mercoledì 30 novembre 2016

La terra dei figli

Leggendo La terra dei figli mi sono spesso ritrovato a pensare al romanzo La strada. Entrambe le opere raccontano una storia che si svolge in un mondo devastato da una misteriosa catastrofe, risultando incredibilmente simili per atmosfera e per emozioni trasmesse; entrambe, inoltre, sono incentrate sul rapporto padre-figlio.
Se nel libro di Cormac McCarthy, tuttavia, i protagonisti tiravano avanti in mezzo alla disperazione aggrappati con tutte le proprie forze a ciò che restava della loro umanità ("Noi portiamo il fuoco"), qui la situazione è ancora più sconfortante. Gipi ci parla di due fratelli che non hanno mai visto il mondo prima che finisse, cresciuti con rigore e violenza da un padre determinato ad indurirli, per renderli adatti a vivere su un pianeta dove non esiste più alcun tipo di civiltà. Niente amore, niente sentimenti, solo insegnamenti basilari su cosa serve fare per non crepare ed errori che vengono puniti a suon di bastonate.

È da queste premesse che si dipana un fumetto memorabile, che ci immerge in una storia raccontata in modo essenziale, senza orpelli, ma che colpisce come un pugno allo stomaco.
Il tratto di Gipi è talmente particolare e carico di potenza espressiva che riesce a far sembrare pulsanti di vita anche tavole che somigliano a bozzetti.
I dialoghi sono ridotti al minimo. Non serve una voce narrante che ci spieghi perché questo mondo si sia ridotto così e non serve che i personaggi dicano più del necessario. Persino il linguaggio utilizzato, volutamente sgrammaticato e pieno di riferimenti alla cultura popolare contemporanea ("Questa vale almeno cento laic"), contribuisce a rendere inquietante e credibile ciò che leggiamo.

La terra dei figli è un romanzo a fumetti ruvido, splendido nel suo essere stilisticamente grezzo e profondissimo nella sua semplicità narrativa. So che una descrizione del genere sembra quasi un controsenso, ma fidatevi: il viaggio nella brutale terra post apocalittica partorita dalla mente di Gipi è un'esperienza che non si dimentica tanto facilmente.

martedì 22 novembre 2016

Ghostbusters

Mi dispiace parlar male di questo remake di Ghostbusters. C'è stato un momento, nei mesi scorsi, in cui ho davvero sperato che si rivelasse un film godibile, capace di zittire le orde di hater offesi da "quei maledetti bastardi che stanno rovinando la miglior saga di sempre (saga composta da un film ottimo e da un sequel appena decente) rifilandoci anche quattro donne come protagoniste. Vergogna!!!".

Devo comunque ammettere di aver avuto dei grossi dubbi su questo progetto sin da quando fu annunciato. Perché l'alchimia del film originale non era replicabile, le varie foto scattate sul set mi sembravano tutt'altro che promettenti e il primo trailer faceva oggettivamente ribrezzo. Poi però era arrivato un secondo trailer che lasciava intravedere cose simpatiche, buttava là un paio di battute decenti e faceva pensare ad un film d'azione quantomeno divertente.
Ragionando a mente fredda, inoltre, mi ero reso conto che i nomi coinvolti erano incoraggianti. Il regista Paul Feig aveva girato Spy, una commedia action con Melissa McCarthy che mi era piaciucchiata. Persino le attrici scelte per interpretare le nuove disinfestatrici del paranormale (tra cui figurava la stessa McCarthy) promettevano benino, pur non avendo il curriculum di Bill Murray e soci.
Insomma, mentre su internet fioccavano insulti sessisti e polemiche, io ci stavo credendo. Moderatamente eh, però ci stavo credendo.

Il problema è che siamo nel 2016. E il 2016 ha già ampiamente dimostrato di essere l'Anno del Male in cui tutte le nostre speranze sono destinate ad infrangersi.
Quindi come potrà mai essere andata, con questo remake di Ghostbusters? È andata che, alla fine, a dispetto di alcune recensioni positive (de gustibus), ne è uscito un film veramente brutto.
Lasciamo perdere i confronti con la pellicola del 1984. Perché certo, potremmo dire che qui non c'è traccia dell'ironia volgarotta ma graffiante degli acchiappafantasmi originali o della perfetta commistione tra horror, comicità e azione che aveva segnato le loro gesta. Ma in fin dei conti sono passati anche trentadue anni, mettersi a fare paragoni non ha veramente senso. Senza contare che sarebbe fin troppo disonesto massacrare il film di Feig solo mettendolo in relazione ad un cult anni ottanta che ha segnato la nostra infanzia.
Non è questo il punto.
Il punto è che Ghostbusters 2016, indipendentemente dai suoi legami con i capolavori del passato, è un film poco riuscito, banale e svogliato.

