qualche perdonabilissimo difettuccio del tutto irrilevante nell’economia globale del gioco.
The Last of Us è in definitiva un titolo capace di farsi amare. Un’opera mastodontica, dalla bellezza indiscutibile, che merita di essere vissuta dall’incredibile incipit fino allo sbalorditivo finale.
Non c’è altro da aggiungere, anche perché, così a caldo, mi risulta difficile stabilire con certezza se l’ultima fatica di Naughty Dog passerà alla storia come capolavoro o semplicemente come un ottimo gioco. Ma alla fine, ora come ora, ce ne importa davvero qualcosa?

Ho iniziato e finito The Last of Us nel giro di un week-end, il che dovrebbe essere abbastanza indicativo di quanto mi sia piaciuto, considerando che ultimamente sono in preda a un tale scazzo videoludico che anche i titoli di sei ore scarse arrivano a durarmi settimane.
The Last of Us, per la cronaca, di ore ne dura circa una quindicina. Se non si fosse capito l’ho adorato, direi che era dai tempi di Portal 2 che un gioco non mi colpiva in questo modo.
Due parole sul finale, senza fare alcuno spoiler: è bellissimo. Devastante, reso splendidamente e per nulla scontato. Un gioco come The Last of Us non poteva avere un epilogo più appropriato e significativo di questo.
Se ci ripenso mi vengono ancora i brividi.
Ah, spero seriamente che NON ci sia un sequel. Non ne sento assolutamente il bisogno.

lunedì 27 maggio 2013

Ti faccio la bolla!

Quando avevo sei anni, mi capitava spesso di fare un salto nel bar sotto casa.
Non perché a quell’età avessi già sviluppato una particolare forma di alcolismo infantile, o perché sentissi la necessità di comprare un pacchetto di Camel. Andavo al bar perché, nel retrobottega, c’erano due videogiochi.
Erano due cabinati enormi ed ingombranti, allineati a una parete dalla vernice scrostata. Quello più a destra era sempre spento. Probabilmente era rotto. Non ho mai saputo che razza di gioco fosse.
Quello a sinistra, invece, funzionava benissimo e faceva girare un titolo di lotta chiamato Street Fighter II. A quei tempi sapevo a stento leggere e mi riusciva difficile comprendere le scritte in lingua inglese, così lo chiamavo semplicemente “il gioco del karate”.
La cosa divertente è che, ogni volta che scendevo al bar, a giocare con quel videogame non c’era mai nessuno. La clientela del locale non era esattamente appassionata di videogiochi: si trattava per lo più di pensionati intenti a bere un bianchino alle otto del mattino, anziani annoiati che passavano la giornate lamentandosi dei giovani che scrivevano sui muri o dei politici che non combinavano mai un cazzo di buono.
Il proprietario però era simpatico. Era un sessantenne dalla faccia rubiconda e con un folto cespuglio di capelli grigi in testa.
Ogni volta che entravo nel suo bar mi sorrideva e mi diceva che “il videogioco” era già acceso. Chiaramente, quasi sempre, c’era il solito avventore che mi fissava scuotendo la testa e commentava dicendo “Quei cosi elettronici lì ti fanno diventare scemo”, ma io lo ignoravo e andavo al bancone a comprare una coca. Non ero obbligato a ordinare qualcosa, ma mi sembrava da maleducati entrare lì per giocare e basta.
Dopo aver bevuto la mia bibita correvo nel retrobottega, infilavo le mie preziose cinquecento lire nel cabinato e mi mettevo a giocare.
Sceglievo sempre Ryu, ma io lo chiamavo “Daniel-San”, come il protagonista di Karate Kid, il mio film preferito.
Ogni tanto prendevo il fazzoletto e pulivo lo schermo del cabinato mimando la famosa scena del “Dai la cera, togli la cera”. Era il mio gesto portafortuna, ma non aiutava molto, visto che il più delle volte morivo al terzo avversario.
Non ero molto bravo a giocare. Di solito premevo i tasti a casaccio e non avevo idea di come si eseguissero le mosse segrete. Anzi, in tutta onestà non sapevo nemmeno che si potessero fare, pensavo che fossero prerogativa dei personaggi controllati del computer.
I miei combattimenti erano delle danze sgraziate in cui alternavo calci e pugni. Riuscivo ad aver ragione degli avversari più lenti, ma non appena incontravo il Guile di turno venivo crivellato da una sassaiola di Sonic Boom e Somersault Kick, anche se all’epoca ovviamente ignoravo i nomi di quelle mosse.
Mia madre mi dava sempre un solo gettone, dunque quando compariva il game over non potevo quasi mai continuare la partita. Dico quasi perché ogni tanto riuscivo ad arrangiarmi con il resto della coca cola.
Le mie sessioni videoludiche erano brevi ma intense. Arrivavo al baretto, bevevo il mio “drink”, giocavo per dieci minuti e me ne tornavo a casa più felice e sereno di prima.
Un giorno, tuttavia, qualcosa cambiò.

