martedì 26 settembre 2017

It's dangerous to go alone. Una leggenda, una principessa, un eroe

Sono passati alcuni mesi dall’uscita di The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Dopo averlo giocato e sviscerato a fondo, è arrivato il momento di parlarne, anche se molto è già stato scritto da altri. Ho aspettato a dire la mia perché l’opinione su un gioco del genere andava lasciata sedimentare, in modo da non risultare viziata da entusiasmi “di pancia”. Questo Zelda, essendo un vero e proprio titolo spartiacque tra tutto ciò che è venuto prima e tutto ciò che è destinato a venire dopo, si meritava una riflessione lucida e distaccata, non un commento scritto a caldo sull’onda dell’emotività.

Per parlare di Breath of the Wild bisogna partire da Ocarina of Time.
Arrivato verso la fine del 1998, “Zelda 64" segnò il passaggio della serie dal 2D al 3D. La sua portata rivoluzionaria non fu paragonabile a quella che Super Mario 64 ebbe nei confronti dei platform (e del videogioco tutto), ma Ocarina riuscì comunque a traslare alle tre dimensioni la struttura ludica di A Link to the Past in modo indolore, introducendo meccaniche che sarebbero diventate la norma per molti titoli usciti da lì in avanti (pensiamo banalmente alla Z-targeting). Si trattava di un gioco impressionante, che colpiva per la complessità dei suoi dungeon e per il senso di meraviglia che il microcosmo di Hyrule riusciva a trasmettere. A rivederlo con gli occhi di oggi, soprattutto dopo la maestosità di Breath of the Wild, Ocarina mette quasi tenerezza nella sua essenzialità anni Novanta; ma all’epoca nulla superava la sua atmosfera, fiabesca quando indossavamo i panni di Link bambino, apocalittica nelle vesti di Link adulto.

Dopo il grande salto generazionale rappresentato da Ocarina of Time, Nintendo cercò di evolvere The Legend of Zelda nei modi più disparati. Spesso in direzioni originali, andando controcorrente rispetto alle aspettative dei videogiocatori. Persino Twilight Princess, che in un certo senso rappresentava l’anima più reazionaria della saga (fu presentato all’E3 2004 con un trailer che aveva la colonna sonora di Conan il barbaro in sottofondo), propose sezioni di gioco anomale in cui Link si trasformava in un lupo.
Majora’s Mask, che a prima vista poteva essere scambiato per un more of the same di Ocarina, era in realtà un gioco folle, con una struttura ludica basata sul concetto di loop temporale.
Allo Space World 2001, invece, la presentazione di The Wind Waker fu spiazzante. Ci si aspettava una sorta di “Dark Zelda” che traghettasse verso il realismo lo stile visivo di Ocarina e Majora, invece Nintendo se ne uscì con “Celda”: uno titolo realizzato in cel-shading, che sembrava quasi un cartone animato di Miyazaki. Uno Zelda che oggi, proprio in virtù di questo suo stile grafico peculiare, resta ancora bellissimo da vedere. E The Wind Waker continuò a mescolare le carte in tavola anche oltre il mero aspetto visivo, sostituendo le pianure di Hyrule con un oceano navigabile.
La volontà di proporre qualcosa di nuovo si percepiva anche in Skyward Sword, che tentava di rendere più sfumato il confine tra dungeon ed overworld, e nelle trovate di alcuni episodi portatili, su tutti A Link Between Worlds (di cui parleremo tra poco).

The Legend of Zelda, tuttavia, nel dopo Ocarina ha sempre approcciato il cambiamento in modo estremamente prudente, rimanendo fedele a quelli che, fino a Breath of the Wild, erano i canoni della serie. Certo, si modificava l’approccio, si proponevano dinamiche nuove, ogni tanto si giocherellava con il sistema di controllo (sensori di movimento su Wii e touch screen su DS), ma Zelda rimaneva sempre ancorato a un certo tradizionalismo di fondo. Ogni tanto, poi, qualche magagna faceva capolino e macchiava titoli altrimenti memorabili. Il mare di The Wind Waker, per quanto poetico, dava luogo a lunghe traversate che rompevano il ritmo del gioco nella sua seconda metà. Skyward Sword aveva invece le sezioni stealth nel Silent Realm, che alla lunga potevano diventare tediose e ripetitive.
Per molti anni Zelda è stata una serie di qualità sopraffina che, pur sperimentando e pasticciando con la propria struttura in ogni sua nuova iterazione, sembrava faticare a capire quale strada prendere per tornare a sconvolgere i videogiocatori. Qualcuno, addirittura, auspicava che la saga seguisse il destino di Metroid e finisse nelle mani di Retro Studios. Inizialmente persino le dichiarazioni di Aonuma su Breath of the Wild furono prese con cautela da pubblico e critica.

