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lunedì 13 febbraio 2017

I magnifici 7

Denzel Washington nuovamente protagonista in un film di Antoine Fuqua. Solo che stavolta è accompagnato da sei amichetti. 
Dopo The Equalizer e Southpaw, il regista di Training Day si assume il compito non semplicissimo di portare al cinema il remake del leggendario I magnifici sette di John Sturges, western del 1960 che a sua volta si basava su I sette samurai di Akira Kurosawa.

Il villaggio di Rose Creek viene occupato dagli uomini di Bartholomew Bogue, un magnate che intende sfruttarne la vicina miniera d'oro. I banditi incendiano la chiesa dell'avamposto e uccidono diversi abitanti. Una donna, in seguito all'assassinio del marito avvenuto davanti ai suoi occhi, decide di andare in cerca di vendetta e chiede aiuto al cacciatore di taglie Sam Chisolm; questi, accettato l'incarico offertogli dalla vedova, recluta altri sei mercenari con l'obiettivo di liberare Rose Creek e uccidere Bogue.

I magnifici 7 è un western molto classico, che magari ci mette un po' ad ingranare; ma che poi, non appena le cose arrivano al dunque, diventa un signor film d'azione.
Il cast è di livello altissimo. Sia i nomi noti (Chris Pratt, Vincent D'Onofrio, Ethan Hawke) che quelli meno noti (Lee Byung-hun, Manuel Garcia-Rulfo, Martin Sensmeier) funzionano alla grande e, guidati dal carismatico Washington, vanno a formare una squadra di improbabili eroi a cui ci si affeziona tra battutacce da cowboy, duelli e sparatorie.
Molto azzeccata anche la scelta del cattivo di turno, un Peter Sarsgaard che ha decisamente la faccia giusta per interpretare un antagonista come Bogue.

Fuqua dirige un western corale apprezzabile senza riserve da chiunque adori le atmosfere alla Tex Willer. Un film solido che, senza particolari pretese, riesce ad intrattenere con tanta azione, splendidi paesaggi di frontiera e un bell'affiatamento tra i suoi protagonisti.
E poi si sa, di western non ce ne sono mai abbastanza.

venerdì 3 febbraio 2017

La battaglia di Hacksaw Ridge

A dieci anni da Apocalypto, Mel Gibson torna dietro la macchina da presa e sforna un film bellico memorabile, portando la Seconda Guerra Mondiale sul grande schermo con una potenza che non si vedeva dai tempi di Salvate il soldato Ryan.
La battaglia di Hacksaw Ridge racconta la vera storia di Desmond Doss, un soldato statunitense che si arruolò nell'esercito come volontario, rifiutandosi di imbracciare qualsiasi genere di arma per non tradire la propria fede religiosa.
Inizialmente osteggiato da superiori e compagni, Desmond finì davanti alla corte marziale, che gli concesse di partire per il fronte come obiettore di coscienza e soccorritore militare. Il giovane prese parte alla battaglia di Okinawa, in cui salvò la vita a settantacinque commilitoni feriti, diventando un eroe di guerra e guadagnandosi una medaglia.

Hacksaw Ridge non ci prova nemmeno ad evitare la retorica, rischiando di risultare irritante per via del suo continuo tirare in ballo il trittico fede, patria e onore. Questo, tuttavia, non gli impedisce di essere un film di guerra assolutamente incredibile, che mostra l'atrocità di una battaglia senza porsi alcun paletto, trasmettendo al contempo un bel messaggio di pacifismo.

Tutto il primo tempo del film è una lunga introduzione che serve a tratteggiare la figura di Desmond Doss e a spiegare quali furono le motivazioni che determinarono la sua scelta di non violenza. Andrew Garfield interpreta questo atipico soldato con la solita bravura su cui è ormai superfluo spendere parole, ma anche il resto del cast ricopre un ruolo importantissimo, dato che il rapporto tra Doss e i suoi famigliari/commilitoni/superiori è un po' il cardine attorno a cui si muove tutta la vicenda.
Hugo Weaving, il padre rimasto traumatizzato dalla Grande Guerra, è assolutamente convincente, mentre Teresa Palmer, la moglie Dorothy, è talmente adorabile che vorrei sposarla anch'io. Ma la mia nota di apprezzamento personale va soprattutto al sergente istruttore interpretato da Vince Vaughn, che dopo una vita di commedie è ormai lanciatissimo nei ruoli drammatici.

Se la prima parte del film è necessariamente piuttosto lenta e povera d'azione, il secondo tempo è qualcosa di dirompente. Nel momento in cui ci si sposta nel teatro bellico del Pacifico, Hacksaw Ridge inizia a fare sul serio. Mel Gibson mette in scena un inferno di morte, caos e corpi dilaniati, scioccando con una rappresentazione della guerra violenta, brutale e a tratti stomachevole nel suo crudissimo realismo. Non si tratta, però, di una violenza pornografica fine a se stessa come quella di The Passion of the Christ, ma di qualcosa che, nel contesto del film, era necessario mostrare. Tutta questa brutalità esibita in modo così calcato contribuisce a far sembrare ancora più incredibile la storia di questo ragazzo che ha partecipato ad una delle battaglie più cruente del ventesimo secolo senza toccare un'arma.

Il ritorno di Mel Gibson non poteva essere più convincente di così. Hacksaw Ridge è un film di un'intensità inaudita che, nel bene e nel male, porta impressa la firma del suo regista. Un regista retorico e ampolloso, è vero, ma che comunque, quando si mette in testa di raccontare una storia, la racconta in un modo che molti suoi colleghi si sognano.

lunedì 30 gennaio 2017

Split

Fa piacere constatare che, dopo un periodo buio contrassegnato da "capolavori" come After Earth, M. Night Shyamalan sia finalmente tornato a realizzare film belli.
Probabilmente il trucco per uscire dalla fase di stallo è stato dedicarsi a produzioni minori, con un budget basso, che garantissero maggiore libertà creativa e meno costrizioni sia in fase di scrittura che di regia.
Perché Shyamalan, al netto di alcuni passi falsi, è sempre stato capace di intrattenerci con film interessanti, carichi d'atmosfera e dagli sviluppi sorprendenti.

In Split vediamo James McAvoy nel ruolo di Kevin Wendell Crumb, un uomo con un disturbo dissociativo che lo porta a possedere ben ventitré personalità diverse. "Dennis", una di queste identità, prende il sopravvento sulle altre e rapisce tre ragazze adolescenti, narcotizzandole nel parcheggio di un centro commerciale.
Da questo rapimento si avvia un thriller piacevolissimo che, sulla scia inaugurata dal discreto The Visit, ci conferma che Shyamalan è tornato in piena forma ed è ancora bravo a raccontare storie ansiogene e con un bel ritmo, toccando anche temi non proprio semplici come i disturbi psichici e l'abuso.

McAvoy riesce ad essere un antagonista convincente, camaleontico nei suoi continui cambi d'identità. Magari ecco, non sono d'accordissimo nel definire la sua recitazione così stupefacente come in molti stanno facendo, dato che in fondo, ad eccezione di Dennis, tutte le personalità di Kevin sono perlopiù macchiette poco approfondite, facili da rendere alternando smorfie e vocette (ma su quest'ultima cosa vado per ipotesi e non ci metto la mano sul fuoco; ho visto il film doppiato). Ad ogni modo è evidente che Split funzioni così bene grazie alla performance dell'attore, quindi giù il cappello.
Bravina anche la protagonista Anya Taylor-Joy, già vista nell'ottimo The Witch di Robert Eggers.

Impossibile poi non esaltarsi per il gustosissimo colpo di scena finale, che per una volta non capovolge il punto di vista sull'intera vicenda, ma fa una cosa che i fan di Shyamalan troveranno altrettanto galvanizzante.

venerdì 27 gennaio 2017

La La Land

Che Damien Chazelle fosse un regista superlativo lo avevamo già capito con Whiplash, un film granitico nel mettere in scena il brutale rapporto tra un giovane batterista e il suo insegnante.
Era inevitabile, dunque, essere ansiosissimi di vedere questo La La Land, una storia d'amore nella Los Angeles di oggi che comincia con, ehm, un ballo nel bel mezzo di un ingorgo autostradale.
Un incipit disorientante, se vogliamo, che c'entra poco con l'austerità del precedente film di Chazelle, ma che comunque, con quel piano sequenza tra le auto sulle note di Another Day of Sun, aiuta a mettere da subito le cose in chiaro: possiamo sederci comodi sulle poltrone e gustarci un paio d'ore di regia sublime, da cui usciremo destabilizzati anche se, magari, i musical non sono troppo nelle nostre corde.

