martedì 26 settembre 2017

It's dangerous to go alone. Una leggenda, una principessa, un eroe

Sono passati alcuni mesi dall’uscita di The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Dopo averlo giocato e sviscerato a fondo, è arrivato il momento di parlarne, anche se molto è già stato scritto da altri. Ho aspettato a dire la mia perché l’opinione su un gioco del genere andava lasciata sedimentare, in modo da non risultare viziata da entusiasmi “di pancia”. Questo Zelda, essendo un vero e proprio titolo spartiacque tra tutto ciò che è venuto prima e tutto ciò che è destinato a venire dopo, si meritava una riflessione lucida e distaccata, non un commento scritto a caldo sull’onda dell’emotività.

Per parlare di Breath of the Wild bisogna partire da Ocarina of Time.
Arrivato verso la fine del 1998, “Zelda 64" segnò il passaggio della serie dal 2D al 3D. La sua portata rivoluzionaria non fu paragonabile a quella che Super Mario 64 ebbe nei confronti dei platform (e del videogioco tutto), ma Ocarina riuscì comunque a traslare alle tre dimensioni la struttura ludica di A Link to the Past in modo indolore, introducendo meccaniche che sarebbero diventate la norma per molti titoli usciti da lì in avanti (pensiamo banalmente alla Z-targeting). Si trattava di un gioco impressionante, che colpiva per la complessità dei suoi dungeon e per il senso di meraviglia che il microcosmo di Hyrule riusciva a trasmettere. A rivederlo con gli occhi di oggi, soprattutto dopo la maestosità di Breath of the Wild, Ocarina mette quasi tenerezza nella sua essenzialità anni Novanta; ma all’epoca nulla superava la sua atmosfera, fiabesca quando indossavamo i panni di Link bambino, apocalittica nelle vesti di Link adulto.

Dopo il grande salto generazionale rappresentato da Ocarina of Time, Nintendo cercò di evolvere The Legend of Zelda nei modi più disparati. Spesso in direzioni originali, andando controcorrente rispetto alle aspettative dei videogiocatori. Persino Twilight Princess, che in un certo senso rappresentava l’anima più reazionaria della saga (fu presentato all’E3 2004 con un trailer che aveva la colonna sonora di Conan il barbaro in sottofondo), propose sezioni di gioco anomale in cui Link si trasformava in un lupo.
Majora’s Mask, che a prima vista poteva essere scambiato per un more of the same di Ocarina, era in realtà un gioco folle, con una struttura ludica basata sul concetto di loop temporale.
Allo Space World 2001, invece, la presentazione di The Wind Waker fu spiazzante. Ci si aspettava una sorta di “Dark Zelda” che traghettasse verso il realismo lo stile visivo di Ocarina e Majora, invece Nintendo se ne uscì con “Celda”: uno titolo realizzato in cel-shading, che sembrava quasi un cartone animato di Miyazaki. Uno Zelda che oggi, proprio in virtù di questo suo stile grafico peculiare, resta ancora bellissimo da vedere. E The Wind Waker continuò a mescolare le carte in tavola anche oltre il mero aspetto visivo, sostituendo le pianure di Hyrule con un oceano navigabile.
La volontà di proporre qualcosa di nuovo si percepiva anche in Skyward Sword, che tentava di rendere più sfumato il confine tra dungeon ed overworld, e nelle trovate di alcuni episodi portatili, su tutti A Link Between Worlds (di cui parleremo tra poco).

The Legend of Zelda, tuttavia, nel dopo Ocarina ha sempre approcciato il cambiamento in modo estremamente prudente, rimanendo fedele a quelli che, fino a Breath of the Wild, erano i canoni della serie. Certo, si modificava l’approccio, si proponevano dinamiche nuove, ogni tanto si giocherellava con il sistema di controllo (sensori di movimento su Wii e touch screen su DS), ma Zelda rimaneva sempre ancorato a un certo tradizionalismo di fondo. Ogni tanto, poi, qualche magagna faceva capolino e macchiava titoli altrimenti memorabili. Il mare di The Wind Waker, per quanto poetico, dava luogo a lunghe traversate che rompevano il ritmo del gioco nella sua seconda metà. Skyward Sword aveva invece le sezioni stealth nel Silent Realm, che alla lunga potevano diventare tediose e ripetitive.
Per molti anni Zelda è stata una serie di qualità sopraffina che, pur sperimentando e pasticciando con la propria struttura in ogni sua nuova iterazione, sembrava faticare a capire quale strada prendere per tornare a sconvolgere i videogiocatori. Qualcuno, addirittura, auspicava che la saga seguisse il destino di Metroid e finisse nelle mani di Retro Studios. Inizialmente persino le dichiarazioni di Aonuma su Breath of the Wild furono prese con cautela da pubblico e critica.