Molto semplicemente: non funziona. Non diverte, non emoziona, non lascia nulla.
La scrittura è pessima. Piatta per quanto riguarda gli sviluppi narrativi, tra il moscio e il delirante quando si tratta di costruire momenti capaci di strappare un sorriso. Presumo che parte della colpa sia imputabile al doppiaggio italiano, che come al solito avrà segato via parecchi giochi di parole sensati solo in inglese, ma guardando questo film mi sono sinceramente sorpreso della quantità di dialoghi che, cercando disperatamente di risultare divertenti, mi hanno lasciato impassibile come un pezzo di legno.
A fare da contrappeso alle chiacchiere brutte tra i personaggi ci sono le parti più movimentate, che toccano notevoli livelli di bordello, soprattutto verso il finale. Peccato che troppo spesso si scada nel tentativo di puntare alla spettacolarità fine a se stessa, con scene d'azione belle da vedere (al netto di effetti speciali fin troppo plasticosi e posticci), ma al contempo girate senza alcun brio. Anche le numerose citazioni horror e le strizzate d'occhio al film originale appaiono goffe; e non parliamo dei terrificanti camei in cui figurano gli attori del vecchio cast, per pietà.

Ciò che brucia di più, tuttavia, è come Ghostbusters, in mezzo al bruttume, lasci intravedere qualche spiraglio di luce. Le quattro protagoniste, a mio avviso, avrebbero avuto del potenziale, se solo fossero state alle prese con una sceneggiatura all'altezza. Ho adorato in particolar modo Kate McKinnon: mi aspettavo un clone insipido di Egon, invece ho trovato un personaggio deliziosamente sopra le righe, che rappresenta l'unica cosa veramente degna di nota in tutto questo disastro. Volendo ci sarebbe pure Chris Hemsworth, toh. È adorabile ammirare il modo in cui si diverte a fare lo scemo, anche se il segretario tontolone che interpreta non mi ha entusiasmato.

Mi rattrista davvero che sia andata così. Una bella rilettura in chiave moderna di Ghostbusters me la sarei goduta più che volentieri. La faccenda del cast femminile mi incuriosiva moltissimo e non ho mai avuto particolari preconcetti verso i remake. In fondo le storie sono fatte per essere raccontate una volta e poi raccontate di nuovo, non c'è nulla di male a prenderne una buona e a rielaborarla.
Peccato solo che, stavolta, il risultato sia stato questo.

giovedì 17 novembre 2016

In guerra per amore

Dopo La mafia uccide solo d'estate, Pierfrancesco Diliberto (in arte Pif) torna a raccontare l'influenza nefasta della criminalità organizzata sulla Sicilia. Questa volta lo fa partendo da lontano, proponendoci una sorta di prequel del suo lavoro precedente, che si svolgeva tra gli anni settanta e i novanta.

In guerra per amore è infatti un film in costume ambientato nel 1943, durante lo sbarco delle truppe alleate che diede il via alla campagna d'Italia, in quella che è passata alla storia come Operazione Husky.
Un film di guerra, quindi? Be', non proprio.
Come il titolo suggerisce in maniera abbastanza chiara, le premesse sono quelle di una commedia romantica: Arturo Giammarresi è un italoamericano innamorato di una ragazza di nome Flora. L'amore è contraccambiato, peccato che la donna sia già promessa sposa al figlio di un boss della malavita. Per uscire dall'impasse, Arturo decide quindi di arruolarsi e di andare in Sicilia in cerca del padre dell'amata, così da potergli chiedere direttamente il permesso di sposarla.

A questo pretesto narrativo, che in effetti dà luogo ad un primo tempo forse eccessivamente "stupidino", fanno da sfondo alcuni degli ambigui eventi che segnarono la fase iniziale del fronte italiano: pare, infatti, che per riuscire a penetrare più facilmente nell'entroterra siciliano, gli americani chiesero la consulenza e il supporto di alcuni esponenti della mafia locale, che ovviamente sapevano muoversi sul territorio meglio di un qualsiasi generale statunitense.
Ora: non è semplicissimo, in realtà, stabilire quanto fu determinante e profondo questo contributo mafioso allo sforzo bellico; o quanto, a conti fatti, Cosa Nostra trasse beneficio da questa collaborazione. Tra gli storici c'è ancora un dibattito piuttosto acceso in cui non voglio addentrarmi.
È comunque importante specificare come questo film tratti un argomento complesso e delicato, che Pif riesce tuttavia ad affrontare lucidamente, rendendo piuttosto bene l'idea di un'isola tra l'incudine e il martello: da un lato l'orrore del nazifascismo, dall'altro la spada di Damocle rappresentata da una criminalità assetata di potere e pronta a tutto pur di ottenerlo. Questi fatti sono visti attraverso gli occhi del protagonista; inizialmente concentrato solo sulla sua quest amorosa, Arturo prende progressivamente coscienza di ciò che sta accadendo intorno a lui, rendendosi conto che gli americani, intenzionati a vincere la guerra con ogni mezzo necessario, stanno prendendo sottogamba il pericolo costituito dalla mafia.