La La Land è infatti un film in cui sovente i personaggi partono a cantare una canzone (tipo la bellissima City of Stars) o improvvisano un balletto alla luce del crepuscolo, ma attenzione, è anche un film con una narrazione che procede spedita e acchiappante grazie a dialoghi scritti da Dio, che ribadiscono il clamoroso talento di Chazelle nelle vesti di sceneggiatore, oltre che di regista.
La storia di Mia, ragazza che sogna di diventare attrice, e Sebastian, pianista che vorrebbe aprire un locale di musica Jazz, prende il via per uno scherzo del caso e si dipana con una delicatezza impressionante.
Emma Stone e Ryan Gosling, tanto belli quanto bravi, sono monumentali nel mostrare i sogni e le aspirazioni dei due giovani e il modo in cui queste finiscono per influenzare le loro vite, portandole in direzioni imprevedibili. La Stone, in particolare, tira fuori quella che probabilmente è la miglior prova recitativa della sua carriera, consacrandosi definitivamente come una delle migliori attrici della sua generazione (anche se da queste parti siamo suoi fan incalliti da anni).
Pure Gosling, comunque, fa la sua parte, riuscendo ad essere sempre ineccepibile sia nei momenti comici che in quelli più drammatici. E a proposito di dramma: tra Mia e Sebastian ci sono un paio di confronti verbali che, a riprova della mostruosa alchimia tra i due attori che li interpretano, potrebbero quasi valere da soli tutto il film. Almeno se il film non fosse anche molto altro.

In La La Land è tutto semplicemente perfetto. Dalla colonna sonora sempre azzeccata alle continue trovate visive, passando per un J.K. Simmons che buca lo schermo rimanendo in scena per due minuti e dicendo appena tre frasi.
Questo nuovo lavoro di Chazelle è un omaggio al grande cinema hollywoodiano. Formalmente eccezionale, ma anche dotato di un'anima tutta sua che, attraverso gli occhi dei due protagonisti, parla del rapporto tra amore e ambizione con una disillusione spiazzante.
Un film da guardare (e da ascoltare) cercando di reprimere la tentazione di mettersi ad applaudire ogni dieci secondi.

martedì 24 gennaio 2017

Your Name.

Forte di un successo commerciale a dir poco clamoroso e di un plauso unanime da parte della critica, Your Name dimostra che sarebbe un grave errore credere che l'animazione giapponese significhi solo Studio Ghibli.
Il film di Makoto Shinkai narra la storia di due adolescenti che conducono vite estremamente diverse. Taki è un ragazzo di Tokyo che frequenta il liceo e lavora come cameriere. Mitsuha è invece una ragazza di campagna che abita in un villaggio sulla riva di un lago; orfana di madre e con un padre severo, le sue giornate sono scandite dalle tradizioni folcloristiche che la nonna cerca di trasmetterle.
Taki e Mitsuha non si conoscono ma, durante il passaggio di una cometa accanto alla Terra, tra loro scatta un bizzarro legame: come in un sogno, i due si ritrovano con i corpi scambiati, catapultati in una vita di cui non sanno nulla. Dapprima spaesati, capiscono presto di doversi abituare a questa situazione che si presenta a giorni alterni. Si lasciano messaggi e istruzioni su come comportarsi, cercano di aiutarsi nei loro problemi personali e, mano a mano che il tempo passa, iniziano a provare qualcosa l'uno per l'altra.

Immaginate l'ironia di Ranma ½ che incontra la poetica di Murakami in un anime visivamente fuori scala. Avrete un'idea di cosa aspettarvi dalla visione di Your Name.
Makoto Shinkai ha realizzato un film bellissimo, che si merita tutti gli applausi ricevuti nel corso di questi ultimi mesi; una storia d'amore toccante, che si dispiega con una freschezza che non può fare a meno di lasciarti stampato in faccia un sorriso ebete.
Your Name parte come una commedia romantica, con il trasferimento di personalità che causa continui equivoci e situazioni sceme, fornendo l'attacco a montaggi serrati in cui le vite dei protagonisti si mescolano vorticosamente al ritmo di musica J-rock (strepitosa la colonna sonora dei Radwimps).
Taki e Mitsuha giungono a conoscersi intimamente senza mai incontrarsi in modo diretto, mentre una strana forma di affetto reciproco fa scivolare via l'imbarazzo e la diffidenza.

Non è così semplice, però.
Proprio quando si ha la sensazione di aver capito dove il film voglia andare a parare, ecco arrivare il colpo di scena che mescola le carte in tavola e rende un epilogo positivo meno scontato.
Your Name non diventa improvvisamente una tragedia cupa, perdendo in toto quell'adorabile tono scanzonato della parte iniziale, ma è innegabile che, una volta svelato il plot-twist legato allo scambio di corpo tra i due adolescenti, la vicenda assuma connotati più drammatici.
Allo stesso tempo, tuttavia, il film di Shinkai guadagna "punti torreggianza" in profondità e in trasporto emotivo, sia per quanto riguarda il rapporto tra Mitsuha e Taki, innamorati apparentemente destinati ad una separazione struggente, sia per quanto concerne la complessità delle trovate narrative, che diventano sempre più surreali.

Your Name va ad aggiungersi alla lunga lista dei capolavori dell'animazione giapponese.
Un film tecnicamente sbalorditivo che, stando in equilibrio tra spensieratezza e malinconia, si porta dietro un messaggio toccante.
Uno spettacolo, sia per gli occhi che per il cuore.

lunedì 23 gennaio 2017

Arrival

Ted Chiang è uno scrittore di fantascienza straordinario.
Ammetto di averlo scoperto solo di recente, leggendo la sua antologia Storie della tua vita e adorando ciascuno dei racconti che la compongono, rimanendo impressionato dalla capacità dell'autore di rielaborare miti biblici e di costruire storie geniali pasticciando con linguaggio, matematica e rapporti umani.

Chiang interpreta in chiave science fantasy la torre di Babele e la cosmologia geocentrica, immagina mondi in cui le apparizioni angeliche sono all'ordine del giorno e ipotizza quali sarebbero le reazioni della società se, ricorrendo ad un intervento medico, esistesse la possibilità di diventare insensibili alla bellezza di un viso.
Nel racconto che dà il nome al libro (Storia della tua vita, appunto), l'umanità entra in contatto con una misteriosa specie extraterrestre con cui deve cercare di instaurare un dialogo. Spetta alla linguista Louise Banks il difficile compito di comprendere e tradurre la lingua aliena. La mente della donna verrà influenzata a tal punto dal modo di comunicare e di pensare dei visitatori, che la sua percezione della realtà (e del tempo) cambierà radicalmente.

Arrival di Denis Villeneuve è l'adattamento cinematografico di quest'ultimo racconto.
Da parte mia c'erano aspettative piuttosto alte, sia a causa della qualità dell'opera d'origine, sia per via del curriculum dello stesso Villeneuve, regista canadese che ha messo la firma su due recenti film che ho adorato (Sicario e Prisoners) e che attualmente è al lavoro su Blade Runner 2049; alla luce di ciò, ero quindi piuttosto curioso di vederlo alle prese con il genere fantascientifico.

Fortunatamente Arrival non mi ha deluso, rivelandosi anzi uno dei migliori film di fantascienza degli ultimi anni.
Una trasposizione magistrale che, grazie anche ad una sceneggiatura assolutamente rispettosa del materiale di partenza, traghetta sul grande schermo il racconto di Ted Chiang, apportando i giusti cambiamenti e lasciando intatto quel che su carta veniva veicolato dalla penna dell'autore.