Era un pomeriggio di giugno e la scuola era finita da pochi giorni.
Nel locale trovai il solito gruppetto di pensionati impegnati in una partita a scopone scientifico. Bevevano bianchini e usavano le bestemmie come intercalari.
Il proprietario sedeva al bancone sfogliando la gazzetta con aria annoiata, fumando una Marlboro che gli pendeva all’angolo della bocca.
Tutto come al solito, almeno apparentemente.
Non appena il proprietario si accorse della mia presenza, infatti, sollevò lo sguardo dal quotidiano che stava leggendo e mi disse «Oh, ciao! Vedi che oggi il gioco è occupato!».
Per un attimo non capii, poi realizzai. Sbirciai nel retrobottega e vidi che, accanto ai due cabinati, c’era qualcun altro.
Il barista sorrise e prese la solita coca da sotto il bancone. Sganciai la banconota da mille lire e bevvi la lattina tutta d’un fiato, dopodiché mi infilai di corsa nel retrobottega.
Con mia sorpresa vidi che c’era una bambina davanti al cabinato del gioco del karate. Era di qualche anno più grande di me (più tardi appresi che aveva dieci anni), portava una maglietta verde scolorita e aveva i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo.
Era talmente concentrata sulla sua partita che non si accorse della mia presenza. Con la sua Chun-Li stava cercando di mandare KO un agguerritissimo Blanka che, tuttavia, stava decisamente avendo la meglio. Nel giro di un minuto, infatti, il gigante verde si chiuse a palla e si scagliò con violenza contro la lottatrice cinese, sconfiggendola per la seconda volta di fila e facendo comparire la scritta “Continue?”.
La bambina tirò un pugno contro il cabinato e urlò un “CAZZO!” che mi fece rimanere di sasso.
Solo in quel momento la ragazza si voltò e vide che la stavo fissando con gli occhi sbarrati.
Si mise a ridere. «Ah, scusa, non mi ero accorta che c’era un bambino piccolo!» disse arrossendo un po’.
Un bambino piccolo…
«Puoi giocare tu, adesso! Se avessi avuto un altro gettone potevamo fare un doppio!» esclamò scostandosi dallo schermo.
Senza dire una parola infilai le mie cinquecento lire nel cabinato, continuando a fissarla. Che diavolo era un doppio, tra l’altro?
La ragazzina rimase di fianco a me, mentre compariva la schermata di selezione del personaggio.
«Ti secca se ti guardo mentre giochi?» chiese.
Risposi che andava bene, così lei prese uno sgabello e mi si sedette accanto con aria divertita.
Io scelsi come al solito Daniel-San e a quel punto attesi che il computer pescasse il mio avversario.
Mi toccò Dhalsim. Pessimo, gli arti allungabili di quell’indiano anoressico mi mettevano sempre in crisi.
«Ahaha. Sei fortunato!» commentò la ragazza. «Dhalsim è debolissimo!»
Evitai di risponderle e mi concentrai sulla partita.
Il combattimento cominciò. Saltai verso il mio avversario e quello intercettò il mio attacco con un calcio (ovviamente allungabile) che mi fece volare via. Tentai in tutti i modi di avvicinarmi, ma il bastardo mi teneva a distanza con i suoi pugni, che mi colpivano anche se mi trovavo dall’altra parte dello schermo. Digrignai i denti per la rabbia e riuscii a mandare a segno un paio di colpi, ma Dhalsim parò il terzo attacco e mi mandò a terra con uno Yoga Flame.
Primo round perso.
La ragazza mi fissò perplessa e io la guardai di rimando.
«Che cosa c’è?» le chiesi innervosito.
«C’è che stai sbagliando tutto. Devi colpirlo da lontano.»
Non capii. Come facevo a colpirlo da lontano? Daniel-San mica ce le aveva le braccia che si allungavano.
Ricominciai a giocare.
Il secondo round non andò troppo diversamente dal primo.
Quando la mia barra di energia si trovava più o meno a metà, la ragazza perse la pazienza, mi tirò una spallata e si mise ai comandi.
«CHE COSA FAI? STO GIOCANDO IO!» urlai scandalizzato.
«Ti faccio la bolla!» disse lei. «Così lo batti e vai avanti.»
Io non capivo. La bolla? La bolla potevano farla solo i nemici! O almeno era ciò che credevo.
Tornai a guardare lo schermo e vidi il mio Daniel-San muoversi con un’agilità che, quando ero io a manovrarlo, non possedeva.
Si avvicinò a Dhalsim con rapidità e gli sferrò un calcio volante in faccia, dopodiché arretrò, raccolse le mani, le scagliò in avanti e fece scaturire da esse una specie di bolla fiammeggiante blu che centrò in pieno l’indiano, togliendogli una quantità impressionante di energia.
Spalancai la bocca.
Fissai la ragazza, che stava giocando con una maestria che non avevo mai visto prima.
«COME HAI FATTO?» domandai sconvolto.
«A fare cosa?» chiese mentre continuava a riempire Dhalsim di mazzate, mandandolo infine KO.
«Quella cosa blu! La mossa speciale! Io non pensavo che si potesse fare!»
«Ma… Ma certo che si può fare. Pensavi che la bolla potessero spararla solo i nemici? Basta sapere la combinazione di pulsanti giusta. Se vuoi ti insegno.»
Ripresi i comandi del gioco, mentre la ragazza si apprestava a darmi istruzioni.
«È semplice.» spiegò. «Devi muovere dal basso in avanti la levetta con cui controlli il personaggio, eseguendo una specie di mezza luna. Così, vedi? Poi devi premere il tasto del pugno. Chiaramente devi farlo velocemente. Provaci.»
Ok, avevo capito. Incredibile, non avrei mai pensato che una femmina potesse diventare il mio “maestro Miyagi” personale.
Iniziò il terzo round. Tentai di eseguire la combinazione della bolla tenendomi a distanza dal mio avversario. I primi tentativi andarono a vuoto e mi ritrovai a tirare pugni all’aria. Quando iniziai a pensare che la bambina mi stesse prendendo in giro, finalmente sentii Daniel-San esclamare una frase strana in giapponese e, dalle sue mani, vidi uscire una bolla azzurra che colpì Dhalsim.
Urlai di gioia e la ragazza mi diede una pacca sulle spalle.
Grazie a quella mossa riuscii a sconfiggere il mio avversario con estrema facilità: innanzitutto la utilizzavo per stordirlo, tenendomi a distanza di sicurezza, poi gli andavo addosso, colpendolo prima con un calcio alto e poi con un calcio basso. Il colpo finale fu un pugno potentissimo. Dhalsim urlò di dolore con la sua voce digitalizzata e cadde rovinosamente al suolo al rallentatore.
Sullo schermo comparve la scritta “YOU WIN” e Daniel-San alzò il pugno verso il cielo in segno di esultanza, mentre gli elefanti barrivano sullo sfondo.
Avevo vinto!
Guardai la ragazza estasiato e lei mi sorrise, compiaciuta dei miei progressi.
«Mi chiamo Giulia!» disse con aria sbarazzina.