Dopo anni di attesa, durante i quali il gioco è stato rinviato più volte, perdendo l’esclusività Wii U e diventando il secondo Zelda cross-generazionale (il primo fu Twilight Princess), Breath of the Wild è finalmente uscito, accompagnando il lancio di Switch e riuscendo finalmente a stravolgere la serie a cui appartiene.
Nintendo ce l’ha fatta: Zelda è cambiato. È diventato più grande, più attuale e più epico, restando comunque coerente con la propria natura. Anzi, forse questa sua nuova forma lo avvicina ancora di più alla filosofia del primo titolo della saga e all’idea che nel 1986 ispirò Shigeru Miyamoto: far provare ai giocatori le stesse sensazioni che provava lui quando, da bambino, esplorava i boschi, i campi e le grotte nei dintorni di Kyoto.

Le radici del cambiamento rappresentato da Breath of the Wild affondano nello splendido A Link Between Worlds, uno Zelda portatile che, pur essendo legato a doppio filo allo storico episodio per Super Nintendo (di cui è il seguito), potrebbe essere scambiato facilmente per un titolo minore e di scarse pretese. Nulla di più sbagliato. Uscito su 3DS alla fine del 2013, A Link Beteen Worlds proponeva infatti la grande novità della progressione non lineare. Tutti gli oggetti erano disponibili praticamente dall’inizio dell’avventura e il giocatore poteva scegliere in quale ordine affrontare i dungeon.
Ebbene, la caratteristica più peculiare di Breath of the Wild è proprio la libertà di approccio.
Fin dalle fasi iniziali del gioco, Link è lasciato senza vincoli. Certo, nelle prime ore siamo bloccati sull’Altopiano delle Origini, ma questa sezione introduttiva che fa da “tutorial” ci lascia già assaporare in scala ridotta la spaventosa libertà di cui godremo nel resto del titolo. E in effetti, utilizzando un minimo di ingegno, esiste addirittura la possibilità di abbandonare l’Altopiano prima del tempo.
In Breath of the Wild l’intero regno di Hyule è quindi liberamente esplorabile quasi da subito: niente confini invalicabili, solo ostacoli naturali che possono essere superati o, al limite, aggirati. Questo è ufficialmente il primo Zelda “No Border”. Possiamo andare dove vogliamo e fare quello che vogliamo, basta saper cogliere le possibilità che il gioco ci mette a disposizione. Vogliamo scalare un ghiacciaio senza vestiti pesanti? Raccogliamo dei peperoncini, prepariamo una pietanza che ci protegga dal freddo e partiamo. Vogliamo sfidare nemici particolarmente potenti? Possiamo lanciarci allo sbaraglio, oppure cercare dei Cuoranelli e cucinarli con della carne, ottenendo una grigliata che aumenti i cuori a nostra disposizione. A nostro rischio e pericolo, è persino possibile andare direttamente da Ganon e affrontarlo. Ma in fondo che senso ha correre verso la fine dritti come fusi, quando c’è un mondo così vasto da esplorare?

Di videogiochi open world, in questo ultimo decennio, ne abbiamo visti un’infinità. Il free roaming è stato declinato in ogni salsa, in giochi capaci spesso di sfiorare l’eccellenza. Basterebbe fare i nomi di GTA V, Red Dead Redemption e The Witcher 3: Wild Hunt. Ma sono molti altri, in realtà, i titoli che ci hanno regalato mondi vastissimi in cui è stato divertente perdersi. Pensiamo per esempio allo spettacolare Just Cause 2: girare per Panau con rampino e parapendio, facendo esplodere qualunque cosa ci capitasse a tiro, era un autentico spasso.
Nintendo ha sostanzialmente preso tutte le caratteristiche migliori degli open world di scuola occidentale e le ha utilizzate per realizzare uno Zelda. Il risultato è un gioco vasto come un titolo Rockstar in cui il mondo è denso di cosa da fare come quello di Ocarina of Time. Questa è la misura della cura con cui è stato realizzato Breath of the Wild e di ciò che ha da offrire in termini di gameplay.
In questa Hyrule non ci si annoia mai. Non c’è mai un punto morto e non si trova mai una zona della mappa che sia vuota. C’è sempre una quest dietro l’angolo, un seme Korogu da raccogliere, un enigma da risolvere. È un gioco in cui, come accade soltanto nei migliori titoli Nintendo (Mario 64 insegna), è divertente anche solo andare a zonzo senza una meta, perché puntualmente si trova qualcosa che attira la nostra attenzione e finisce per tenerci incollati alla console per un’altra ora.