Villeneuve conferma il suo talento, sfoggiando capacità registiche fuori dal comune e dimostrando un gusto sopraffino per inquadrature, costruzione delle scene e cura dell'immagine. Un plauso se lo merita anche la fotografia che, combinata con il design delle astronavi e l'aspetto vagamente alla Lovecraft delle creature aliene, contribuisce non poco alla quasi ipnotica maestosità visiva del film.
Arrival, a tratti, può sembrare un po' nolaniano per come si mostra, ma, nella sostanza, finisce per essere molto diverso da un Interstellar, pur condividendone diversi temi.
Il film di Villeneuve è molto meno arzigogolato e propone una storia che, per quanto intelligente, arriva al punto senza contorsionismi logici, riuscendo ad essere trascinante sin dalle prime battute.

Spalleggiata da Jeremy Renner e Forest Whitaker (che come al solito fanno il loro), la dottoressa Louise Banks è interpretata da una fantastica Amy Adams; grazie alle sue doti recitative, l'attrice riesce a conferire al personaggio un'umanità impressionante, che diventa sempre più intensa via via che la comprensione del linguaggio alieno muta la sua prospettiva sull'esistenza.

Dopo svariate eccellenti pellicole drammatiche, insomma, Villeneuve torna con un film impeccabile: Arrival, come solo la miglior fantascienza riesce a fare, ci affascina mostrandoci l'ignoto e ci commuove facendoci riflettere su chi siamo. 

venerdì 16 dicembre 2016

Rogue One: A Star Wars Story

Quattro anni fa, su questo stesso blog, scrissi che probabilmente, in seguito all'acquisizione di Lucasfilm da parte di Disney, mi sarei potuto scordare uno Star Wars sporco e cattivo, che fosse un film di guerra con antagonisti veramente spietati e battaglie davvero tese e drammatiche.
Che dire, a volte è bello essere smentiti. Perché Rogue One, il primo spin-off cinematografico della saga, riesce ad essere sostanzialmente questa cosa descritta sopra, pur con qualche limite dovuto alla sua natura di blockbuster per famiglie che, giocoforza, deve mettere alcuni filtri all'orrore di un campo di battaglia.

Rogue One racconta la guerra contro il Lato Oscuro in un modo che gli altri lungometraggi finora usciti non avevano mai fatto.
Chiariamo, sarebbe stupido affermare che il franchise abbia scoperto la "guerra" solo oggi. L'intera esalogia (più il settimo episodio) non è altro che l'allegoria di una ribellione contro un regime autoritario. La guerra è onnipresente, così come la chiave di lettura politica, più volte evidenziata da Lucas stesso. Nei prequel vediamo l'ascesa di un dittatore che arriva ad ottenere il controllo di una repubblica tramite la menzogna, sterminando sistematicamente i suoi oppositori dopo avergli attribuito la responsabilità di un conflitto da lui provocato. Nella trilogia classica vediamo la Galassia sotto il giogo di un impero che porta pace, ordine e sicurezza disintegrando pianeti. Che detta così sembrerebbe un'esagerazione lontanissima da noi, ma ricordatevi che si parte sempre invocando le ruspe.
Il punto a cui voglio arrivare è che, in questo delicato momento della nostra storia in cui le cazzate populiste hanno facile presa e sembra normale che degli stronzi blocchino una strada per cacciare via un gruppo di profughi, c'è un gran bisogno di film come Star Wars. Film pop, alla portata di tutti, ma che comunque veicolano un messaggio chiaro e non hanno paura di mostrare il dito medio a certe "idee" che non sono idee.

Nel fare questo, Rogue One è Guerre stellari fino al midollo, pur risultando diversissimo dagli episodi regolari della saga.
È un film più cupo del solito, che riesce ad ampliare enormemente lo scenario della trilogia originale. Per la prima volta ci allontaniamo dalle vicende di Luke, Leia e soci, vedendo sul grande schermo ciò che succede nel resto della Galassia. Ma soprattutto, forse addirittura meglio di come accadeva negli episodi IV-V-VI, capiamo in che misura i vari pianeti siano stati dilaniati dal regime di Palpatine e quale effetto abbia avuto la guerra civile su tutte le creature che li popolano.
La stessa Alleanza Ribelle viene tratteggiata come una resistenza armata impegnata in una disperata lotta contro una forza militare apparentemente invincibile. Quindi sì, sorpresa, in questa guerra anche tra i buoni c'è chi si radicalizza e si sporca le mani, ricorrendo ad ogni mezzo necessario al fine di sconfiggere il nemico.

E qui veniamo ai protagonisti, che sono tutti splendidi e con una caratterizzazione da applausi. Jyn Erso e i suoi compagni sono personaggi che credono in quello per cui lottano, ma non sono facilmente inquadrabili nei canoni degli eroi classici a cui gli Star Wars ci hanno sempre abituati. Ognuno di loro si porta dietro cicatrici dolorose e va ad occupare un posto insostituibile in questo gruppo eterogeneo che combatte contro un male soverchiante.
Ho trovato l'intero cast molto azzeccato sia sul fronte dei ribelli che su quello degli imperiali. Tra un Donnie Yen che si fa amare qualsiasi cosa faccia e un Ben Mendelsohn davvero a suo agio nell'uniforme bianca del direttore Krennic, non me la sento proprio di lamentarmi.
Non mancano poi le comparsate dei personaggi storici della saga. Tre di loro (quattro, se consideriamo che Saw Gerrera compariva in The Clone Wars), si erano già visti chiaramente nei trailer e nelle varie foto promozionali, mentre un paio no. Uno di questi ha un peso notevole nell'economia della storia e devo ancora decidere se sia stata una buona idea ripescarlo nel modo in cui è stato fatto. Da fan con l'ossessione per la continuity mi verrebbe da dire che era addirittura inevitabile e necessario, però capisco che qualcuno potrebbe non apprezzare l'effetto uncanny valley. Ma basta, ho già detto troppo e sono in zona spoiler.

Rogue One è lo spin-off di Star Wars che desideravo vedere.
Un film di guerra drammatico, che mostra un nuovo scorcio di questa galassia lontana lontana e fa comprendere quanto sia gigantesco il potenziale dell'universo creato da George Lucas.
Qualche magagna c'è. La parte iniziale poteva avere un ritmo migliore, il doppiaggio italiano è da denuncia e la colonna sonora stavolta è davvero anonima (maledizione, Giacchino), ma per il resto credo che Rogue One piacerà tantissimo e placherà gli animi di chi si era lamentato (a mio avviso un po' a torto) di una certa mancanza di coraggio da parte di The Force Awakens.
Perché abbiamo uno Star Wars atipico, è vero, ma abbiamo anche un film che, dopo quarant'anni, mette in scena la Guerra Civile Galattica in modo convincente e con i giusti toni. Un film che, facendo tutto questo, riesce comunque a ricollegarsi a Una nuova speranza con un finale di grande impatto, a cui si arriva dopo due ore che sono un'escalation di emozioni e spettacolarità.
Onestamente non saprei che altro chiedere.

martedì 22 novembre 2016

Ghostbusters

Mi dispiace parlar male di questo remake di Ghostbusters. C'è stato un momento, nei mesi scorsi, in cui ho davvero sperato che si rivelasse un film godibile, capace di zittire le orde di hater offesi da "quei maledetti bastardi che stanno rovinando la miglior saga di sempre (saga composta da un film ottimo e da un sequel appena decente) rifilandoci anche quattro donne come protagoniste. Vergogna!!!".

Devo comunque ammettere di aver avuto dei grossi dubbi su questo progetto sin da quando fu annunciato. Perché l'alchimia del film originale non era replicabile, le varie foto scattate sul set mi sembravano tutt'altro che promettenti e il primo trailer faceva oggettivamente ribrezzo. Poi però era arrivato un secondo trailer che lasciava intravedere cose simpatiche, buttava là un paio di battute decenti e faceva pensare ad un film d'azione quantomeno divertente.
Ragionando a mente fredda, inoltre, mi ero reso conto che i nomi coinvolti erano incoraggianti. Il regista Paul Feig aveva girato Spy, una commedia action con Melissa McCarthy che mi era piaciucchiata. Persino le attrici scelte per interpretare le nuove disinfestatrici del paranormale (tra cui figurava la stessa McCarthy) promettevano benino, pur non avendo il curriculum di Bill Murray e soci.
Insomma, mentre su internet fioccavano insulti sessisti e polemiche, io ci stavo credendo. Moderatamente eh, però ci stavo credendo.