Dopo anni di attesa, durante i quali il gioco è stato rinviato più volte, perdendo l’esclusività Wii U e diventando il secondo Zelda cross-generazionale (il primo fu Twilight Princess), Breath of the Wild è finalmente uscito, accompagnando il lancio di Switch e riuscendo finalmente a stravolgere la serie a cui appartiene.
Nintendo ce l’ha fatta: Zelda è cambiato. È diventato più grande, più attuale e più epico, restando comunque coerente con la propria natura. Anzi, forse questa sua nuova forma lo avvicina ancora di più alla filosofia del primo titolo della saga e all’idea che nel 1986 ispirò Shigeru Miyamoto: far provare ai giocatori le stesse sensazioni che provava lui quando, da bambino, esplorava i boschi, i campi e le grotte nei dintorni di Kyoto.

Le radici del cambiamento rappresentato da Breath of the Wild affondano nello splendido A Link Between Worlds, uno Zelda portatile che, pur essendo legato a doppio filo allo storico episodio per Super Nintendo (di cui è il seguito), potrebbe essere scambiato facilmente per un titolo minore e di scarse pretese. Nulla di più sbagliato. Uscito su 3DS alla fine del 2013, A Link Beteen Worlds proponeva infatti la grande novità della progressione non lineare. Tutti gli oggetti erano disponibili praticamente dall’inizio dell’avventura e il giocatore poteva scegliere in quale ordine affrontare i dungeon.
Ebbene, la caratteristica più peculiare di Breath of the Wild è proprio la libertà di approccio.
Fin dalle fasi iniziali del gioco, Link è lasciato senza vincoli. Certo, nelle prime ore siamo bloccati sull’Altopiano delle Origini, ma questa sezione introduttiva che fa da “tutorial” ci lascia già assaporare in scala ridotta la spaventosa libertà di cui godremo nel resto del titolo. E in effetti, utilizzando un minimo di ingegno, esiste addirittura la possibilità di abbandonare l’Altopiano prima del tempo.
In Breath of the Wild l’intero regno di Hyule è quindi liberamente esplorabile quasi da subito: niente confini invalicabili, solo ostacoli naturali che possono essere superati o, al limite, aggirati. Questo è ufficialmente il primo Zelda “No Border”. Possiamo andare dove vogliamo e fare quello che vogliamo, basta saper cogliere le possibilità che il gioco ci mette a disposizione. Vogliamo scalare un ghiacciaio senza vestiti pesanti? Raccogliamo dei peperoncini, prepariamo una pietanza che ci protegga dal freddo e partiamo. Vogliamo sfidare nemici particolarmente potenti? Possiamo lanciarci allo sbaraglio, oppure cercare dei Cuoranelli e cucinarli con della carne, ottenendo una grigliata che aumenti i cuori a nostra disposizione. A nostro rischio e pericolo, è persino possibile andare direttamente da Ganon e affrontarlo. Ma in fondo che senso ha correre verso la fine dritti come fusi, quando c’è un mondo così vasto da esplorare?