Nel secondo tempo In guerra per amore diventa un film molto più incisivo, pur non perdendo mai quella patina un po' trasognata che contraddistingue lo stile di Pif (e che può non piacere, per carità).
Si denuncia la follia di un regime criminale che ha dilaniato un paese, anestetizzandolo a suon di propaganda e retorica patriottica, si sottolineano i contatti della rete mafiosa con un noto partito politico nascente e si evidenzia il totale disinteresse degli americani, dapprima preoccupati solo della propria vittoria militare e, in un secondo momento, ossessionati dalla necessità di contenere la "minaccia comunista".
Il tutto, come ho accennato, viene raccontato con un taglio leggero, magari lontano dalla realistica brutalità che ci si aspetterebbe da un film su questi argomenti (stiamo sempre parlando di seconda guerra mondiale e mafia, voglio dire), ma che comunque riesce a mantenere elevato il trasporto emotivo. Riuscitissimo, ad esempio, il modo in cui viene sviluppato il rapporto d'amicizia tra il personaggio di Arturo e il luogotenente interpretato da Andrea Di Stefano.

Pif dimostra dunque di essere un narratore sensibile che non solo ha una sincera voglia di scavare a fondo su temi spinosi, ma possiede anche l'abilità necessaria per farlo, confermandosi un regista versatile e in crescita. La speranza è che la sua maturazione artistica continui senza deragliare.

venerdì 4 novembre 2016

Doctor Strange

In questi giorni mi è capitato spesso di sentir descrivere Doctor Strange come un film molto simile ad Iron Man, solo con la magia e il misticismo al posto della tecnologia. Ecco, secondo me questa descrizione, nella sua essenzialità, è assolutamente perfetta.

Doctor Strange è il tipico film sulle origini targato Marvel Studios: mantiene un buon equilibrio tra tono scanzonato e serio, presenta in maniera efficace un personaggio poco conosciuto da chi non legge comics, apre una nuova linea narrativa piena di potenziale in ottica "film corali" (ciao, Thor: Ragnarok, dimmi le parolacce) e mette in scena il solito villain di carta velina che non rischia di rubare la gloria al protagonista.
Protagonista per cui è stato scomodato un nome di un certo peso: Benedict Cumberbatch interpreta uno Stephen Strange a dir poco eccezionale e svolge abilmente il compito di rendere sul grande schermo l'intelligenza (ma anche la pedanteria) di questa new entry dell'universo cinematografico Marvel.

Ad onor del vero nemmeno per il resto del cast si è lesinato sugli attori di livello, anche se non tutti sono sfruttati in modo efficace come la star di Sherlock. Rachel McAdams fa il suo, pur non brillando esattamente di luce propria. Benino Chiwetel Ejiofor e bene anche Tilda Swinton. Mads Mikkelsen invece interpreta un antagonista che, come ho anticipato qualche riga fa, è da tradizione la quintessenza dell'inutilità. Per carità, non è un grosso problema, visto che appunto il film si focalizza sulla storia di Strange e lo spazio per delineare un villain degno è limitato, ma fa un po' specie vedere l'ennesimo attorone sprecato per un personaggio che ha ben poco da dire (il Tom Hiddleston del primo Thor è l'eccezione che conferma la regola).

La peculiarità grazie a cui questo film vince e convince, con un poderoso colpo di reni che lo lancia sul podio dei migliori cinecomic usciti negli ultimi anni, risiede nel suo comparto visivo.
Doctor Strange porta i blockbuster Marvel sul piano surreale, negli inesplorati territori delle soluzioni estetiche psichedeliche. I combattimenti in cui Strange si ritrova coinvolto sono bellissimi sia per come si mostrano che per il modo brillante in cui si svolgono. Tra viaggi onirici, proiezioni extracorporee, prospettive che si deformano come in un'opera di Escher e dimensioni che si accartocciano, c'è di che strabuzzare gli occhi. Notevolissima, in questo senso, la trovata che risolve la "scazzottata" finale, veramente una delle cose più stuzzicanti che mi sia capitato di vedere in un cinemarvellone.

Ricapitolando, Doctor Strange è un film in cui i difetti tipici di una storia sulle origini vengono ampiamente bilanciati dagli aspetti positivi. Benedict Cumberbatch, con il suo carisma, è un acquisto fenomenale per il pantheon supereroistico Marvel Studios e gli sbocchi narrativi garantiti da questa nuova storyline spianano la strada a tantissime possibilità.
Ma, lasciando da parte tutti i discorsi sul futuro di questo ormai gigantesco universo cinematografico, Doctor Strange è di suo un buon film, che riesce a far coesistere una storia divertente (ma non scema) con la spettacolarità. Come faceva il primo Iron Man, appunto.