martedì 27 settembre 2016

Narcos

Arrivato in Italia all'incirca un anno fa, Netflix è riuscito a convincere tutti noi da subito non tanto per la vastità del suo catalogo, quanto per l'impressionante qualità delle sue produzioni originali. Difficile rimanere impassibili davanti al Killgrave di Jessica Jones, alla sorprendente profondità di BoJack Horseman o a quel meraviglioso atto d'amore per l'epica eighties che risponde al nome di Stranger Things.
Se però vi interessa il genere poliziesco e volete imparare ad insultare la gente in spagnolo, la serie da recuperare è indubbiamente Narcos.

Incentrata sulla lotta della DEA e delle autorità colombiane al cartello di Medellin, Narcos racconta, nell'arco di due stagioni da dieci episodi ciascuna, l'ascesa e la caduta di Pablo Escobar.
Storia vera, dunque, che in uno stile tra il thriller e il documentaristico (con una spolverata di noir) riesce a tratteggiare con precisione la figura del narcotrafficante più famoso di sempre e a narrare una delle cacce all'uomo più complesse e brutali del ventesimo secolo.
La prima stagione si concentra sul repentino successo di Pablo, in principio considerato dalla popolazione colombiana come una sorta di "Robin Hood". Amatissimo da tutti e apparentemente vicino alle esigenze dei più poveri, Escobar nascondeva i suoi traffici dietro una facciata di filantropia. La costruzione di scuole, ospedali, stadi e il sogno di una carriera politica occultavano un impero criminale della cocaina che, a cavallo tra gli anni ottanta e i primi anni novanta, fece sprofondare la Colombia in un baratro di terrore e violenza.
La seconda stagione descrive invece il lento crollo di questo impero, che inizia inesorabilmente a perdere pezzi fino a quando Escobar non si ritrova solo e braccato, stretto in una morsa tra la polizia colombiana e il gruppo paramilitare dei Los Pepes.

Impossibile stabilire quale sia la parte più interessante di questa turbolenta storia. Personalmente credo che la cavalcata del cartello di Medellin verso il dominio del narcotraffico sia molto entusiasmante, ma al contempo ho l'impressione che sia proprio quando le cose iniziano ad andare in mierda che vengano fuori gli aspetti più interessanti e coraggiosi di questa serie tv; è qui che viene tratteggiata meglio la psicologia di Escobar (bellissimo il nono episodio della seconda stagione, a tal proposito), è qui che escono alla luce le debolezze dei suoi sicarios ed è sempre qui che esplodono le ambizioni dei suoi nemici. Lo stesso discorso vale per i personaggi "positivi", che si ritrovano a fronteggiare una situazione fuori controllo, dovendo spesso ricorrere a metodi tutt'altro che ortodossi.
Un lavoro straordinario è stato svolto dagli attori; tutti in partissima e tutti con un talento fuori dal comune, riescono a dar vita a personaggi che bucano lo schermo. I migliori del gruppo sono sicuramente Wagner Moura, che interpreta appunto Pablo Escobar, e Pedro Pascal, ma si dovrebbero davvero spendere elogi infiniti anche per i numerosi personaggi secondari.
A chiudere il cerchio ci pensa la solita, maniacale, cura che caratterizza buona parte delle produzioni Netflix: Narcos brilla per il ritmo e per la qualità della regia, oltre che per numerosi dettagli che contribuiscono a dargli "carattere", distinguendolo dalle altre serie tv simili. Notevole il modo in cui filmati storici relativi a fatti realmente accaduti si mescolano con le scene di fiction e felicissima la scelta di mantenere il doppiaggio in spagnolo nei dialoghi che vedono coinvolti personaggi sudamericani. Questa particolarità contribuisce a dare una botta di verosimiglianza artigianale al tutto e ricorda molto il modo in cui il "romanaccio" rendeva indimenticabili gli scambi di battute tra i membri della Magliana in Romanzo Criminale.

Narcos è dunque una serie televisiva da non perdere, capace di delineare il volto di una leggenda del narcotraffico e di descriverne la disfatta. È un racconto romanzato, certo, ma per nulla edulcorato o retorico nel suo descrivere la violenza come qualcosa di assolutamente brutale, che incrosta ogni nostro proposito di cercare giustizia e che risulta impossibile da contrastare in modo pulito.