Il problema è che siamo nel 2016. E il 2016 ha già ampiamente dimostrato di essere l'Anno del Male in cui tutte le nostre speranze sono destinate ad infrangersi.
Quindi come potrà mai essere andata, con questo remake di Ghostbusters? È andata che, alla fine, a dispetto di alcune recensioni positive (de gustibus), ne è uscito un film veramente brutto.
Lasciamo perdere i confronti con la pellicola del 1984. Perché certo, potremmo dire che qui non c'è traccia dell'ironia volgarotta ma graffiante degli acchiappafantasmi originali o della perfetta commistione tra horror, comicità e azione che aveva segnato le loro gesta. Ma in fin dei conti sono passati anche trentadue anni, mettersi a fare paragoni non ha veramente senso. Senza contare che sarebbe fin troppo disonesto massacrare il film di Feig solo mettendolo in relazione ad un cult anni ottanta che ha segnato la nostra infanzia.
Non è questo il punto.
Il punto è che Ghostbusters 2016, indipendentemente dai suoi legami con i capolavori del passato, è un film poco riuscito, banale e svogliato.

Molto semplicemente: non funziona. Non diverte, non emoziona, non lascia nulla.
La scrittura è pessima. Piatta per quanto riguarda gli sviluppi narrativi, tra il moscio e il delirante quando si tratta di costruire momenti capaci di strappare un sorriso. Presumo che parte della colpa sia imputabile al doppiaggio italiano, che come al solito avrà segato via parecchi giochi di parole sensati solo in inglese, ma guardando questo film mi sono sinceramente sorpreso della quantità di dialoghi che, cercando disperatamente di risultare divertenti, mi hanno lasciato impassibile come un pezzo di legno.
A fare da contrappeso alle chiacchiere brutte tra i personaggi ci sono le parti più movimentate, che toccano notevoli livelli di bordello, soprattutto verso il finale. Peccato che troppo spesso si scada nel tentativo di puntare alla spettacolarità fine a se stessa, con scene d'azione belle da vedere (al netto di effetti speciali fin troppo plasticosi e posticci), ma al contempo girate senza alcun brio. Anche le numerose citazioni horror e le strizzate d'occhio al film originale appaiono goffe; e non parliamo dei terrificanti camei in cui figurano gli attori del vecchio cast, per pietà.

Ciò che brucia di più, tuttavia, è come Ghostbusters, in mezzo al bruttume, lasci intravedere qualche spiraglio di luce. Le quattro protagoniste, a mio avviso, avrebbero avuto del potenziale, se solo fossero state alle prese con una sceneggiatura all'altezza. Ho adorato in particolar modo Kate McKinnon: mi aspettavo un clone insipido di Egon, invece ho trovato un personaggio deliziosamente sopra le righe, che rappresenta l'unica cosa veramente degna di nota in tutto questo disastro. Volendo ci sarebbe pure Chris Hemsworth, toh. È adorabile ammirare il modo in cui si diverte a fare lo scemo, anche se il segretario tontolone che interpreta non mi ha entusiasmato.

Mi rattrista davvero che sia andata così. Una bella rilettura in chiave moderna di Ghostbusters me la sarei goduta più che volentieri. La faccenda del cast femminile mi incuriosiva moltissimo e non ho mai avuto particolari preconcetti verso i remake. In fondo le storie sono fatte per essere raccontate una volta e poi raccontate di nuovo, non c'è nulla di male a prenderne una buona e a rielaborarla.
Peccato solo che, stavolta, il risultato sia stato questo.

giovedì 17 novembre 2016

In guerra per amore

Dopo La mafia uccide solo d'estate, Pierfrancesco Diliberto (in arte Pif) torna a raccontare l'influenza nefasta della criminalità organizzata sulla Sicilia. Questa volta lo fa partendo da lontano, proponendoci una sorta di prequel del suo lavoro precedente, che si svolgeva tra gli anni settanta e i novanta.

In guerra per amore è infatti un film in costume ambientato nel 1943, durante lo sbarco delle truppe alleate che diede il via alla campagna d'Italia, in quella che è passata alla storia come Operazione Husky.
Un film di guerra, quindi? Be', non proprio.
Come il titolo suggerisce in maniera abbastanza chiara, le premesse sono quelle di una commedia romantica: Arturo Giammarresi è un italoamericano innamorato di una ragazza di nome Flora. L'amore è contraccambiato, peccato che la donna sia già promessa sposa al figlio di un boss della malavita. Per uscire dall'impasse, Arturo decide quindi di arruolarsi e di andare in Sicilia in cerca del padre dell'amata, così da potergli chiedere direttamente il permesso di sposarla.

A questo pretesto narrativo, che in effetti dà luogo ad un primo tempo forse eccessivamente "stupidino", fanno da sfondo alcuni degli ambigui eventi che segnarono la fase iniziale del fronte italiano: pare, infatti, che per riuscire a penetrare più facilmente nell'entroterra siciliano, gli americani chiesero la consulenza e il supporto di alcuni esponenti della mafia locale, che ovviamente sapevano muoversi sul territorio meglio di un qualsiasi generale statunitense.
Ora: non è semplicissimo, in realtà, stabilire quanto fu determinante e profondo questo contributo mafioso allo sforzo bellico; o quanto, a conti fatti, Cosa Nostra trasse beneficio da questa collaborazione. Tra gli storici c'è ancora un dibattito piuttosto acceso in cui non voglio addentrarmi.
È comunque importante specificare come questo film tratti un argomento complesso e delicato, che Pif riesce tuttavia ad affrontare lucidamente, rendendo piuttosto bene l'idea di un'isola tra l'incudine e il martello: da un lato l'orrore del nazifascismo, dall'altro la spada di Damocle rappresentata da una criminalità assetata di potere e pronta a tutto pur di ottenerlo. Questi fatti sono visti attraverso gli occhi del protagonista; inizialmente concentrato solo sulla sua quest amorosa, Arturo prende progressivamente coscienza di ciò che sta accadendo intorno a lui, rendendosi conto che gli americani, intenzionati a vincere la guerra con ogni mezzo necessario, stanno prendendo sottogamba il pericolo costituito dalla mafia.

Nel secondo tempo In guerra per amore diventa un film molto più incisivo, pur non perdendo mai quella patina un po' trasognata che contraddistingue lo stile di Pif (e che può non piacere, per carità).
Si denuncia la follia di un regime criminale che ha dilaniato un paese, anestetizzandolo a suon di propaganda e retorica patriottica, si sottolineano i contatti della rete mafiosa con un noto partito politico nascente e si evidenzia il totale disinteresse degli americani, dapprima preoccupati solo della propria vittoria militare e, in un secondo momento, ossessionati dalla necessità di contenere la "minaccia comunista".
Il tutto, come ho accennato, viene raccontato con un taglio leggero, magari lontano dalla realistica brutalità che ci si aspetterebbe da un film su questi argomenti (stiamo sempre parlando di seconda guerra mondiale e mafia, voglio dire), ma che comunque riesce a mantenere elevato il trasporto emotivo. Riuscitissimo, ad esempio, il modo in cui viene sviluppato il rapporto d'amicizia tra il personaggio di Arturo e il luogotenente interpretato da Andrea Di Stefano.

Pif dimostra dunque di essere un narratore sensibile che non solo ha una sincera voglia di scavare a fondo su temi spinosi, ma possiede anche l'abilità necessaria per farlo, confermandosi un regista versatile e in crescita. La speranza è che la sua maturazione artistica continui senza deragliare.

venerdì 4 novembre 2016

Doctor Strange

In questi giorni mi è capitato spesso di sentir descrivere Doctor Strange come un film molto simile ad Iron Man, solo con la magia e il misticismo al posto della tecnologia. Ecco, secondo me questa descrizione, nella sua essenzialità, è assolutamente perfetta.

Doctor Strange è il tipico film sulle origini targato Marvel Studios: mantiene un buon equilibrio tra tono scanzonato e serio, presenta in maniera efficace un personaggio poco conosciuto da chi non legge comics, apre una nuova linea narrativa piena di potenziale in ottica "film corali" (ciao, Thor: Ragnarok, dimmi le parolacce) e mette in scena il solito villain di carta velina che non rischia di rubare la gloria al protagonista.
Protagonista per cui è stato scomodato un nome di un certo peso: Benedict Cumberbatch interpreta uno Stephen Strange a dir poco eccezionale e svolge abilmente il compito di rendere sul grande schermo l'intelligenza (ma anche la pedanteria) di questa new entry dell'universo cinematografico Marvel.