Attraversare questo regno funestato dalla Calamità Ganon è così piacevole anche grazie alla presenza della paravela e alla possibilità di scalare qualsiasi superficie. Scalata e paravela, esattamente come la combinazione di rampino e parapendio del citato Just Cause 2, esaltano la verticalità degli ambienti. Arrampicarsi sulla cima di una torre Sheikah e planare dolcemente verso il luccichio arancione di un sacrario è un’operazione che viene ripetuta più volte nel corso delle ore di gioco, ma che tuttavia lascia sempre col fiato mozzato. Ed è strano, perché in fondo non si tratta di qualcosa di così diverso dal celebre leap of faith proposto negli Assassin’s Creed (altro open world occidentale). Qui però a fare la differenza è il game design Nintendo che, in una perfetta alchimia tra meccaniche di gioco e direzione artistica, riesce a rendere appagante qualsiasi nostra azione, in modi che altri sviluppatori si sognano.

Un'altra caratteristica che rende il mondo di Breath of the Wild così vivo e verosimile è la straordinaria implementazione della fisica. Sembrerà un’esagerazione, ma in realtà non è tanto campato per aria affermare che questo Zelda potrebbe tranquillamente chiamarsi Half-Life 3.
Half-Life 2 rivoluzionava i videogiochi grazie ad un motore fisico che portava l’interazione con gli ambienti di gioco a livelli mai sperimentati prima. Breath of the Wild non ha ovviamente il medesimo impatto, ma è la prima volta che, in un mondo open world così vasto, è possibile interagire in maniera tanto profonda con quello che ci circonda. Ciò, come è ovvio, si riflette nel modo in cui risolviamo gli enigmi, affrontiamo i nemici o, più semplicemente, ci spostiamo. Spesso il gioco consente approcci diversi, lasciando totale libertà all’inventiva del giocatore ed incoraggiando le soluzioni creative. Vogliamo attivare un interruttore creando un circuito artigianale? Prego, appoggiamo i nostri oggetti di metallo sul pavimento e mettiamoli in fila in modo che conducano energia elettrica!
In effetti all’elettricità è meglio stare attenti anche quando si scorrazza per le valli di Hyrule. In caso di temporale, infatti, spade e armature possono attirare pericolosi fulmini.
Anche le condizioni meteorologiche, ovviamente, influiscono sul gameplay. Arrampicarsi su una parete di roccia resa scivolosa dalla pioggia non è affatto semplice. Come ho accennato prima, poi, Link è sensibile al caldo, al sole e al freddo. I numerosi vestiti presenti nel gioco non sono solo un vezzo estetico, ma risultano necessari per sopravvivere alle temperature rigide del monte Ranel o al clima sahariano del deserto Gerudo. Certo, si può correre ai ripari preparando pozioni e cibi particolari (che tuttavia offrono un tempo di protezione limitato), ma questa meccanica degli abiti che vanno continuamente avvicendati porta a quello che, forse, è il cambiamento più evidente di Breath of the Wild: Link non è più legato alla sua classica tunica da Peter Pan.