Di videogiochi open world, in questo ultimo decennio, ne abbiamo visti un’infinità. Il free roaming è stato declinato in ogni salsa, in giochi capaci spesso di sfiorare l’eccellenza. Basterebbe fare i nomi di GTA V, Red Dead Redemption e The Witcher 3: Wild Hunt. Ma sono molti altri, in realtà, i titoli che ci hanno regalato mondi vastissimi in cui è stato divertente perdersi. Pensiamo per esempio allo spettacolare Just Cause 2: girare per Panau con rampino e parapendio, facendo esplodere qualunque cosa ci capitasse a tiro, era un autentico spasso.
Nintendo ha sostanzialmente preso tutte le caratteristiche migliori degli open world di scuola occidentale e le ha utilizzate per realizzare uno Zelda. Il risultato è un gioco vasto come un titolo Rockstar in cui il mondo è denso di cosa da fare come quello di Ocarina of Time. Questa è la misura della cura con cui è stato realizzato Breath of the Wild e di ciò che ha da offrire in termini di gameplay.
In questa Hyrule non ci si annoia mai. Non c’è mai un punto morto e non si trova mai una zona della mappa che sia vuota. C’è sempre una quest dietro l’angolo, un seme Korogu da raccogliere, un enigma da risolvere. È un gioco in cui, come accade soltanto nei migliori titoli Nintendo (Mario 64 insegna), è divertente anche solo andare a zonzo senza una meta, perché puntualmente si trova qualcosa che attira la nostra attenzione e finisce per tenerci incollati alla console per un’altra ora.

Attraversare questo regno funestato dalla Calamità Ganon è così piacevole anche grazie alla presenza della paravela e alla possibilità di scalare qualsiasi superficie. Scalata e paravela, esattamente come la combinazione di rampino e parapendio del citato Just Cause 2, esaltano la verticalità degli ambienti. Arrampicarsi sulla cima di una torre Sheikah e planare dolcemente verso il luccichio arancione di un sacrario è un’operazione che viene ripetuta più volte nel corso delle ore di gioco, ma che tuttavia lascia sempre col fiato mozzato. Ed è strano, perché in fondo non si tratta di qualcosa di così diverso dal celebre leap of faith proposto negli Assassin’s Creed (altro open world occidentale). Qui però a fare la differenza è il game design Nintendo che, in una perfetta alchimia tra meccaniche di gioco e direzione artistica, riesce a rendere appagante qualsiasi nostra azione, in modi che altri sviluppatori si sognano.

Un'altra caratteristica che rende il mondo di Breath of the Wild così vivo e verosimile è la straordinaria implementazione della fisica. Sembrerà un’esagerazione, ma in realtà non è tanto campato per aria affermare che questo Zelda potrebbe tranquillamente chiamarsi Half-Life 3.
Half-Life 2 rivoluzionava i videogiochi grazie ad un motore fisico che portava l’interazione con gli ambienti di gioco a livelli mai sperimentati prima. Breath of the Wild non ha ovviamente il medesimo impatto, ma è la prima volta che, in un mondo open world così vasto, è possibile interagire in maniera tanto profonda con quello che ci circonda. Ciò, come è ovvio, si riflette nel modo in cui risolviamo gli enigmi, affrontiamo i nemici o, più semplicemente, ci spostiamo. Spesso il gioco consente approcci diversi, lasciando totale libertà all’inventiva del giocatore ed incoraggiando le soluzioni creative. Vogliamo attivare un interruttore creando un circuito artigianale? Prego, appoggiamo i nostri oggetti di metallo sul pavimento e mettiamoli in fila in modo che conducano energia elettrica!
In effetti all’elettricità è meglio stare attenti anche quando si scorrazza per le valli di Hyrule. In caso di temporale, infatti, spade e armature possono attirare pericolosi fulmini.
Anche le condizioni meteorologiche, ovviamente, influiscono sul gameplay. Arrampicarsi su una parete di roccia resa scivolosa dalla pioggia non è affatto semplice. Come ho accennato prima, poi, Link è sensibile al caldo, al sole e al freddo. I numerosi vestiti presenti nel gioco non sono solo un vezzo estetico, ma risultano necessari per sopravvivere alle temperature rigide del monte Ranel o al clima sahariano del deserto Gerudo. Certo, si può correre ai ripari preparando pozioni e cibi particolari (che tuttavia offrono un tempo di protezione limitato), ma questa meccanica degli abiti che vanno continuamente avvicendati porta a quello che, forse, è il cambiamento più evidente di Breath of the Wild: Link non è più legato alla sua classica tunica da Peter Pan.

