lunedì 30 gennaio 2017

Split

Fa piacere constatare che, dopo un periodo buio contrassegnato da "capolavori" come After Earth, M. Night Shyamalan sia finalmente tornato a realizzare film belli.
Probabilmente il trucco per uscire dalla fase di stallo è stato dedicarsi a produzioni minori, con un budget basso, che garantissero maggiore libertà creativa e meno costrizioni sia in fase di scrittura che di regia.
Perché Shyamalan, al netto di alcuni passi falsi, è sempre stato capace di intrattenerci con film interessanti, carichi d'atmosfera e dagli sviluppi sorprendenti.

In Split vediamo James McAvoy nel ruolo di Kevin Wendell Crumb, un uomo con un disturbo dissociativo che lo porta a possedere ben ventitré personalità diverse. "Dennis", una di queste identità, prende il sopravvento sulle altre e rapisce tre ragazze adolescenti, narcotizzandole nel parcheggio di un centro commerciale.
Da questo rapimento si avvia un thriller piacevolissimo che, sulla scia inaugurata dal discreto The Visit, ci conferma che Shyamalan è tornato in piena forma ed è ancora bravo a raccontare storie ansiogene e con un bel ritmo, toccando anche temi non proprio semplici come i disturbi psichici e l'abuso.

McAvoy riesce ad essere un antagonista convincente, camaleontico nei suoi continui cambi d'identità. Magari ecco, non sono d'accordissimo nel definire la sua recitazione così stupefacente come in molti stanno facendo, dato che in fondo, ad eccezione di Dennis, tutte le personalità di Kevin sono perlopiù macchiette poco approfondite, facili da rendere alternando smorfie e vocette (ma su quest'ultima cosa vado per ipotesi e non ci metto la mano sul fuoco; ho visto il film doppiato). Ad ogni modo è evidente che Split funzioni così bene grazie alla performance dell'attore, quindi giù il cappello.
Bravina anche la protagonista Anya Taylor-Joy, già vista nell'ottimo The Witch di Robert Eggers.

Impossibile poi non esaltarsi per il gustosissimo colpo di scena finale, che per una volta non capovolge il punto di vista sull'intera vicenda, ma fa una cosa che i fan di Shyamalan troveranno altrettanto galvanizzante.

venerdì 27 gennaio 2017

La La Land

Che Damien Chazelle fosse un regista superlativo lo avevamo già capito con Whiplash, un film granitico nel mettere in scena il brutale rapporto tra un giovane batterista e il suo insegnante.
Era inevitabile, dunque, essere ansiosissimi di vedere questo La La Land, una storia d'amore nella Los Angeles di oggi che comincia con, ehm, un ballo nel bel mezzo di un ingorgo autostradale.
Un incipit disorientante, se vogliamo, che c'entra poco con l'austerità del precedente film di Chazelle, ma che comunque, con quel piano sequenza tra le auto sulle note di Another Day of Sun, aiuta a mettere da subito le cose in chiaro: possiamo sederci comodi sulle poltrone e gustarci un paio d'ore di regia sublime, da cui usciremo destabilizzati anche se, magari, i musical non sono troppo nelle nostre corde.

La La Land è infatti un film in cui sovente i personaggi partono a cantare una canzone (tipo la bellissima City of Stars) o improvvisano un balletto alla luce del crepuscolo, ma attenzione, è anche un film con una narrazione che procede spedita e acchiappante grazie a dialoghi scritti da Dio, che ribadiscono il clamoroso talento di Chazelle nelle vesti di sceneggiatore, oltre che di regista.
La storia di Mia, ragazza che sogna di diventare attrice, e Sebastian, pianista che vorrebbe aprire un locale di musica Jazz, prende il via per uno scherzo del caso e si dipana con una delicatezza impressionante.
Emma Stone e Ryan Gosling, tanto belli quanto bravi, sono monumentali nel mostrare i sogni e le aspirazioni dei due giovani e il modo in cui queste finiscono per influenzare le loro vite, portandole in direzioni imprevedibili. La Stone, in particolare, tira fuori quella che probabilmente è la miglior prova recitativa della sua carriera, consacrandosi definitivamente come una delle migliori attrici della sua generazione (anche se da queste parti siamo suoi fan incalliti da anni).
Pure Gosling, comunque, fa la sua parte, riuscendo ad essere sempre ineccepibile sia nei momenti comici che in quelli più drammatici. E a proposito di dramma: tra Mia e Sebastian ci sono un paio di confronti verbali che, a riprova della mostruosa alchimia tra i due attori che li interpretano, potrebbero quasi valere da soli tutto il film. Almeno se il film non fosse anche molto altro.