Questo, tra le altre cose, è di sicuro lo Zelda in cui si passa più tempo all’aria aperta, esposti alle intemperie. Il motivo è molto semplice: non esistono più i dungeon. È vero, ora ci sono i Colossi Sacri, ma è innegabile che queste titaniche macchine create dagli Sheikah non siano paragonabili ai labirinti dei precedenti episodi della serie, che rappresentavano a tutti gli effetti il cuore di quei vecchi giochi. Qui i colossi svolgono un ruolo centrale nella storia, ma sono solo una piccola parte di quello che il titolo ha da offrire.
Breath of the Wild sposta definitivamente il focus della saga dai dungeon all’overworld, ma non bisogna credere che il numero di enigmi sia drasticamente diminuito rispetto al passato. Sparsi per Hyrule ci sono infatti i sacrari, che vanno trovati e completati per ottenere gli Emblemi dell’Eroe, utili ad aumentare il numero di cuori o ad aggiungere una tacca alla barra del vigore.
I sacrari propongono sfide estremamente diversificate: si va dalle sezioni di combattimento contro i Guardiani a piccole stanze contenenti puzzle da risolvere utilizzando i poteri della tavoletta Sheikah. Queste stanze, per filosofia e atmosfera, mi hanno ricordato tantissimo quel capolavoro di Portal. Ma non è finita qui, perché spesso trovare a un sacrario è una sfida nella sfida. Alcuni di essi sono ben nascosti in aree di gioco difficili da raggiungere, altri invece richiedono la risoluzione di complesse quest per essere attivati e diventare così accessibili. È il caso, per citare l’esempio più famoso, del sacrario di Korgu Chideh, che si trova su un’isola dove, privati di tutti i nostri oggetti, ci troviamo catapultati in una missione di sopravvivenza.

Probabilmente l’unico aspetto negativo dei numerosissimi sacrari è la loro monotonia dal punto di vista estetico. Questi luoghi, che nella mitologia di Zelda sono degli appositi templi creati dagli Sheikah per addestrare l’Eroe, visivamente finiscono per assomigliarsi un po’ tutti, poiché propongono ogni volta il medesimo stile architettonico. Nulla di grave, capiamoci, ma è inevitabile che questa mancanza di varietà, dopo qualche ora di gioco, si faccia sentire. Per altro anche i Colossi Sacri soffrono dello stesso problema. In Ocarina of Time il Water Temple era diversissimo dal Forest Temple, qui invece è difficilotto distinguere dall'interno un Vah Ruta da un Vah Naboris, almeno ad una prima occhiata.

Breath of the Wild, per quanto eccezionale in ogni suo aspetto, non è esente da difetti. Poche carenze, su cui si potrebbe tranquillamente sorvolare, perché non è detto siano fastidiose per tutti i videogiocatori. Ma è importante evidenziarle, anche solo per capire in cosa Zelda potrebbe migliorare nei prossimi episodi.
I Colossi Sacri, ad esempio, per quanto siano stati una scelta coraggiosa, non sono divertenti quanto i vecchi dungeon. Personalmente li ho trovati soltanto una versione “allungata” dei sacrari e, a distanza di mesi, posso facilmente identificarli come le sezioni meno appaganti di questo gioco. Voglio precisare, non mi sto riferendo alla loro funzione nella storia (anzi, da quel punto di vista mi sono piaciuti un mondo, così come i loro Campioni), parlo proprio di ciò che mi hanno offerto in termini di gameplay. L’eredità dei vecchi labirinti è un aspetto su cui sicuramente Nintendo può lavorare.
Ho trovato invece di poco conto alcuni dei difetti di cui si sono lamentati altri giocatori. La meccanica di usura delle armi, per quanto inizialmente noiosa ed invasiva come evidenziato da molti, spinge a sperimentare, a provare tutti gli strumenti che i nemici sconfitti abbandonano a terra. In questa maniera il sistema di combattimento ne guadagna in strategia e varietà, pur pagando il prezzo di qualche leggero calo di ritmo. Già più scomodo, invece, l’inventario, così come il sistema di preparazione del cibo. Cucinare è un’operazione che diventa presto monotona e probabilmente non sarebbe stato male avere un ricettario che tenesse nota delle ricette già scoperte. Anche qui, comunque, più che di difetti che compromettono la qualità del gioco si parla di elementi che, con qualche accorgimento (soprattutto a livello di interfaccia), potevano essere più dinamici.