Ad onor del vero nemmeno per il resto del cast si è lesinato sugli attori di livello, anche se non tutti sono sfruttati in modo efficace come la star di Sherlock. Rachel McAdams fa il suo, pur non brillando esattamente di luce propria. Benino Chiwetel Ejiofor e bene anche Tilda Swinton. Mads Mikkelsen invece interpreta un antagonista che, come ho anticipato qualche riga fa, è da tradizione la quintessenza dell'inutilità. Per carità, non è un grosso problema, visto che appunto il film si focalizza sulla storia di Strange e lo spazio per delineare un villain degno è limitato, ma fa un po' specie vedere l'ennesimo attorone sprecato per un personaggio che ha ben poco da dire (il Tom Hiddleston del primo Thor è l'eccezione che conferma la regola).

La peculiarità grazie a cui questo film vince e convince, con un poderoso colpo di reni che lo lancia sul podio dei migliori cinecomic usciti negli ultimi anni, risiede nel suo comparto visivo.
Doctor Strange porta i blockbuster Marvel sul piano surreale, negli inesplorati territori delle soluzioni estetiche psichedeliche. I combattimenti in cui Strange si ritrova coinvolto sono bellissimi sia per come si mostrano che per il modo brillante in cui si svolgono. Tra viaggi onirici, proiezioni extracorporee, prospettive che si deformano come in un'opera di Escher e dimensioni che si accartocciano, c'è di che strabuzzare gli occhi. Notevolissima, in questo senso, la trovata che risolve la "scazzottata" finale, veramente una delle cose più stuzzicanti che mi sia capitato di vedere in un cinemarvellone.

Ricapitolando, Doctor Strange è un film in cui i difetti tipici di una storia sulle origini vengono ampiamente bilanciati dagli aspetti positivi. Benedict Cumberbatch, con il suo carisma, è un acquisto fenomenale per il pantheon supereroistico Marvel Studios e gli sbocchi narrativi garantiti da questa nuova storyline spianano la strada a tantissime possibilità.
Ma, lasciando da parte tutti i discorsi sul futuro di questo ormai gigantesco universo cinematografico, Doctor Strange è di suo un buon film, che riesce a far coesistere una storia divertente (ma non scema) con la spettacolarità. Come faceva il primo Iron Man, appunto.

domenica 9 ottobre 2016

Fuocoammare

Il modo migliore per raccontare Lampedusa è limitarsi a mostrarla. Lasciar parlare le immagini, i dettagli e le vite delle persone che la abitano o che cercano disperatamente di raggiungerla.
Fuocoammare fa esattamente questo: descrive la realtà di un'isola di pescatori che, per via della sua posizione geografica, rappresenta l'ingresso in Europa per migliaia di migranti in fuga dal continente africano. Costretti ad affrontare il mare ammassati a bordo di imbarcazioni fatiscenti, uomini, donne e bambini mettono in gioco la vita che hanno per cercare la possibilità di viverne una migliore, lontana da guerra, fame e violenza.

È questa la realtà che l'isola di Lampedusa si trova davanti ogni giorno. Fuocoammare ce la racconta in maniera molto delicata, alternando il gioco di un ragazzino alla testimonianza di un medico che ci spiega cosa significa prestare le prime cure a chi, in condizioni disumane, attraversa il canale di Sicilia. La quotidianità di un piccolo paesino si miscela all'urgenza del soccorso ai migranti. Scene di pesca si avvicendano alla rianimazione di giovani ustionati e disidratati. Una nonna racconta al nipote di come, durante il secondo conflitto mondiale, i razzi di segnalazione lanciati dalla navi da guerra sembrassero incendiare il mare, mentre un profugo, in un centro d'accoglienza, improvvisa un canto che narra il suo difficile viaggio.

Fuocoammare è un film attualissimo, che parla di un mondo spesso conosciuto solo in modo superficiale; un mondo che invece dovremmo ricordarci ogni volta in cui, guardando la TV o leggendo i giornali, ci imbattiamo nel termine "immigrazione".
Perché, prima che di migranti, si parla sempre di persone come noi, solo nate nel posto sbagliato al momento sbagliato. Persone che, in cerca di una vita serena, "sono partite come uno sputo contro una bufera", per usare le parole di un noto cantautore.

martedì 13 settembre 2016

Star Wars: Lost Stars

Sin dal lontano 1977, Star Wars ha varcato i confini del cinema per abbracciare le forme d'intrattenimento più disparate. Fumetti, libri, videogiochi e una quantità immane di merchandising paccottiglia.
Negli anni di transizione in cui la saga di Lucas era lontana dalle sale cinematografiche, autori come Timothy Zahn contribuirono a tenere vivo il Mito tramite l'Universo Espanso, cioè con storie inedite che, appunto, espandevano quanto mostrato nei film originali, raccontando ciò che era successo nella Galassia dopo i fatti di Episodio VI o scavando tra le mille possibilità offerte da questo gigantesco universo immaginario. L'ombra dell'Impero, ad esempio, riassumeva cosa era accaduto tra L'Impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi; i videogiochi della serie Knights of the Old Republic, invece, narravano i fatti che avevano sconvolto la Vecchia Repubblica ben quattromila anni prima della nascita di Luke Skywalker e soci.
Tutto questo materiale aveva una canonicità variabile a seconda di come si innestava nella saga. Esisteva un vero e proprio sistema di catalogazione che, per ciascuna opera, stabiliva il livello di canonicità all'interno della storyline. Il grado più alto era ovviamente quello dei film (il G-canon), l'unico vero punto fisso di Star Wars, superiore a qualsiasi cosa avesse a che fare con l'Universo Espanso. Va comunque sottolineato come l'epopea spaziale di George Lucas abbia sempre dovuto moltissimo alle storie che affollavano la sua continuity, tanto è vero che i prequel ne attinsero spesso a piene mani (il pianeta Coruscant fece la sua comparsa proprio nei romanzi di Zahn, giusto per citare l'esempio più celebre).

Poi arrivò l'acquisizione di Disney, la quale, per non avere le mani eccessivamente legate in vista della realizzazione di nuovi film e spin-off, decise di fare tabula rasa di (quasi) tutto l'Expanded Universe, creando un nuovo canone il più possibile coerente con gli episodi cinematografici e spianando così la strada ad una vera e propria narrazione interconnessa tra film, serie tv, fumetti e quant'altro.
È a questo nuovo canone che appartiene il libro di cui mi accingo a parlarvi: Lost Stars di Claudia Gray.
Diventata celebre come scrittrice di romanzi young-adult, Claudia Gray fa il suo esordio nell'universo di Star Wars raccontando una storia d'amore avente come sfondo gli eventi della Guerra Civile Galattica.
Thane Kyrell e Ciena Ree provengono da Jelucan, un pianeta dell'Orlo Esterno. Lui di estrazione sociale nobile, lei di origini umili, nascono entrambi alla fine delle Guerre dei Cloni e vivono la proprio infanzia indottrinati dall'Impero, sognando di arruolarsi per lasciare il proprio sistema stellare e vivere un'esistenza emozionante.
Una volta adulti, riescono ad entrare nell'Accademia di Coruscant e, dopo aver superato numerose difficoltà, diventano ufficiali della Flotta Imperiale; è a questo punto che capiscono di amarsi, ma alla consapevolezza dei propri sentimenti si associa la scoperta della vera natura dell'Impero. È così che i due finiscono per fare scelte diverse, giungendo a combattere una guerra su fronti opposti, in attesa del giorno in cui si troveranno faccia a faccia sul campo di battaglia.