Questo, tra le altre cose, è di sicuro lo Zelda in cui si passa più tempo all’aria aperta, esposti alle intemperie. Il motivo è molto semplice: non esistono più i dungeon. È vero, ora ci sono i Colossi Sacri, ma è innegabile che queste titaniche macchine create dagli Sheikah non siano paragonabili ai labirinti dei precedenti episodi della serie, che rappresentavano a tutti gli effetti il cuore di quei vecchi giochi. Qui i colossi svolgono un ruolo centrale nella storia, ma sono solo una piccola parte di quello che il titolo ha da offrire.
Breath of the Wild sposta definitivamente il focus della saga dai dungeon all’overworld, ma non bisogna credere che il numero di enigmi sia drasticamente diminuito rispetto al passato. Sparsi per Hyrule ci sono infatti i sacrari, che vanno trovati e completati per ottenere gli Emblemi dell’Eroe, utili ad aumentare il numero di cuori o ad aggiungere una tacca alla barra del vigore.
I sacrari propongono sfide estremamente diversificate: si va dalle sezioni di combattimento contro i Guardiani a piccole stanze contenenti puzzle da risolvere utilizzando i poteri della tavoletta Sheikah. Queste stanze, per filosofia e atmosfera, mi hanno ricordato tantissimo quel capolavoro di Portal. Ma non è finita qui, perché spesso trovare a un sacrario è una sfida nella sfida. Alcuni di essi sono ben nascosti in aree di gioco difficili da raggiungere, altri invece richiedono la risoluzione di complesse quest per essere attivati e diventare così accessibili. È il caso, per citare l’esempio più famoso, del sacrario di Korgu Chideh, che si trova su un’isola dove, privati di tutti i nostri oggetti, ci troviamo catapultati in una missione di sopravvivenza.

Probabilmente l’unico aspetto negativo dei numerosissimi sacrari è la loro monotonia dal punto di vista estetico. Questi luoghi, che nella mitologia di Zelda sono degli appositi templi creati dagli Sheikah per addestrare l’Eroe, visivamente finiscono per assomigliarsi un po’ tutti, poiché propongono ogni volta il medesimo stile architettonico. Nulla di grave, capiamoci, ma è inevitabile che questa mancanza di varietà, dopo qualche ora di gioco, si faccia sentire. Per altro anche i Colossi Sacri soffrono dello stesso problema. In Ocarina of Time il Water Temple era diversissimo dal Forest Temple, qui invece è difficilotto distinguere dall'interno un Vah Ruta da un Vah Naboris, almeno ad una prima occhiata.

Breath of the Wild, per quanto eccezionale in ogni suo aspetto, non è esente da difetti. Poche carenze, su cui si potrebbe tranquillamente sorvolare, perché non è detto siano fastidiose per tutti i videogiocatori. Ma è importante evidenziarle, anche solo per capire in cosa Zelda potrebbe migliorare nei prossimi episodi.
I Colossi Sacri, ad esempio, per quanto siano stati una scelta coraggiosa, non sono divertenti quanto i vecchi dungeon. Personalmente li ho trovati soltanto una versione “allungata” dei sacrari e, a distanza di mesi, posso facilmente identificarli come le sezioni meno appaganti di questo gioco. Voglio precisare, non mi sto riferendo alla loro funzione nella storia (anzi, da quel punto di vista mi sono piaciuti un mondo, così come i loro Campioni), parlo proprio di ciò che mi hanno offerto in termini di gameplay. L’eredità dei vecchi labirinti è un aspetto su cui sicuramente Nintendo può lavorare.
Ho trovato invece di poco conto alcuni dei difetti di cui si sono lamentati altri giocatori. La meccanica di usura delle armi, per quanto inizialmente noiosa ed invasiva come evidenziato da molti, spinge a sperimentare, a provare tutti gli strumenti che i nemici sconfitti abbandonano a terra. In questa maniera il sistema di combattimento ne guadagna in strategia e varietà, pur pagando il prezzo di qualche leggero calo di ritmo. Già più scomodo, invece, l’inventario, così come il sistema di preparazione del cibo. Cucinare è un’operazione che diventa presto monotona e probabilmente non sarebbe stato male avere un ricettario che tenesse nota delle ricette già scoperte. Anche qui, comunque, più che di difetti che compromettono la qualità del gioco si parla di elementi che, con qualche accorgimento (soprattutto a livello di interfaccia), potevano essere più dinamici.