Si è detto infine che questa Zelda, paradossalmente il primo capitolo della saga con dialoghi doppiati, possiede carenze sul piano narrativo.
Se Skyward Sword era stato criticato per una narrazione fin troppo logorroica, Breath of the Wild è andato incontro a critiche opposte: un titolo eccellente da giocare, in cui però la storia è relegata in secondo piano e viene raccontata con superficialità.
Non sono assolutamente d’accordo.
The Legend of Zelda: Breath of the Wild è un gran bel racconto fantasy in cui la narrazione procede con grande eleganza, amalgamandosi perfettamente con il gameplay. Come è sempre accaduto nei migliori capitoli della serie (da A Link to the Past ad Ocarina), siamo noi giocatori a costruire l'avventura di Link vivendo il suo viaggio. La vicenda che fa da antefatto al gioco viene raccontata con brevi ma incisivi flashback, che riescono a delineare la storia di questa versione del regno di Hyrule con grande potenza. Per una volta, anche l’escamotage narrativo del protagonista che perde la memoria viene sfruttato in maniera intelligente e contribuisce a rendere ancora più intensa l’atmosfera del gioco. Quando Link si sveglia e l’avventura inizia, noi non sappiamo nulla del mondo che ci circonda. Le prime ore che passiamo sull’Altopiano delle Origini sono caratterizzate da una sensazione di straniamento e di mistero che pochi giochi riescono a restituire. Persino l’idea di risvegliare i ricordi sopiti dell'eroe visitando determinati luoghi è geniale nella sua semplicità, poiché è un ulteriore incentivo all’esplorazione. La storia di Breath of the Wild è, se vogliamo, essenziale, ma attraverso poche e decise pennellate, senza mai spezzare la giocabilità, dipinge una delle Hyrule più affascinanti di sempre.
La stessa caratterizzazione della principessa Zelda è memorabile.
Nintendo ha sempre cercato di stratificare il personaggio femminile che dà il nome alla serie, elaborando la figura letteraria della fanciulla in pericolo. Questo probabilmente è il gioco in cui tale figura viene riletta meglio: Zelda appare inizialmente come un’adolescente insicura, che vive un rapporto difficile con suo padre e si sente inadeguata al compito di affrontare le tenebre che minacciano il suo regno. Tuttavia non si arrende. Cerca infatti di studiare un modo per sconfiggere Ganon recuperando l’antica tecnologia della civiltà Sheikah. Quando il suo nemico riesce inaspettatamente a sconfiggere i Campioni e a prendere il controllo delle macchine ancestrali, Zelda lo fronteggia e, da sola, riesce a contenerlo per cento anni all’interno del castello di Hyrule, mentre Link è in coma all’interno del sacrario della rinascita.
Il ruolo di Zelda è dunque decisivo. La giovane principessa si dimostra un personaggio umano sia nelle proprie debolezze che nella propria determinazione. È un’eroina tutt’altro che passiva allo svolgersi degli eventi.

Breath of the Wild, insomma, non sacrifica la narrazione sull’altare del gameplay. Al contrario prova a dosarla, per renderla quanto più possibile coesa con il proprio impianto ludico.
Il risultato è un gioco epico che, come accennato, nelle fasi iniziali è quasi spaesante. È in questo aspetto che Breath of the Wild ripropone con maggiore fedeltà quella che era l’atmosfera di The Legend of Zelda per NES. Anche lì Hyrule era un luogo misterioso, che trasmetteva uno strano senso di inquietudine. Qui accade lo stesso. Viaggiamo attraverso un regno colorato, dalla natura rigogliosa e popolato da creature buffe che contrappongono il loro aspetto cartoon al realismo degli scenari; tuttavia percepiamo una minaccia costante, che si acuisce mano a mano che ci avviciniamo al castello in cui Ganon è confinato e vediamo i segni sempre più evidenti della distruzione.
C’è un che dei Grandi Antichi di Lovecraft nella caratterizzazione della storica nemesi di Link e Zelda. Anche qui, per certi versi, torniamo alle origini della serie: il Ganon di Breath of the Wild è un'entità mostruosa che ci viene presentata immediatamente come una calamità. Una forza di male assoluto totalmente disumanizzata, lontana anni luce sia dal guerriero Gerudo dell’incipit di Ocarina of Time che dal villain quasi shakespeariano dell'epilogo di The Wind Waker. Incontriamo questa incarnazione di odio e rancore solo alla fine del gioco, ma ne percepiamo la presenza per tutta l’avventura.
Entrando nel castello di Hyrule (il cui level design sarebbe in effetti un ottimo punto di partenza per quella che potrebbe essere l’evoluzione dei dungeon), sperimentiamo insieme a Link lo stesso terrore che avevano fronteggiato i Perdenti entrando nella tana di It, la stessa angoscia che attanagliava Frodo davanti ai cancelli di Mordor.