Sarà interessante vedere come verranno sviluppate le già annunciate nuove stagioni che, archiviato Escobar, saranno incentrate sulla lotta al cartello di Cali. Arduo fare ipotesi, soprattutto perché quanto abbiamo visto finora si reggeva moltissimo sulle spalle di un villain spietato e carismatico. È chiaro che adesso la faccenda sarà diversa e bisognerà andare a parare in un'altra direzione.
La curiosità, comunque sia, c'è.

martedì 13 settembre 2016

Star Wars: Lost Stars

Sin dal lontano 1977, Star Wars ha varcato i confini del cinema per abbracciare le forme d'intrattenimento più disparate. Fumetti, libri, videogiochi e una quantità immane di merchandising paccottiglia.
Negli anni di transizione in cui la saga di Lucas era lontana dalle sale cinematografiche, autori come Timothy Zahn contribuirono a tenere vivo il Mito tramite l'Universo Espanso, cioè con storie inedite che, appunto, espandevano quanto mostrato nei film originali, raccontando ciò che era successo nella Galassia dopo i fatti di Episodio VI o scavando tra le mille possibilità offerte da questo gigantesco universo immaginario. L'ombra dell'Impero, ad esempio, riassumeva cosa era accaduto tra L'Impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi; i videogiochi della serie Knights of the Old Republic, invece, narravano i fatti che avevano sconvolto la Vecchia Repubblica ben quattromila anni prima della nascita di Luke Skywalker e soci.
Tutto questo materiale aveva una canonicità variabile a seconda di come si innestava nella saga. Esisteva un vero e proprio sistema di catalogazione che, per ciascuna opera, stabiliva il livello di canonicità all'interno della storyline. Il grado più alto era ovviamente quello dei film (il G-canon), l'unico vero punto fisso di Star Wars, superiore a qualsiasi cosa avesse a che fare con l'Universo Espanso. Va comunque sottolineato come l'epopea spaziale di George Lucas abbia sempre dovuto moltissimo alle storie che affollavano la sua continuity, tanto è vero che i prequel ne attinsero spesso a piene mani (il pianeta Coruscant fece la sua comparsa proprio nei romanzi di Zahn, giusto per citare l'esempio più celebre).

Poi arrivò l'acquisizione di Disney, la quale, per non avere le mani eccessivamente legate in vista della realizzazione di nuovi film e spin-off, decise di fare tabula rasa di (quasi) tutto l'Expanded Universe, creando un nuovo canone il più possibile coerente con gli episodi cinematografici e spianando così la strada ad una vera e propria narrazione interconnessa tra film, serie tv, fumetti e quant'altro.
È a questo nuovo canone che appartiene il libro di cui mi accingo a parlarvi: Lost Stars di Claudia Gray.
Diventata celebre come scrittrice di romanzi young-adult, Claudia Gray fa il suo esordio nell'universo di Star Wars raccontando una storia d'amore avente come sfondo gli eventi della Guerra Civile Galattica.
Thane Kyrell e Ciena Ree provengono da Jelucan, un pianeta dell'Orlo Esterno. Lui di estrazione sociale nobile, lei di origini umili, nascono entrambi alla fine delle Guerre dei Cloni e vivono la proprio infanzia indottrinati dall'Impero, sognando di arruolarsi per lasciare il proprio sistema stellare e vivere un'esistenza emozionante.
Una volta adulti, riescono ad entrare nell'Accademia di Coruscant e, dopo aver superato numerose difficoltà, diventano ufficiali della Flotta Imperiale; è a questo punto che capiscono di amarsi, ma alla consapevolezza dei propri sentimenti si associa la scoperta della vera natura dell'Impero. È così che i due finiscono per fare scelte diverse, giungendo a combattere una guerra su fronti opposti, in attesa del giorno in cui si troveranno faccia a faccia sul campo di battaglia.

Lost Stars è un gran bel romanzo. Sarebbe un grave errore snobbarlo, perché Claudia Gray si dimostra una scrittrice talentuosa, che ha compreso perfettamente come tirar fuori una buona storia dall'universo di Star Wars.
Il rapporto d'amore e rivalità tra Thane e Ciena è praticamente roba young-adult, inutile negarlo, però regge, coinvolge e commuove. I due protagonisti sono caratterizzati splendidamente a partire dal contesto sociale in cui nascono, il loro comportamento è sempre coerente con il loro carattere e la loro particolare cultura.
A tutto ciò si aggiunge il modo spettacolare in cui la Gray racconta, attraverso la prospettiva di questi due giovani amanti, vent'anni di storia starwarsiana.
Lost Stars copre un arco temporale che va dai primissimi anni dell'Impero alla battaglia di Jakku. Il romanzo si collega direttamente ai film della Trilogia Classica, mostrandoci eventi come l'assalto alla Tantive IV o le battaglie di Yavin e di Hoth da un punto di vista inedito. Immancabile la presenza di personaggi importanti come Tarkin e Darth Vader; Claudia Gray si dimostra poi molto abile nell'approfondire in maniera estremamente dettagliata lo scenario storico della guerra civile tra Alleanza e Impero, mostrandoci cosa accadeva a bordo degli incrociatori Mon Calamari o il modo in cui gli imperiali di rango più basso, resi ciechi dalla propaganda e dall'addestramento ricevuto, percepivano i ribelli come folli guerriglieri idealisti che, chissà poi per quale motivo, si opponevano con tutte le proprie forze alla "pace galattica" sognata da Palpatine.
Perché sì, Lost Stars riesce, nella sua semplicità, ad essere interessante anche per quanto concerne il political drama. Non a caso Bloodline, il secondo romanzo a tema "Guerre Stellari" scritto dalla Gray (già uscito negli USA), è ambientato sei anni prima di The Force Awakens e fa luce sullo scenario geopolitico che vede contrapposti Nuova Repubblica e Primo Ordine.