Lost Stars è un gran bel romanzo. Sarebbe un grave errore snobbarlo, perché Claudia Gray si dimostra una scrittrice talentuosa, che ha compreso perfettamente come tirar fuori una buona storia dall'universo di Star Wars.
Il rapporto d'amore e rivalità tra Thane e Ciena è praticamente roba young-adult, inutile negarlo, però regge, coinvolge e commuove. I due protagonisti sono caratterizzati splendidamente a partire dal contesto sociale in cui nascono, il loro comportamento è sempre coerente con il loro carattere e la loro particolare cultura.
A tutto ciò si aggiunge il modo spettacolare in cui la Gray racconta, attraverso la prospettiva di questi due giovani amanti, vent'anni di storia starwarsiana.
Lost Stars copre un arco temporale che va dai primissimi anni dell'Impero alla battaglia di Jakku. Il romanzo si collega direttamente ai film della Trilogia Classica, mostrandoci eventi come l'assalto alla Tantive IV o le battaglie di Yavin e di Hoth da un punto di vista inedito. Immancabile la presenza di personaggi importanti come Tarkin e Darth Vader; Claudia Gray si dimostra poi molto abile nell'approfondire in maniera estremamente dettagliata lo scenario storico della guerra civile tra Alleanza e Impero, mostrandoci cosa accadeva a bordo degli incrociatori Mon Calamari o il modo in cui gli imperiali di rango più basso, resi ciechi dalla propaganda e dall'addestramento ricevuto, percepivano i ribelli come folli guerriglieri idealisti che, chissà poi per quale motivo, si opponevano con tutte le proprie forze alla "pace galattica" sognata da Palpatine.
Perché sì, Lost Stars riesce, nella sua semplicità, ad essere interessante anche per quanto concerne il political drama. Non a caso Bloodline, il secondo romanzo a tema "Guerre Stellari" scritto dalla Gray (già uscito negli USA), è ambientato sei anni prima di The Force Awakens e fa luce sullo scenario geopolitico che vede contrapposti Nuova Repubblica e Primo Ordine.

Se insomma non siete ancora saturi di Star Wars e, come il sottoscritto, non potete fare a meno di esultare quando questo immenso mosaico narrativo composto da spade laser, caccia stellari e droidi guadagna un tassello di qualità, il consiglio è di recuperare Lost Stars senza pensarci due volte.
Anche solo per capire che sì, magari il giorno in cui Disney rovinerà tutto arriverà, ma quel giorno non è sicuramente oggi.
Che poi non ho ancora capito cosa ci sarebbe da rovinare. Voglio dire, niente può essere peggio di Jar Jar Binks.

sabato 10 settembre 2016

Independence Day - Rigenerazione

Sarò sincero: ad Independence Day ho sempre voluto bene. Era una scemata in cui il presidente degli Stati Uniti, dopo un discorso da pelle d'oca, saliva su un caccia e andava a buttar giù un disco volante in compagnia di un ubriacone dal cuore d'oro, ma era anche un film di fantascienza divertentissimo, che usciva al cinema nel momento giusto (il mondo era ancora in fissa per X-Files), mostrava almeno un paio di scene di grande impatto visivo e raccontava una storia corale carica di tensione.
Independence Day era stupido, ma nella sua stupidità funzionava egregiamente.

L'idea di realizzare un sequel ambientato vent'anni dopo quel fatidico 4 luglio 1996 poteva essere interessante. Personalmente adoro gli scenari storici alternativi, quindi la prospettiva di un mondo post-invasione aliena tutto tecnologia ibrida mi stuzzicava non poco. Il problema è che stiamo pur sempre parlando di un film di Emmerich, non di un romanzo di Philip K. Dick.
L'intenzione di tratteggiare questa ucronia in cui la storia del genere umano ha preso una piega radicalmente diversa da ciò che abbiamo visto negli ultimi due decenni c'è; peccato che il tutto sia funzionale ad un film che, sostanzialmente, rimane una boiata senza alcuna pretesa di serietà.
Tutto appare molto goffo. Di idee carine ce ne sono, ma poi ecco le auto a benzina in un mondo che padroneggia tecnologie avanzatissime come fusione fredda, antigravità, scudi ad energia e armi laser; oppure ecco una società globale in cui sono sempre e soltanto gli americani quelli che fanno cose, con un minimo d'aiuto da parte della Cina perché, insomma, i biglietti dei cinema li devono staccare anche a Pechino.

I problemi di questo nuovo Independence Day, in realtà, non sono nemmeno legati alle incongruenze tecniche e sociali dello scenario proposto, su cui alla fine si passa sopra facendosi una pera di sospensione dell'incredulità prima d'entrare in sala.
Il film del 1996, come detto, riusciva ad imbastire una storia ricca di tensione. Il disorientamento e la paura dei protagonisti che vedevano gigantesche navi spaziali posarsi sopra le principali metropoli del mondo erano palpabili. Dall'inizio vi era un crescendo drammatico senza sosta, che esplodeva nel momento in cui gli alieni attaccavano e continuava fino a quando il personaggio di Jeff Goldblum non si inventava il contrattacco del "virus da computer", un'apparente idiozia che però era anche una rilettura in chiave informatica de La guerra dei mondi di Wells, quindi tanti cuoricini. In Independence Day, in sostanza, si percepiva l'orrore delle città rase al suolo e il terrore di un annientamento inevitabile.
In Rigenerazione non si prova nulla di tutto ciò.
Il casino parte praticamente subito ma, pur vedendo sullo schermo una distruzione di proporzioni apocalittiche, non si è mai emotivamente coinvolti, nemmeno quando un'astronave madre grossa come un continente ingroppa letteralmente il nostro pianeta. C'è una totale mancanza di pathos.
Non esiste nulla di peggio di un film catastrofico in cui la catastrofe c'è, è enorme e si vede, ma è in completa dissonanza con il comportamento dei personaggi, che reagiscono quasi come se ciò che vedessero fosse normale routine. Personaggi che, a proposito, sono moscissimi. I nuovi volti hanno una caratterizzazione ridotta ai minimi termini che li rende del tutto incapaci di suscitare empatia. Già meglio i membri del vecchio cast, in particolare Jeff Goldblum e Brent Spiner che, da soli, riescono a dare un briciolo di dignità a tutta la baracca, ma anche qui, nulla per cui strapparsi le mutande.

In conclusione, Independence Day - Rigenerazione è una versione più spettacolare e meno emozionante del suo predecessore, con molte idee sulla carta affascinanti ma che, alla prova dei fatti, si rivelano sviluppate male. È un peccato, perché quando il film preme sull'acceleratore e ci delizia con sequenze fracassone e dogfight a colpi di "merdaccia verde" riesce ad offrire una bella dose di divertimento senza pretese. E in quei momenti lì è bello tornare un po' degli undicenni che non sanno neanche cosa sia una sceneggiatura.

mercoledì 3 luglio 2013

I miei film del mese

Tanto per non interrompere la striscia positiva di aggiornamenti del blog, ho deciso di scrivere il solito post cumulativo per parlare brevemente dei film visti nel mese di giugno.
Pronti, via!
 
Man of Steel
Piacevole. I primi trailer rilasciati erano così belli che mi hanno leggermente pompato le aspettative, ma alla fine non sono rimasto deluso.
Certo, ci sono un paio di stronzate abnormi a livello di sceneggiatura e, in generale, il film avrebbe meritato una durata maggiore, che permettesse di sviluppare con più calma certe cosette trattate un po’ alla pene di segugio.
Però, nel complesso, Man of Steel funziona. Henry Cavill possiede il giusto physique du role ed è un Kal-El assolutamente perfetto, le parti su Krypton sono ganze, i flashback sull’infanzia di Clark molto belli e le mazzate sono finalmente esagerate e spettacolari.
Indiscutibilmente meglio di Superman Returns del 2006 che, pur non facendo così schifo come si dice in giro, in effetti era un po’ insipido.
Unico appunto? Mi manca tantissimo il main theme di John Williams.


Star Trek Into Darkness
Premessa: non sono un fan di Star Trek.
Leggo da tutte le parti che Into Darkness è il classico film che fa inacidire gli appassionati della saga. Personalmente, essendo io un perfetto ignorante in materia, l’ho trovato piuttosto figo. Divertente, scorrevole, mai noioso. E poi c’è Simon Pegg.
L’idea che mi sono fatto, leggendo le lamentele dei Trekkies, è che Abrams sia un regista abilissimo nel confezionare prodotti d’intrattenimento, ma che non riesca a infondere la giusta dose di “epica”.
Era una cosa che si notava anche in Super 8, un'opera che ricalcava i film per ragazzi anni Ottanta in maniera pedissequa, non riuscendo a coglierne del tutto il fascino e l’atmosfera.
Perché in fin della fiera funzionava tutto, in Super 8, ma si vedeva troppo che era un film del 2011 che cercava di sembrare un film del 1985.
Quindi immagino che, per un fan di Spock e company, questo Into Darkness sia una pellicoletta di fantascienza che cerca di sembrare Star Trek.
In tal senso, da appassionato di Star Wars, sono preoccupatissimo per Episodio VII.
JJ, non fare cazzate.
 