Si è detto infine che questa Zelda, paradossalmente il primo capitolo della saga con dialoghi doppiati, possiede carenze sul piano narrativo.
Se Skyward Sword era stato criticato per una narrazione fin troppo logorroica, Breath of the Wild è andato incontro a critiche opposte: un titolo eccellente da giocare, in cui però la storia è relegata in secondo piano e viene raccontata con superficialità.
Non sono assolutamente d’accordo.
The Legend of Zelda: Breath of the Wild è un gran bel racconto fantasy in cui la narrazione procede con grande eleganza, amalgamandosi perfettamente con il gameplay. Come è sempre accaduto nei migliori capitoli della serie (da A Link to the Past ad Ocarina), siamo noi giocatori a costruire l'avventura di Link vivendo il suo viaggio. La vicenda che fa da antefatto al gioco viene raccontata con brevi ma incisivi flashback, che riescono a delineare la storia di questa versione del regno di Hyrule con grande potenza. Per una volta, anche l’escamotage narrativo del protagonista che perde la memoria viene sfruttato in maniera intelligente e contribuisce a rendere ancora più intensa l’atmosfera del gioco. Quando Link si sveglia e l’avventura inizia, noi non sappiamo nulla del mondo che ci circonda. Le prime ore che passiamo sull’Altopiano delle Origini sono caratterizzate da una sensazione di straniamento e di mistero che pochi giochi riescono a restituire. Persino l’idea di risvegliare i ricordi sopiti dell'eroe visitando determinati luoghi è geniale nella sua semplicità, poiché è un ulteriore incentivo all’esplorazione. La storia di Breath of the Wild è, se vogliamo, essenziale, ma attraverso poche e decise pennellate, senza mai spezzare la giocabilità, dipinge una delle Hyrule più affascinanti di sempre.
La stessa caratterizzazione della principessa Zelda è memorabile.
Nintendo ha sempre cercato di stratificare il personaggio femminile che dà il nome alla serie, elaborando la figura letteraria della fanciulla in pericolo. Questo probabilmente è il gioco in cui tale figura viene riletta meglio: Zelda appare inizialmente come un’adolescente insicura, che vive un rapporto difficile con suo padre e si sente inadeguata al compito di affrontare le tenebre che minacciano il suo regno. Tuttavia non si arrende. Cerca infatti di studiare un modo per sconfiggere Ganon recuperando l’antica tecnologia della civiltà Sheikah. Quando il suo nemico riesce inaspettatamente a sconfiggere i Campioni e a prendere il controllo delle macchine ancestrali, Zelda lo fronteggia e, da sola, riesce a contenerlo per cento anni all’interno del castello di Hyrule, mentre Link è in coma all’interno del sacrario della rinascita.
Il ruolo di Zelda è dunque decisivo. La giovane principessa si dimostra un personaggio umano sia nelle proprie debolezze che nella propria determinazione. È un’eroina tutt’altro che passiva allo svolgersi degli eventi.

Breath of the Wild, insomma, non sacrifica la narrazione sull’altare del gameplay. Al contrario prova a dosarla, per renderla quanto più possibile coesa con il proprio impianto ludico.
Il risultato è un gioco epico che, come accennato, nelle fasi iniziali è quasi spaesante. È in questo aspetto che Breath of the Wild ripropone con maggiore fedeltà quella che era l’atmosfera di The Legend of Zelda per NES. Anche lì Hyrule era un luogo misterioso, che trasmetteva uno strano senso di inquietudine. Qui accade lo stesso. Viaggiamo attraverso un regno colorato, dalla natura rigogliosa e popolato da creature buffe che contrappongono il loro aspetto cartoon al realismo degli scenari; tuttavia percepiamo una minaccia costante, che si acuisce mano a mano che ci avviciniamo al castello in cui Ganon è confinato e vediamo i segni sempre più evidenti della distruzione.
C’è un che dei Grandi Antichi di Lovecraft nella caratterizzazione della storica nemesi di Link e Zelda. Anche qui, per certi versi, torniamo alle origini della serie: il Ganon di Breath of the Wild è un'entità mostruosa che ci viene presentata immediatamente come una calamità. Una forza di male assoluto totalmente disumanizzata, lontana anni luce sia dal guerriero Gerudo dell’incipit di Ocarina of Time che dal villain quasi shakespeariano dell'epilogo di The Wind Waker. Incontriamo questa incarnazione di odio e rancore solo alla fine del gioco, ma ne percepiamo la presenza per tutta l’avventura.
Entrando nel castello di Hyrule (il cui level design sarebbe in effetti un ottimo punto di partenza per quella che potrebbe essere l’evoluzione dei dungeon), sperimentiamo insieme a Link lo stesso terrore che avevano fronteggiato i Perdenti entrando nella tana di It, la stessa angoscia che attanagliava Frodo davanti ai cancelli di Mordor.