Quell’estate incontrai Giulia al bar quasi tutti i giorni. Solitamente ci davamo appuntamento nel primo pomeriggio e rimanevamo a giocare per almeno mezz’ora prima di andare a fare un giro al parco o a mangiarci un gelato in riva al lago.
Giocavamo spesso l’uno contro l’altra (ecco cos’era il misterioso “doppio”) e ben presto i gettoni non furono più un problema, almeno quando ci cimentavamo contro il computer, che ormai stava diventando un avversario troppo prevedibile.
I doppi ci servivano da allenamento: giocare contro persone reali era molto più difficile e impegnativo e, scontro dopo scontro, si diventava sempre più forti.
In breve tempo, andando a tentativi, imparai anche le altre mosse di Daniel-San: Giulia mi spiegò che il “pugno con salto” si chiamava Shoryuken, mentre il calcio rotante aveva un nome impronunciabile (Tatsumakisenpukyaku, ancora oggi non sono sicuro di scriverlo bene).
Dopo un mese di partite giornaliere eravamo diventati entrambi talmente bravi da riuscire ad arrivare fino a Vega, il secondo boss, utilizzando un solo gettone.
La prima volta che finii Street Fighter II (da quando c’era Giulia avevo smesso di chiamarlo “il gioco del karate”) era una piovosa mattina di fine luglio. Quando Bison venne colpito sul mento dal mio Shoryuken urlai di gioia e Giulia mi abbracciò strillando, sollevandomi da terra in preda all’euforia.
«CE L’HAI FATTA, CE L’HAI FATTA!»
Uno dei pensionati al bar, sentendoci fare tutto quel baccano, si voltò verso di noi fissandoci con aria severa, farfugliando incomprensibili parole in dialetto.
Lo ignorammo e ci gustammo il finale del gioco, una breve sequenza in cui Daniel-San si incamminava verso il tramonto, alla ricerca di nuovi avversari e nuove battaglie