 
Cloud Atlas
Bel mattonazzo americano-crucco.
Cloud Atlas racconta sei storie, ambientate in epoche diverse, che hanno svariati punti in comune e trattano le medesime tematiche.
Niente male, una pellicola che si lascia seguire senza intoppi nonostante continui a saltare di palo in frasca. Merito dell'ottimo montaggio e di una regia mai confusionaria.
Certe storie sono prevedibilmente più riuscite di altre, ma nel complesso è interessante fare caso a tutti i parallelismi e cercare di capire quali personaggi sono interpretati dal medesimo attore. E la cosa non è sempre così semplice, fidatevi.
Cast d’eccezione, tra l’altro (segnalo la presenza di Tom Hanks, Hugh Grant e Hugo Weaving).
Visivamente è pure molto bello, quindi thumbs up!
 
 
Fast & Furious 6
Niente, mi limito a linkare un paio di recensioni.
Qui c’è quella di Leo Ortolani e qui trovate quella di Nanni Cobretti sul blog i400Calci.
Dicono tutto loro, non mi sembra il caso di aggiungere altro!
Anzi, una cosa la dico: andare al cinema a vedere Fast & Furious è sempre spassosissimo perché, nel parcheggio del multisala, si vedono robe assurde. Robe che ti fanno ringraziare i Sette Dei di non averti fatto nascere zarro!
Del tipo che mi sto ancora chiedendo quale trauma infantile debba aver subito un tizio che se ne va in giro a bordo di una Punto rosa leopardata.

Stasera vado a vedere World War Z, il film con gli zombi che sembrano le formiche rosse di The Kingdom of Crystal Skull.
Aspettative bassine, ma comunque sono curioso.

sabato 17 novembre 2012

Argo

Vi dirò, sinceramente non sono mai stato un detrattore di Ben Affleck.
E' vero, come attore è sempre stato un tocco di legno, ma per qualche motivo ho finito per apprezzarlo in quasi tutti i film in cui ha recitato.
Poi certo, di sicuro vorremmo tutti dimenticarci dell'atroce parentesi Daredevil, ma in quel caso non era neanche tutta colpa sua se il film era lammerda.

Da qualche anno a questa parte, inoltre, il buon Affleck si è dato alla regia, rivelando un talento tutto sommato sorprendente.
Fino all'altro giorno, in ogni caso, non avevo ancora avuto modo di saggiare la cosa personalmente, dato che non ero ancora riuscito a vedere uno dei suoi film. Capirete dunque che non sapevo esattamente cosa aspettarmi da questo suo Argo.
Di sicuro non mi aspettavo uno dei film più belli dell'anno.
Già, perché Argo è davvero una pellicola bella da far spavento.

Il film racconta una storia vera: durante la rivoluzione islamica iraniana del 1979, l'ambasciata americana di Teheran venne occupata da un gruppo di militanti. Cinquantaquattro funzionari americani furono presi in ostaggio, mentre altri sei riuscirono a fuggire, rifugiandosi presso l'abitazione dell'ambasciatore del Canada.
In gran segreto, la CIA e il governo canadese organizzarono l'operazione "Canadian Caper", vale a dire una colossale messa in scena che aveva lo scopo di trarre in salvo i sei fuggiaschi, facendoli uscire dal confine iraniano sotto falsa copertura.
Argo narra proprio la pianificazione e lo svolgimento di questa incredibile impresa. Non ho usato l'aggettivo "incredibile" a sproposito, dato che questa operazione fu per davvero una roba completamente fuori di testa. Se non si conosce assolutamente nulla della faccenda (io non ne sapevo un tubo, ammetto tranquillamente la mia ignoranza) è inevitabile che la visione del film lasci letteralmente di sasso, soprattutto se si è appassionati di cinema!
Questa pellicola rende palese l'eccezionale abilità di Ben Affleck dietro la macchina da presa.
Il ragazzotto che fino a qualche anno fa era considerato più o meno da tutti come un attore belloccio e piuttosto insopportabile, col passare del tempo è sbocciato, trasformandosi in un regista di tutto rispetto.
Argo è un film che non mostra il fianco a critiche. Solo la parte centrale, forse, è un po' troppo verbosa e lenta, ma per il resto stiamo parlando di una pellicola assolutamente epocale.

La cura per i particolari è a dir poco fuori scala. Per certi aspetti Argo sembra un film girato per davvero trent'anni fa. La ricostruzione storica è certosina e denota un'attenzione per il realismo che non è comune a tutti i film di questo tipo, basti pensare a dettagli come la fotografia sporca e lo stile registico a metà tra il documentario e il thriller anni Settanta.
Non solo, perchè spesso è addirittura la somiglianza stessa degli attori alle loro controparti reali ad essere assolutamente impressionante. Probabilmente gran parte del merito è da attribuire ai costumi e al trucco, ma il risultato è davvero notevole.
Gli attori, tra le altre cose, sono tutti straordinariamente bravi e in parte.
Monumentali in particolar modo John Goodman e Alan Arkin, ma anche tutti gli altri convincono alla grande e se ne escono con performance recitative di tutto rispetto. E mi è piaciuto pure Affleck nel ruolo di protagonista, via.

Argo è anche straordinariamente coinvolgente. Le parti più lente del film sono compensate da almeno un paio di sequenze allucinanti, capaci di trasmettere una tensione pazzesca. Nel finale la suspense mi stava letteralmente uccidendo, non scherzo.
E' comunque tutto il film ad avere un ottimo ritmo e una sceneggiatura ben scritta, caratterizzata tra l'altro da dialoghi sempre curati e brillanti.

Indubbiamente un'opera come Argo ha presa facile sul sottoscritto, a tratti mi è sembrato di vedere una cosa girata apposta per titillare i miei gusti, ma vi posso assicurare che Ben Affleck ha davvero tirato fuori un piccolo capolavoro.
Uno dei migliori film del 2012 e non solo.

venerdì 9 novembre 2012

Road to Star Wars Episode VII [#2]

Seconda parte del super-post dedicato alle mie riflessioni su Episodio VII!
Oggi, come promesso, vi dirò cosa vorrei che ci fosse nella prossima trilogia di Star Wars.
Partiamo subito, che qui non c'è tempo da perdere!

Korriban
La Valle dei Signori Oscuri così come appariva in KotOR
Il pianeta dei Sith.
Non vederlo nella Nuova Trilogia è stata una discreta delusione. E in effetti non è che i prequel siano stati particolarmente accurati nel tratteggiare le origini dei Sith, ma a questo ci arriviamo dopo.
Korriban, nell'immaginario della saga, viene sempre rappresentato come un pianeta desertico su cui sorgono le monumentali tombe degli antichi Signori Oscuri. Una sorta di Egitto fantascientifico, insomma.
Sarebbe una location affascinante e d'impatto, senza contare che potrebbe gettare le basi per sviluppi narrativi interessanti.

Un villain come si deve
Inarrivabile.
Nella Vecchia Trilogia c'era Darth Vader, che è probabilmente uno degli antagonisti migliori della storia del cinema.
Era un nemico spietato, implacabile e potentissimo. La creatura dell'Imperatore riusciva a terrorizzare anche i suoi alleati e aveva una presenza scenica pazzesca.
Bucava lo schermo ad ogni apparizione e, col passare degli anni, la sua figura è diventata un'icona della cultura popolare.
E' il personaggio simbolo di Star Wars.
Difficile tirare fuori qualcosa di meglio, infatti la Nuova Trilogia non ci ha neanche provato: in essa un villain veramente carismatico mancava del tutto!
Palpatine si rivelava solo in Episodio III e rimaneva quasi sempre nell'ombra.
Darth Maul era visivamente fighissimo, ma diceva due frasi in croce.
Dooku... Boff, Cristopher Lee spaccava, ma il personaggio era un burattino.
C'era Anakin, ok, ma alla fine nella Nuova Trilogia era più considerabile come una vittima che non come un malvagio vero e proprio.
Grievous e Jango Fett vabbè, non nominiamoli nemmeno, erano carne da cannone.
In Episodio VII, VIII e IX voglio, anzi, ESIGO un nemico principale con i contromaroni, un bastardo dalla caratterizzazione impeccabile che faccia presenza fissa per tutta la trilogia e che si riveli un avversario formidabile per i protagonisti.
Il Mourinho della situazione, insomma. 