Questo episodio di Zelda si dimostra un degno erede del capostipite della saga anche per quanto concerne il livello di sfida. Non è ovviamente altrettanto ostico, ma la libertà di esplorazione che concede può spesso portare il giocatore sprovveduto di fronte a situazioni troppo ardue per le sue capacità. Combattere contro un Lynel è un’esperienza traumatica anche dopo molte ore di gioco. La difficoltà stessa dei boss varia parecchio in base a quanto sia stato potenziato il nostro Link. Nei primi giorni dopo l’uscita del titolo sono fioccati addirittura i paragoni con Dark Souls, ma onestamente mi sembra un accostamento azzardato: semplicemente, questo Zelda lascia al giocatore molta libertà, permettendogli di commettere errori e di sbattere la testa. Non è un soulslike, è solo un gioco che non ci prende per mano, concedendoci di scoprire le cose da soli. Un gioco alla portata di tutti che, a seconda di come viene affrontato, può rivelare picchi di difficoltà inaspettati.

Nintendo ha saputo dunque cambiare Zelda e ci è riuscita seguendo due strade.
La prima via l’ha portata a prendere ispirazione dagli open world occidentali, pescando idee di giochi belli ma imperfetti (spesso esageratamente bistrattati?) e sviluppandole per creare un capolavoro senza sbavature. Da qui non si tornerà indietro, perché chiunque, in futuro, dovrà fare i conti con la vastità, l’opulenza ludica e il valore artistico di Breath of the Wild, tenendolo come metro di paragone.
La seconda strada ha portato invece Nintendo a guardare alle proprie spalle, riprendendo la filosofia del gioco di avventura che era il primo titolo per NES ed adattandola alle caratteristiche del videogioco moderno.
Resta ora da capire in quale direzione potranno andare i prossimi titoli della serie. Fare previsioni non serve perché, come abbiamo visto, già in passato la grande N è stata capace di spiazzarci.
E in fondo, per una volta, non sentiamo nemmeno il bisogno di guardare al futuro. Breath of the Wild è qui ed è più bello che mai. È un titolo impressionante come lo era stato solo Super Mario 64. Ed è la cosa migliore capitata ai videogiochi dai tempi di Half-Life 2. Ho aspettato mesi per dirlo, ma ora è il momento di affermarlo con convinzione.
Che la Triforza ci protegga dalla follia dei nostri tempi.
Lunga vita a te, principessa Zelda!

martedì 19 settembre 2017

Thimbleweed Park

Sono nato nel bel mezzo degli anni Ottanta e, come molti miei coetanei, ho trascorso l'infanzia portandomi un Game Boy nello zaino e passando pomeriggi sulle console a 16 bit. Tuttavia non sono mai stato un grande giocatore PC, anche perché in casa mia un computer ci è arrivato solo verso la fine del 1995. Mi sono dunque perso gli anni d'oro della avventure grafiche LucasArts. Day of the Tentacle, Maniac Mansion, i Monkey Island, Indiana Jones and the Fate of Atlantis... tutti giochi di cui da bambino sentivo parlare, ma che ho avuto occasione di conoscere in modo approfondito solo qualche anno più tardi.

Su di me, di conseguenza, Thimbleweed Park non ha potuto contare sullo stesso deflagrante "effetto nostalgia" che immagino abbia investito come un treno carico di girelle i videogiocatori cresciuti a pane e SCUMM. Il nuovo gioco di Gary Winnick e Ron Gilbert, però, non è solo un omaggio a un passato che non c'è più. È un'avventura grafica che, ereditando le meccaniche e lo stile di titoli usciti più di vent'anni fa, riesce ad essere rilevante anche al giorno d'oggi.

Il gioco si svolge nel 1987 ed è un brillante incrocio tra un giallo dai toni sci-fi e una commedia.
Gli agenti federali Ray e Reyes arrivano nella contea di Thimbleweed Park per indagare su un omicidio. Nel corso delle indagini, oltre ai bizzarri abitanti della città, incontreranno Delores, un'aspirante programmatrice di videogiochi, e Ransome, un clown su cui la strega locale ha scagliato una maledizione. Infine verranno a conoscenza della scomparsa di Franklin, il padre di Delores, che a loro insaputa è stato assassinato ed è diventato un fantasma.