Questo episodio di Zelda si dimostra un degno erede del capostipite della saga anche per quanto concerne il livello di sfida. Non è ovviamente altrettanto ostico, ma la libertà di esplorazione che concede può spesso portare il giocatore sprovveduto di fronte a situazioni troppo ardue per le sue capacità. Combattere contro un Lynel è un’esperienza traumatica anche dopo molte ore di gioco. La difficoltà stessa dei boss varia parecchio in base a quanto sia stato potenziato il nostro Link. Nei primi giorni dopo l’uscita del titolo sono fioccati addirittura i paragoni con Dark Souls, ma onestamente mi sembra un accostamento azzardato: semplicemente, questo Zelda lascia al giocatore molta libertà, permettendogli di commettere errori e di sbattere la testa. Non è un soulslike, è solo un gioco che non ci prende per mano, concedendoci di scoprire le cose da soli. Un gioco alla portata di tutti che, a seconda di come viene affrontato, può rivelare picchi di difficoltà inaspettati.

Nintendo ha saputo dunque cambiare Zelda e ci è riuscita seguendo due strade.
La prima via l’ha portata a prendere ispirazione dagli open world occidentali, pescando idee di giochi belli ma imperfetti (spesso esageratamente bistrattati?) e sviluppandole per creare un capolavoro senza sbavature. Da qui non si tornerà indietro, perché chiunque, in futuro, dovrà fare i conti con la vastità, l’opulenza ludica e il valore artistico di Breath of the Wild, tenendolo come metro di paragone.
La seconda strada ha portato invece Nintendo a guardare alle proprie spalle, riprendendo la filosofia del gioco di avventura che era il primo titolo per NES ed adattandola alle caratteristiche del videogioco moderno.
Resta ora da capire in quale direzione potranno andare i prossimi titoli della serie. Fare previsioni non serve perché, come abbiamo visto, già in passato la grande N è stata capace di spiazzarci.
E in fondo, per una volta, non sentiamo nemmeno il bisogno di guardare al futuro. Breath of the Wild è qui ed è più bello che mai. È un titolo impressionante come lo era stato solo Super Mario 64. Ed è la cosa migliore capitata ai videogiochi dai tempi di Half-Life 2. Ho aspettato mesi per dirlo, ma ora è il momento di affermarlo con convinzione.
Che la Triforza ci protegga dalla follia dei nostri tempi.
Lunga vita a te, principessa Zelda!

martedì 19 settembre 2017

Thimbleweed Park

Sono nato nel bel mezzo degli anni Ottanta e, come molti miei coetanei, ho trascorso l'infanzia portandomi un Game Boy nello zaino e passando pomeriggi sulle console a 16 bit. Tuttavia non sono mai stato un grande giocatore PC, anche perché in casa mia un computer ci è arrivato solo verso la fine del 1995. Mi sono dunque perso gli anni d'oro della avventure grafiche LucasArts. Day of the Tentacle, Maniac Mansion, i Monkey Island, Indiana Jones and the Fate of Atlantis... tutti giochi di cui da bambino sentivo parlare, ma che ho avuto occasione di conoscere in modo approfondito solo qualche anno più tardi.