I primi giorni di agosto io e Giulia ci salutammo ed andammo entrambi in villeggiatura con i nostri rispettivi genitori. Lei andò in montagna dai suoi nonni, io al mare.
Rimanemmo d’accordo che ci saremmo incontrati al bar il primo lunedì del mese di settembre. Volevamo provare a finire Street Fighter II con un personaggio diverso da Daniel-San.
Fu così che, quel giorno di fine estate, ci ritrovammo davanti al locale ed entrammo impazienti.
Notammo però che c’era qualcosa di strano. Il proprietario non era più lo stesso. Al posto del simpatico signore sempre intento a leggere la gazzetta c’era ora un giovanotto allampanato, con i capelli biondi tagliati a spazzola e una camicia elegante.
«Buongiorno, ragazzi!» disse il nuovo barista. «Posso esservi utile?»
Giulia lo fissò confusa. «Dov’è il vecchio proprietario?» chiese.
Il giovanotto sorrise e spiegò che il suo predecessore era andato in pensione e ora la gestione del bar era passata a lui.
Senza badarci troppo ordinammo la solita coca cola e, dopo averla bevuta, ci dirigemmo di corsa sul retro.
Ci bloccammo entrambi di colpo quando, con orrore, scoprimmo che i due cabinati erano scomparsi!

Al posto di Street Fighter II e del coin-op rotto vi erano ora due orrendi videopoker. Attorno a quelle macchinette c’era un capannello di pensionati intenti a dilapidare i propri risparmi. Uno di loro era lo stesso che, poche settimane prima, ci aveva rimproverati per il baccano che stavamo facendo.
Mi voltai verso Giulia e per un attimo mi spaventai vedendo la sua faccia. Era infuriata.
Si voltò di scatto e corse al bancone, dal nuovo proprietario.
«Dove sono i giochi?!» chiese.
Il giovane la guardò senza capire, poi si rese conto di cosa intendesse e rispose. «Ah, eravate qui per quelli? Mi dispiace, ma li ho dovuti togliere. Uno era rotto e sull’altro non ci giocava mai nessuno. Inoltre molti dei clienti si lamentavano, li trovavano fastidiosi.»
«Fastidiosi?!» sbottò incredula.
Io rimasi zitto, senza commentare. Vidi che uno degli anziani al videopoker si voltò verso di noi.
«Quei ragazzini…» lo sentii berciare rivolgendosi a un altro pensionato. «Sono talmente presi da quei giochi elettronici da sembrare dei drogati. Che mondo!» disse prima di tornare a smanettare con il suo gioco d’azzardo.
Il proprietario intanto continuava a fissare Giulia, senza sapere come comportarsi. «Mi dispiace, siete minorenni. Non potete giocare ai videopoker.»
Giulia, stizzita, pestò il piede destro per terra ed esclamò: «Non vogliamo giocare a quella MERDA!».
Il barista sbiancò, rimanendo senza parole, e Giulia mi afferrò per il braccio trascinandomi fuori dal bar. Ormai non avevamo più motivo per restare in quel posto.
Andammo al parco e ci sedemmo su una panchina. Non avremmo più giocato a Street Fighter II.
Nel nostro quartiere non c’erano sale giochi e né io né lei potevamo permetterci di comprare una console.
In un certo senso sapevamo entrambi che sarebbe finita così. Prima o poi anche il vecchio proprietario, se fosse rimasto, avrebbe deciso di liberarsi di quei vecchi cabinati per installare i più remunerativi videopoker.
Ripensai alle parole pronunciate dal pensionato: “Quei ragazzini… Sono talmente presi da quei giochi elettronici da sembrare dei drogati. Che mondo!”.
All’epoca ero troppo piccolo per capire la reale idiozia di quella frase, ma sapevo già che quella considerazione era totalmente sbagliata, frutto di stupidi luoghi comuni e di ignoranza. Io e Giulia non eravamo dei drogati.
Anzi, senza Street Fighter II non saremmo mai diventati amici, del resto per quale motivo una bambina di dieci anni avrebbe dovuto socializzare con un bambino di sei? Quel gioco invece ci aveva avvicinati, ci aveva fatto scoprire che avevamo cose in comune e ci aveva messo di fronte a delle sfide che avevamo superato aiutandoci e spronandoci a vicenda.
Di sicuro non ci aveva rincoglioniti.