Controllando questi cinque personaggi giocabili (quattro viventi ed un'entità ectoplasmatica) bisognerà venire a capo del mistero che avvolge la cittadina, destreggiandosi tra enigmi intricati e dialoghi surreali.
La storia, raccontata in modo divertente e divertito, scorre che è un piacere. È impossibile non lasciarsi sedurre dall'atmosfera e dai toni sopra le righe di un titolo che riesce a risultare coinvolgente senza mai prendersi sul serio. Il merito è anche da attribuire alla straordinaria traduzione italiana, che mantiene intatta la freschezza e la genialità della scrittura di Gilbert (SPOILER: al punto in cui Franklin deve cercare di ottenere un oggetto esprimendosi come un paninaro stavo morendo).

Certo, bisogna venire a patti con una struttura ludica che a molti potrebbe apparire eccessivamente complicata e anacronistica. L'interfaccia è presa di peso dalle storiche avventure grafiche Lucas e la difficoltà degli enigmi è spesso calibrata verso l'alto. Non sempre risulta chiaro cosa fare per procedere nella storia e i giocatori meno avvezzi alle meccaniche dei vecchi punta e clicca avranno inevitabilmente qualche problema a venire a capo di situazioni che richiedono materia grigia e una certa capacità di pensiero laterale. Fortunatamente Thimbleweed Park non si fa problemi a fornire un efficace sistema di aiuti e, addirittura, una modalità Casual che riduce i passaggi necessari per risolvere determinati enigmi, dando alla narrazione un ritmo decisamente più rapido. Lo scotto da pagare è che, giocando a questo livello di difficoltà, alcune aree non saranno accessibili, quindi molte chicche che il titolo ha da offrire andranno perse.

Thimbleweed Park è un atto d'amore ai classici del suo genere ed è un gioco scritto e creato da chi, quel genere, lo ha reso grande.
Stiamo parlando di una delle migliori avventure uscite negli ultimi anni, un'avventura che sarebbe ingiusto liquidare come "ottima operazione nostalgia". Il titolo di Ron Gilbert è prima di tutto una gran bella storia che funziona così bene perché è raccontata nel modo migliore in cui poteva essere narrata: vale a dire attraverso quella stessa struttura di gioco che ha contribuito a rendere eterni i capolavori LucasArts. Quel gameplay che in apparenza sembra una strizzatina d'occhio nostalgica è in realtà parte integrante di una straordinaria narrazione apprezzabile anche da chi, come me, quell'epoca di grandi avventure l'ha vissuta solo grazie al retrogaming.

Note conclusive:
- Ho giocato Thimbleweed Park su PS4, portandolo a termine due volte: la prima in modalità Casual e la seconda in modalità Hard. Mi sono divertito come un matto e ho sbloccato tutti i trofei. Il sistema di controllo tramite Dual Shock 4 è comodo e non fa rimpiangere mouse e tastiera.
- Vestire i panni del clown Ransome mi ha fatto pensare che sarebbe fantastico giocare un'avventura grafica (o al limite un'esperienza cinematografica alla Life is Strange) basata su It. Qualcuno che non sia Telltale me la sviluppi, grazie.

lunedì 26 giugno 2017

ARMS


ARMS è uno dei titoli più chiacchierati di questi ultimi mesi. Normale che una nuova IP della casa di Kyoto desti clamore e curiosità, ma qui la faccenda è forse anche più interessante del solito.
Picchiaduro singolare in cui i lottatori sono dotati di braccia allungabili, ARMS pone una forte enfasi sulla propria componente online, evidenziando, come già aveva fatto Splatoon, l'attenzione della grande N per la scena degli eSport. Come primo gioco hardcore pensato e sviluppato con in mente le caratteristiche di Switch, rappresenta anche un banco di prova importante per una console che, pur avendoci già dato diverse soddisfazioni, ha finora fatto un po' troppo affidamento sui porting (lo stesso Breath of the Wild è pur sempre un titolo uscito anche su Wii U).

ARMS, come tutti i migliori giochi Nintendo, colpisce immediatamente per la sua veste grafica incredibilmente azzeccata. È un beat 'em up stilosissimo e allegro, che investe il giocatore con i suoi colori accesi e la sua direzione artistica di gran classe. Viene facile innamorarsi di un character design che ispira da subito simpatia, proponendoci personaggi bizzarri e dai tratti ben riconoscibili (colpo di genio le braccia "a DNA" di Helix, un tuffo al cuore i capelli bayonettosi di Twintelle).
Gradevoli anche le arene, essenziali ma funzionali al gameplay.