In La La Land è tutto semplicemente perfetto. Dalla colonna sonora sempre azzeccata alle continue trovate visive, passando per un J.K. Simmons che buca lo schermo rimanendo in scena per due minuti e dicendo appena tre frasi.
Questo nuovo lavoro di Chazelle è un omaggio al grande cinema hollywoodiano. Formalmente eccezionale, ma anche dotato di un'anima tutta sua che, attraverso gli occhi dei due protagonisti, parla del rapporto tra amore e ambizione con una disillusione spiazzante.
Un film da guardare (e da ascoltare) cercando di reprimere la tentazione di mettersi ad applaudire ogni dieci secondi.

martedì 24 gennaio 2017

Your Name.

Forte di un successo commerciale a dir poco clamoroso e di un plauso unanime da parte della critica, Your Name dimostra che sarebbe un grave errore credere che l'animazione giapponese significhi solo Studio Ghibli.
Il film di Makoto Shinkai narra la storia di due adolescenti che conducono vite estremamente diverse. Taki è un ragazzo di Tokyo che frequenta il liceo e lavora come cameriere. Mitsuha è invece una ragazza di campagna che abita in un villaggio sulla riva di un lago; orfana di madre e con un padre severo, le sue giornate sono scandite dalle tradizioni folcloristiche che la nonna cerca di trasmetterle.
Taki e Mitsuha non si conoscono ma, durante il passaggio di una cometa accanto alla Terra, tra loro scatta un bizzarro legame: come in un sogno, i due si ritrovano con i corpi scambiati, catapultati in una vita di cui non sanno nulla. Dapprima spaesati, capiscono presto di doversi abituare a questa situazione che si presenta a giorni alterni. Si lasciano messaggi e istruzioni su come comportarsi, cercano di aiutarsi nei loro problemi personali e, mano a mano che il tempo passa, iniziano a provare qualcosa l'uno per l'altra.

Immaginate l'ironia di Ranma ½ che incontra la poetica di Murakami in un anime visivamente fuori scala. Avrete un'idea di cosa aspettarvi dalla visione di Your Name.
Makoto Shinkai ha realizzato un film bellissimo, che si merita tutti gli applausi ricevuti nel corso di questi ultimi mesi; una storia d'amore toccante, che si dispiega con una freschezza che non può fare a meno di lasciarti stampato in faccia un sorriso ebete.
Your Name parte come una commedia romantica, con il trasferimento di personalità che causa continui equivoci e situazioni sceme, fornendo l'attacco a montaggi serrati in cui le vite dei protagonisti si mescolano vorticosamente al ritmo di musica J-rock (strepitosa la colonna sonora dei Radwimps).
Taki e Mitsuha giungono a conoscersi intimamente senza mai incontrarsi in modo diretto, mentre una strana forma di affetto reciproco fa scivolare via l'imbarazzo e la diffidenza.

Non è così semplice, però.
Proprio quando si ha la sensazione di aver capito dove il film voglia andare a parare, ecco arrivare il colpo di scena che mescola le carte in tavola e rende un epilogo positivo meno scontato.
Your Name non diventa improvvisamente una tragedia cupa, perdendo in toto quell'adorabile tono scanzonato della parte iniziale, ma è innegabile che, una volta svelato il plot-twist legato allo scambio di corpo tra i due adolescenti, la vicenda assuma connotati più drammatici.
Allo stesso tempo, tuttavia, il film di Shinkai guadagna "punti torreggianza" in profondità e in trasporto emotivo, sia per quanto riguarda il rapporto tra Mitsuha e Taki, innamorati apparentemente destinati ad una separazione struggente, sia per quanto concerne la complessità delle trovate narrative, che diventano sempre più surreali.

Your Name va ad aggiungersi alla lunga lista dei capolavori dell'animazione giapponese.
Un film tecnicamente sbalorditivo che, stando in equilibrio tra spensieratezza e malinconia, si porta dietro un messaggio toccante.
Uno spettacolo, sia per gli occhi che per il cuore.

lunedì 23 gennaio 2017

Arrival

Ted Chiang è uno scrittore di fantascienza straordinario.
Ammetto di averlo scoperto solo di recente, leggendo la sua antologia Storie della tua vita e adorando ciascuno dei racconti che la compongono, rimanendo impressionato dalla capacità dell'autore di rielaborare miti biblici e di costruire storie geniali pasticciando con linguaggio, matematica e rapporti umani.