Quando il pomeriggio volgeva ormai verso sera, ci incamminammo verso casa.
Passammo nuovamente davanti al bar.
Proprio mentre stavamo per lasciarcelo alle spalle, vedemmo che la porta d’ingresso si stava aprendo.
Con nostro immenso stupore, il vecchio proprietario uscì dal locale.
«Ehy, bambini!» esclamò vedendoci. «Che caso, ero giusto venuto a cercare voi!»
Aveva la solita faccia grassa e arrossata dal caldo, così come l’immancabile Marlboro all’angolo della bocca, ma quel giorno, al posto della gazzetta, teneva tra le mani quello che sembrava essere un grosso pacco regalo.
«Me ne sono andato senza dirvi niente e mi dispiace. Voi magari non sarete tra i miei clienti migliori, è vero, ma di sicuro siete i più simpatici. Ogni giorno portavate un po’ di allegria in questo covo di vecchiacci burberi. Quindi, insomma, visto che non ci vedremo più ho pensato di farvi un presente.»
Appoggiò il pacco per terra e si mise a braccia conserte con aria soddisfatta. «Apritelo!» disse.
Io e Giulia ci avventammo sul regalo, strappando in fretta e furia la carta colorata che lo avvolgeva. Quando ci rendemmo conto di quel che conteneva la scatola rimanemmo entrambi scioccati per la felicità.
«Vi piace? Il gioco è quello, no?» domandò l’ex proprietario del bar.
Giulia alzò gli occhi lucidi verso di lui e lo abbracciò ringraziandolo, scoppiando a piangere dalla gioia.
Io fissai il regalo e balbettai «È… è un Super Nintendo! Con Street Fighter II!»
Proprio così.
Il vecchio proprietario si era affezionato a noi a tal punto da regalarci il gioco che, ogni giorno di quella calda estate, ci aveva condotti nel suo bar. Non poteva permettersi due console, ma una sì. E sapeva che io e Giulia non avremmo mai litigato fra di noi per giocarci.
Lo ringraziammo commossi e corremmo a casa mia per collegare il regalo al televisore e giocare a Street Fighter fino alla mattina successiva, senza paura di spendere gettoni e senza quegli odiosi vecchi che dicevano stupidaggini.
Nei giorni seguenti finimmo il gioco con tutti i personaggi, imparammo tutte le mosse e poi io e Giulia iniziammo a mettere da parte i soldi per comprare altri titoli. Continuammo così per anni, fino a quando non passammo prima alla PlayStation e poi alla PlayStation 2.

Oggi io e Giulia siamo sposati.
Collegato al nostro televisore, in ogni caso, c’è sempre quel vecchio Super Nintendo che non abbiamo mai avuto il coraggio di vendere. Con una cartuccia di Street Fighter II inserita, ovvio.
Abbiamo anche una bambina di pochi mesi.
Credo che un giorno le insegneremo a fare la bolla!