Se insomma non siete ancora saturi di Star Wars e, come il sottoscritto, non potete fare a meno di esultare quando questo immenso mosaico narrativo composto da spade laser, caccia stellari e droidi guadagna un tassello di qualità, il consiglio è di recuperare Lost Stars senza pensarci due volte.
Anche solo per capire che sì, magari il giorno in cui Disney rovinerà tutto arriverà, ma quel giorno non è sicuramente oggi.
Che poi non ho ancora capito cosa ci sarebbe da rovinare. Voglio dire, niente può essere peggio di Jar Jar Binks.

sabato 10 settembre 2016

Independence Day - Rigenerazione

Sarò sincero: ad Independence Day ho sempre voluto bene. Era una scemata in cui il presidente degli Stati Uniti, dopo un discorso da pelle d'oca, saliva su un caccia e andava a buttar giù un disco volante in compagnia di un ubriacone dal cuore d'oro, ma era anche un film di fantascienza divertentissimo, che usciva al cinema nel momento giusto (il mondo era ancora in fissa per X-Files), mostrava almeno un paio di scene di grande impatto visivo e raccontava una storia corale carica di tensione.
Independence Day era stupido, ma nella sua stupidità funzionava egregiamente.

L'idea di realizzare un sequel ambientato vent'anni dopo quel fatidico 4 luglio 1996 poteva essere interessante. Personalmente adoro gli scenari storici alternativi, quindi la prospettiva di un mondo post-invasione aliena tutto tecnologia ibrida mi stuzzicava non poco. Il problema è che stiamo pur sempre parlando di un film di Emmerich, non di un romanzo di Philip K. Dick.
L'intenzione di tratteggiare questa ucronia in cui la storia del genere umano ha preso una piega radicalmente diversa da ciò che abbiamo visto negli ultimi due decenni c'è; peccato che il tutto sia funzionale ad un film che, sostanzialmente, rimane una boiata senza alcuna pretesa di serietà.
Tutto appare molto goffo. Di idee carine ce ne sono, ma poi ecco le auto a benzina in un mondo che padroneggia tecnologie avanzatissime come fusione fredda, antigravità, scudi ad energia e armi laser; oppure ecco una società globale in cui sono sempre e soltanto gli americani quelli che fanno cose, con un minimo d'aiuto da parte della Cina perché, insomma, i biglietti dei cinema li devono staccare anche a Pechino.

I problemi di questo nuovo Independence Day, in realtà, non sono nemmeno legati alle incongruenze tecniche e sociali dello scenario proposto, su cui alla fine si passa sopra facendosi una pera di sospensione dell'incredulità prima d'entrare in sala.
Il film del 1996, come detto, riusciva ad imbastire una storia ricca di tensione. Il disorientamento e la paura dei protagonisti che vedevano gigantesche navi spaziali posarsi sopra le principali metropoli del mondo erano palpabili. Dall'inizio vi era un crescendo drammatico senza sosta, che esplodeva nel momento in cui gli alieni attaccavano e continuava fino a quando il personaggio di Jeff Goldblum non si inventava il contrattacco del "virus da computer", un'apparente idiozia che però era anche una rilettura in chiave informatica de La guerra dei mondi di Wells, quindi tanti cuoricini. In Independence Day, in sostanza, si percepiva l'orrore delle città rase al suolo e il terrore di un annientamento inevitabile.
In Rigenerazione non si prova nulla di tutto ciò.
Il casino parte praticamente subito ma, pur vedendo sullo schermo una distruzione di proporzioni apocalittiche, non si è mai emotivamente coinvolti, nemmeno quando un'astronave madre grossa come un continente ingroppa letteralmente il nostro pianeta. C'è una totale mancanza di pathos.
Non esiste nulla di peggio di un film catastrofico in cui la catastrofe c'è, è enorme e si vede, ma è in completa dissonanza con il comportamento dei personaggi, che reagiscono quasi come se ciò che vedessero fosse normale routine. Personaggi che, a proposito, sono moscissimi. I nuovi volti hanno una caratterizzazione ridotta ai minimi termini che li rende del tutto incapaci di suscitare empatia. Già meglio i membri del vecchio cast, in particolare Jeff Goldblum e Brent Spiner che, da soli, riescono a dare un briciolo di dignità a tutta la baracca, ma anche qui, nulla per cui strapparsi le mutande.

In conclusione, Independence Day - Rigenerazione è una versione più spettacolare e meno emozionante del suo predecessore, con molte idee sulla carta affascinanti ma che, alla prova dei fatti, si rivelano sviluppate male. È un peccato, perché quando il film preme sull'acceleratore e ci delizia con sequenze fracassone e dogfight a colpi di "merdaccia verde" riesce ad offrire una bella dose di divertimento senza pretese. E in quei momenti lì è bello tornare un po' degli undicenni che non sanno neanche cosa sia una sceneggiatura.