Chiang interpreta in chiave science fantasy la torre di Babele e la cosmologia geocentrica, immagina mondi in cui le apparizioni angeliche sono all'ordine del giorno e ipotizza quali sarebbero le reazioni della società se, ricorrendo ad un intervento medico, esistesse la possibilità di diventare insensibili alla bellezza di un viso.
Nel racconto che dà il nome al libro (Storia della tua vita, appunto), l'umanità entra in contatto con una misteriosa specie extraterrestre con cui deve cercare di instaurare un dialogo. Spetta alla linguista Louise Banks il difficile compito di comprendere e tradurre la lingua aliena. La mente della donna verrà influenzata a tal punto dal modo di comunicare e di pensare dei visitatori, che la sua percezione della realtà (e del tempo) cambierà radicalmente.

Arrival di Denis Villeneuve è l'adattamento cinematografico di quest'ultimo racconto.
Da parte mia c'erano aspettative piuttosto alte, sia a causa della qualità dell'opera d'origine, sia per via del curriculum dello stesso Villeneuve, regista canadese che ha messo la firma su due recenti film che ho adorato (Sicario e Prisoners) e che attualmente è al lavoro su Blade Runner 2049; alla luce di ciò, ero quindi piuttosto curioso di vederlo alle prese con il genere fantascientifico.

Fortunatamente Arrival non mi ha deluso, rivelandosi anzi uno dei migliori film di fantascienza degli ultimi anni.
Una trasposizione magistrale che, grazie anche ad una sceneggiatura assolutamente rispettosa del materiale di partenza, traghetta sul grande schermo il racconto di Ted Chiang, apportando i giusti cambiamenti e lasciando intatto quel che su carta veniva veicolato dalla penna dell'autore.

Villeneuve conferma il suo talento, sfoggiando capacità registiche fuori dal comune e dimostrando un gusto sopraffino per inquadrature, costruzione delle scene e cura dell'immagine. Un plauso se lo merita anche la fotografia che, combinata con il design delle astronavi e l'aspetto vagamente alla Lovecraft delle creature aliene, contribuisce non poco alla quasi ipnotica maestosità visiva del film.
Arrival, a tratti, può sembrare un po' nolaniano per come si mostra, ma, nella sostanza, finisce per essere molto diverso da un Interstellar, pur condividendone diversi temi.
Il film di Villeneuve è molto meno arzigogolato e propone una storia che, per quanto intelligente, arriva al punto senza contorsionismi logici, riuscendo ad essere trascinante sin dalle prime battute.

Spalleggiata da Jeremy Renner e Forest Whitaker (che come al solito fanno il loro), la dottoressa Louise Banks è interpretata da una fantastica Amy Adams; grazie alle sue doti recitative, l'attrice riesce a conferire al personaggio un'umanità impressionante, che diventa sempre più intensa via via che la comprensione del linguaggio alieno muta la sua prospettiva sull'esistenza.

Dopo svariate eccellenti pellicole drammatiche, insomma, Villeneuve torna con un film impeccabile: Arrival, come solo la miglior fantascienza riesce a fare, ci affascina mostrandoci l'ignoto e ci commuove facendoci riflettere su chi siamo. 

venerdì 13 gennaio 2017

I Signori dei Sith

Otto anni dopo la conclusione delle Guerre dei Cloni, il Signore Oscuro dei Sith domina la galassia.
I Jedi sono stati sterminati e ormai nulla sembra in grado di minacciare la potenza dell'Impero.
Su alcuni pianeti, però, iniziano a nascere le prime sacche di resistenza. Tra queste vi è il movimento per la liberazione di Ryloth guidato dal rivoluzionario twi'lek Cham Syndulla. L'Imperatore, irritato dai continui attentati e dall'intraprendenza di questa banda di ribelli, decide di recarsi personalmente su Ryloth insieme al suo apprendista Darth Vader, con lo scopo di dare una dimostrazione di forza e di schiacciare Syndulla una volta per tutte.
Cham, tuttavia, con l'aiuto di una ex schiava twi'lek di nome Isval e dell'imperiale doppiogiochista Belkor Dray, pianifica un audace attacco allo Star Destroyer su cui Palpatine e Vader stanno viaggiando, nella speranza di ucciderli e di restituire la libertà al suo pianeta natale.