Su di me, di conseguenza, Thimbleweed Park non ha potuto contare sullo stesso deflagrante "effetto nostalgia" che immagino abbia investito come un treno carico di girelle i videogiocatori cresciuti a pane e SCUMM. Il nuovo gioco di Gary Winnick e Ron Gilbert, però, non è solo un omaggio a un passato che non c'è più. È un'avventura grafica che, ereditando le meccaniche e lo stile di titoli usciti più di vent'anni fa, riesce ad essere rilevante anche al giorno d'oggi.

Il gioco si svolge nel 1987 ed è un brillante incrocio tra un giallo dai toni sci-fi e una commedia.
Gli agenti federali Ray e Reyes arrivano nella contea di Thimbleweed Park per indagare su un omicidio. Nel corso delle indagini, oltre ai bizzarri abitanti della città, incontreranno Delores, un'aspirante programmatrice di videogiochi, e Ransome, un clown su cui la strega locale ha scagliato una maledizione. Infine verranno a conoscenza della scomparsa di Franklin, il padre di Delores, che a loro insaputa è stato assassinato ed è diventato un fantasma.

Controllando questi cinque personaggi giocabili (quattro viventi ed un'entità ectoplasmatica) bisognerà venire a capo del mistero che avvolge la cittadina, destreggiandosi tra enigmi intricati e dialoghi surreali.
La storia, raccontata in modo divertente e divertito, scorre che è un piacere. È impossibile non lasciarsi sedurre dall'atmosfera e dai toni sopra le righe di un titolo che riesce a risultare coinvolgente senza mai prendersi sul serio. Il merito è anche da attribuire alla straordinaria traduzione italiana, che mantiene intatta la freschezza e la genialità della scrittura di Gilbert (SPOILER: al punto in cui Franklin deve cercare di ottenere un oggetto esprimendosi come un paninaro stavo morendo).

Certo, bisogna venire a patti con una struttura ludica che a molti potrebbe apparire eccessivamente complicata e anacronistica. L'interfaccia è presa di peso dalle storiche avventure grafiche Lucas e la difficoltà degli enigmi è spesso calibrata verso l'alto. Non sempre risulta chiaro cosa fare per procedere nella storia e i giocatori meno avvezzi alle meccaniche dei vecchi punta e clicca avranno inevitabilmente qualche problema a venire a capo di situazioni che richiedono materia grigia e una certa capacità di pensiero laterale. Fortunatamente Thimbleweed Park non si fa problemi a fornire un efficace sistema di aiuti e, addirittura, una modalità Casual che riduce i passaggi necessari per risolvere determinati enigmi, dando alla narrazione un ritmo decisamente più rapido. Lo scotto da pagare è che, giocando a questo livello di difficoltà, alcune aree non saranno accessibili, quindi molte chicche che il titolo ha da offrire andranno perse.

Thimbleweed Park è un atto d'amore ai classici del suo genere ed è un gioco scritto e creato da chi, quel genere, lo ha reso grande.
Stiamo parlando di una delle migliori avventure uscite negli ultimi anni, un'avventura che sarebbe ingiusto liquidare come "ottima operazione nostalgia". Il titolo di Ron Gilbert è prima di tutto una gran bella storia che funziona così bene perché è raccontata nel modo migliore in cui poteva essere narrata: vale a dire attraverso quella stessa struttura di gioco che ha contribuito a rendere eterni i capolavori LucasArts. Quel gameplay che in apparenza sembra una strizzatina d'occhio nostalgica è in realtà parte integrante di una straordinaria narrazione apprezzabile anche da chi, come me, quell'epoca di grandi avventure l'ha vissuta solo grazie al retrogaming.

Note conclusive:
- Ho giocato Thimbleweed Park su PS4, portandolo a termine due volte: la prima in modalità Casual e la seconda in modalità Hard. Mi sono divertito come un matto e ho sbloccato tutti i trofei. Il sistema di controllo tramite Dual Shock 4 è comodo e non fa rimpiangere mouse e tastiera.
- Vestire i panni del clown Ransome mi ha fatto pensare che sarebbe fantastico giocare un'avventura grafica (o al limite un'esperienza cinematografica alla Life is Strange) basata su It. Qualcuno che non sia Telltale me la sviluppi, grazie.