Niente Jedi over 9000
"L'abilità di distruggere un pianeta è insignificante in confronto alla potenza della Forza!"
Ok che l'ha detto Vader, però vediamo di non prendere sempre tutto alla lettera!
Questione spinosa.
In passato ho già parlato di come la figura dei Jedi sia cambiata con il passare degli anni.
Dai saggi maestri presenti nella Vecchia Trilogia si è passati ai ninja acrobati salterini dei prequel.
La cosa ha poi preso una piega ancora più tragica nell'Expanded Universe, dove si sono visti i Jedi Super Sayan di Force Unleashed II. In questo gioco i leggendari guardiani di pace e giustizia della Vecchia Repubblica erano capaci di accartocciare caccia stellari come se fossero lattine di Coca Cola e di compiere imprese impossibili anche per gente nata su Krypton.
Visto che un ritorno ai Jedi in stile Vecchia Trilogia lo vedo improbabile, mi piacerebbe che nei prossimi film la loro "potenza" non si discostasse troppo da quella degli episodi I-III e che non si assistesse ad esagerazioni eccessive.
Insomma, farei volentieri a meno di tamarrate come Jedi che combattono utilizzando otto spade laser contemporaneamente o Sith che hanno la capacità di sparare pallettoni di energia spirituale dal potere distruttivo di una bomba Tsar.
Probabilmente è una speranza vana, ma tant'è.

Storia
L'Expanded Universe ha già provato a scavare nel passato di Star Wars, andando indietro anche di svariati millenni.
Nei film, però, la questione è diversa.
Gradirei sapere qualcosa sui Sith. Chi erano? Come mai ce l'hanno tanto coi Jedi? La loro rivalità dipende unicamente da differenze filosofiche o in passato accaddero cose che non sappiamo?
E già che ci siamo, non mi farebbe affatto schifo sapere qualcosa sulle origini della Vecchia Repubblica e dell'Ordine Jedi stesso.
Ok, i nuovi film saranno ambientati dopo Episodio VI, è vero, ma ciò non toglie che in qualche modo potrebbero far luce sul passato della Galassia di Star Wars.

Darth Plagueis e apprendistato di Palpatine
L'unica roba lasciata un po' in sospeso dall'esalogia.
Su Darth Plagueis si sa pochissimo e, volendo, la terza trilogia potrebbe fare chiarezza sulla faccenda.
Unica cosa: per carità di Dio, non fate risorgere Palpatine!

Guerre Stellari
0 ABY
No, non auspico che Star Wars torni a chiamarsi Guerre Stellari!
Magari.
A tal proposito mi chiedo: come verranno chiamati C1-P8 e D-3BO in questi nuovi film? Dovranno avere nuovamente i cacofonici nomi americani o le direttive di Lucas riguardo agli adattamenti linguistici non varranno più dopo il passaggio a Disney? Vabbè, vedremo...
Comunque sia, nella Terza Trilogia voglio rivedere proprio le "guerre stellari", cioè le battaglie nello spazio!
Nella Nuova Trilogia in pratica se ne sono viste solo due: una alla fine di Episodio I e l'altra all'inizio di Episodio III. Quest'ultima non era male, soprattutto perché dava luogo alla sequenza d'apertura più spettacolare dell'intera saga. Il problema era che, in quanto a pathos e a coinvolgimento, non era una battaglia minimamente paragonabile a quella di Yavin o a quella di Endor.
La mancanza di scontri "astronavali" con i contromaroni è a mio avviso una lacuna pazzesca per dei film che hanno le parole "Star" e "Wars" nel nome.
Stavolta voglio vedere almeno una battaglia a episodio, poche palle. E prego che sia lunga, epica e, soprattutto, che non si risolva a tarallucci e vino. Niente navi di controllo dei droidi che vengono distrutte per pura botta di culo, please.
Sì invece a piani d'attacco studiati nel dettaglio come si vedeva nei briefing dell'Alleanza Ribelle.
E voglio rivedere un ammiraglio Mon Calamari!

I Whill
Un Whill?
Si è parlato delle origini della Repubblica e dei Jedi.
In Star Wars c'è un'altra roba misteriosa che non è mai stata spiegata: i Whill.
Chi sono? Beh, è difficile dirlo, perché ufficialmente non si sa.
Diciamo che tali esseri, secondo la mitologia della saga, dovrebbero essere degli antichi sciamani particolarmente sensibili alla Forza (o almeno, ricordo che questo era ciò che traspariva dal fumetto di Revenge of the Sith). Molti sostengono che Yoda stesso appartenga alla razza dei Whill.
Nella bozza iniziale del primo film della saga, scritta da Lucas nel 1973, i Whill erano degli "osservatori" o, più precisamente, dei narratori che raccontavano la storia di Star Wars. Qualcosina di questa idea è rimasta, tanto è vero che l'opening crawl di ogni film è preceduto dalla frase "Tanto tempo fa, in una Galassia lontana lontana...".
In ogni caso, lasciando da parte tutte queste pippe mentali schifosamente nerd, dei Whill si è detto poco o nulla persino nell'Expanded Universe. Di conseguenza potrebbero essere un ottimo trampolino di lancio per costruire la storia di una trilogia.
Poi va bè, il fatto che siano un'idea di Lucas risalente alla primissima bozza del film originale non rende così scontato che vengano tirati in ballo in uno Star Wars made in Disney, anzi!

Nuova epoca
"Sugay!" [cit.]
Ok, Episodio VII si svolgerà dopo ROTJ, ma quanto tempo dopo?
Girano voci su possibili ritorni di Mark Hamill, Harrison Ford o Carrie Fisher, ma questo non vuol dire niente.
I protagonisti della Vecchia Trilogia potrebbero infatti apparire in registrazioni olografiche, holocron e quant'altro, non è detto che compaiano in carne ed ossa.
Di conseguenza Episodio VII potrebbe anche essere ambientato secoli (o millenni) dopo Il Ritorno dello Jedi.
A mio avviso, se così fosse, sarebbe la cosa migliore. Se non altro perchè mi sembrerebbe ridicolo che la Galassia si ritrovasse ad affrontare una nuova minaccia del Lato Oscuro solo pochi anni dopo la caduta di Palpatine.
Anakin morendo doveva portare l'equilibrio nella Forza, che razza di equilibrio sarebbe se pochi anni dopo scoppiasse una nuova guerra?
Discorso diverso se venissero tirati fuori nemici inediti che non c'entrano una fava con i Sith, tipo gli Yuuzhan Vong dell'EU, ma la cosa mi farebbe abbastanza ribrezzo.
 
Emma Stone protagonista
The Force is strong with her!
E vabbè, lasciatemi sognare!
 
Oltre a queste cose, ovviamente, vorrei vedere tutto quello che solitamente cerco sempre in un buon film.
Detto senza giri di parole, spero che la Terza Trilogia sappia far tesoro degli errori commessi nella trilogia dei prequel.
Le sequenze spettacolari e gli effetti visivi da mascella slogata vanno benissimo, ma per girare una pellicola che metta tutti d'accordo c'è bisogno di una buona regia, di una sceneggiatura solida, di dialoghi scritti come si deve e di una recitazione convincente.
So che sono cose banali da dire, ma, considerando certe brutture viste nella saga, direi che fa sempre bene ribadirle.

Pensare ora a tutto questo è chiaramente ridicolo, ma mi pareva carino condividere le mie speranze con voi che leggete il blog.
In ogni caso non preoccupatevi, da qui al 2015 parleremo sicuramente ancora dell'argomento e ci sarà spazio per altri post della rubrica "Road to Star Wars Episode VII".
Del resto se ho scritto tutto 'sto pippone logorroico ora che non si sa praticamente nulla, figuriamoci cosa succederà quando ci saranno a disposizione maggiori informazioni da discutere e commentare!
La vedo bruttissima!