Già questo preambolo, probabilmente, lascia intuire come la storia raccontata ne I Signori dei Sith, romanzo del nuovo canone di Star Wars scritto da Paul S. Kemp e pubblicato in Italia da Multiplayer Edizioni, sia frenetica, piena d'azione e con pochissimi momenti di calma. La cosa ottima è che, nonostante l'acceleratore pigiato a tavoletta, la vicenda narrata non manca di una certa profondità.

Il cuore del romanzo, come il titolo stesso evidenzia, sta nel rapporto tra Darth Vader e il suo maestro.
In seguito all'attacco che li vede come bersagli, i due si ritrovano in una situazione critica in cui, per affrontare i ribelli e l'ambiente ostile di Ryloth, devono collaborare combattendo fianco a fianco. E si sa, le relazioni tra Sith sono contraddistinte da fiducia reciproca ma anche da rivalità. Le pagine incentrate su Palpatine e Vader restituiscono egregiamente questa "tensione" attraverso una caratterizzazione sublime dei due personaggi.
L'Imperatore si riconferma lo stesso manipolatore che abbiamo imparato ad amare (o meglio, ad odiare) grazie alle interpretazioni di Ian McDiarmid: un despota potentissimo nel Lato Oscuro della Forza, certamente temibile quando brandisce una spada laser, ma ancora più viscido, subdolo e pericoloso quando si affida alla dialettica.
Darth Vader si dimostra un personaggio altrettanto interessante, determinato a superare le prove a cui il suo mentore lo sottopone e, allo stesso tempo, perseguitato da un passato che riaffiora di continuo, alimentando la sua sofferenza e la sua rabbia.

Il libro di Kemp, comunque, non si limita ad approfondire i due storici antagonisti della saga cinematografica, fa pure qualcosa in più. E lo fa molto bene.
In modo analogo a Rogue One, dipinge una ribellione verosimile, che appare sporca e violenta pur nel contesto di una divisione netta tra buoni e malvagi.
Cham Syndulla, personaggio già apparso in The Clone Wars e in Star Wars Rebels, è un leader che combatte da tutta la vita per l'autonomia di Ryloth, dapprima opponendosi alla Repubblica, poi lottando contro i Separatisti e infine resistendo all'occupazione messa in atto dall'Impero. Crede in un'idea, ma non è un fanatico: sa che la guerra richiede un prezzo da pagare in termini di vite e teme di superare la linea che separa la lotta per la libertà dal terrorismo.
La sua compagna Isval è invece un personaggio dalle tinte estremamente fosche: si tratta di una schiava liberata che prova un odio viscerale per gli imperiali. È una donna segnata da un passato di violenze, decisa a farla pagare cara ai suoi ex aguzzini anche a costo di rimetterci la vita; alcune delle parti del libro che la vedono protagonista riescono ad essere veramente crude e forti.

Kemp fa un ottimo lavoro anche per quanto riguarda gli ufficiali imperiali. Sia Belkor Dray che Moff Mors sono personaggi piuttosto riusciti. Il primo è un colonnello corrotto che, nella sua smania di ottenere una posizione di potere e di prestigio, arriva a fare il doppio gioco passando informazioni ai ribelli di Syndulla, andando a finire in una situazione destinata a sfuggirgli di mano.
Mors è invece un'imperiale decisamente anomala. Pigra e viziosa, preferisce passare le sue giornate negli agi a spaccarsi di droghe, piuttosto che farsi carico delle proprie responsabilità. Il bello, però, è che Mors non rimane per tutto il libro un personaggio senza sviluppi che si crogiola nel lusso sfrenato e nel nichilismo; le conseguenze del suo atteggiamento indolente la portano anzi verso una sorta di percorso di maturazione che per un villain è quantomeno inconsueto.

Le diverse storyline si alternano garantendo continui cambi di prospettiva sugli eventi che si susseguono, lasciando il giusto spazio alla descrizione del mondo alieno di Ryloth e convergendo in un capitolo conclusivo emotivamente devastante, per quanto prevedibile.

I Signori dei Sith è una lettura che consiglio, interessante sia per chi cerca un buon approfondimento sul rapporto tra Vader e Palpatine, sia per chi ha visto Rogue One e vuole leggere un'avventura ambientata nell'universo di Star Wars che abbia più o meno gli stessi toni.
È un romanzo che, pur non aggiungendo nulla di veramente imperdibile alla saga, risulta avvincente nel raccontare una storia scorrevole e con protagonisti ben tratteggiati.