Come si diceva, ARMS è un gioco ideato per sfruttare le caratteristiche del nuovo hardware Nintendo, di conseguenza propone svariati sistemi di controllo: nella mia prova sono passato senza soluzione di continuità dal motion control con i due Joy-Con in ciascuna mano alla modalità portatile con i controller inseriti nella console. Premettendo che usando i tasti si guadagna qualcosa in precisione, mi sono trovato bene in entrambi i casi (al netto di alcune cose che mi piacciono poco, come l'esecuzione della parata, che risulta scomoda sia tramite la pressione dello stick analogico sinistro, sia utilizzando i sensori di movimento).

In ogni caso, a prescindere dal modo in cui si sceglie di giocare, ARMS è un picchiaduro molto più tecnico di quanto ci si potrebbe aspettare. Prendere dimestichezza con il sistema di combattimento ideato da Nintendo non sarà affatto una passeggiata. Ci vorrà del tempo per diventare bravi e padroneggiare in modo accettabile i vari personaggi: in ARMS è importante saper saltare, parare e schivare, non solo tirar cazzotti. Menare le mani, comunque, richiede qui un minimo di impegno tattico: la capacità di dare un effetto ai pugni dà spesso luogo a combattimenti tesi e ragionati in cui è importantissimo studiare i movimenti dell'avversario e capire in che modo anticiparlo.
Il gioco, inoltre, prevede diverse variabili. In fondo stiamo parlando dell'ultima follia partorita da Nintendo, non di un qualsiasi titolo di boxe.


Ognuno dei personaggi selezionabili possiede determinate peculiarità. Ribbon Girl, ad esempio, può eseguire un doppio salto; Master Mummy compensa la lentezza con la resistenza e la capacità di rigenerare la propria salute mentre tiene la guardia alzata; Twintelle è in grado di rallentare i colpi dei nemici. Cambiando lottatore, dunque, anche il gameplay varia in modo tutt'altro che marginale.

Non si combatte usando solo guantoni. Vi sono diversi tipi di armi che modificano anche radicalmente gli attacchi: teste di drago che sputano raggi infuocati, missili, martelli, boomerang e tante altre chincaglierie offensive che, in virtù delle loro differenze balistiche, si rivelano più o meno adatte al nostro stile di combattimento.
Le armi possono essere sbloccate con la valuta del gioco e utilizzate per personalizzare il nostro lottatore a seconda delle esigenze: è infatti possibile combinarle tra loro, mettendo ad esempio un guantone nella mano sinistra e un serpente frusta in quella destra.
Infine, utilizzando la parata o tenendo premuto il tasto della schivata, i pugni possono essere caricati con un effetto elementale che ne incrementerà i danni.

Imparare a gestire tutto questo, districandosi anche tra super combo, proiezioni ed item che compaiono sul campo di battaglia, richiederà impegno e allenamento.


Per prendere la mano con un gameplay tanto originale sarebbe stato il massimo avere a disposizione un single player massiccio e ricco di contenuti.
ARMS è però abbastanza spoglio da questo punto di vista, dato che propone solo incontri versus e il classico Arcade Mode, che qui viene chiamato Gran Torneo e, nel tentativo di offrire un po' di varietà, alterna scontri uno contro uno ad alcuni minigiochi (versioni a tema di pallavolo, basket e tiro a segno).
Questo Gran Torneo è senza dubbio una modalità importante, se non altro perché richiede di essere completato con almeno un personaggio al livello di difficoltà medio (il 4) per sbloccare le partite classificate online. Compito tutt'altro che facile, visto che il tasso di sfida è parecchio elevato.
Il lato positivo è che vi farete le ossa in vista degli incontri multiplayer ufficiali (in cui personalmente ho preso una marea di legnate).

È comunque possibile buttarsi nella mischia fin da subito grazie alle amichevoli. In queste, dopo essere entrati in una lobby con altri giocatori, potrete lanciarvi sul ring senza il bisogno di superare una fase di qualificazione offline, prendendo immediatamente parte a match classici e a minigiochi.
Nulla da segnalare sul netcode: un burro. Funziona tutto alla perfezione, non ho mai trovato lag e non sono mai incappato in disconnessioni fastidiose.

Nintendo, insomma, fa centro ancora una volta, mettendosi in gioco con una nuova IP a suo modo coraggiosa che, per fortuna, non delude le aspettative.
ARMS trasuda carisma da ogni texture e, soprattutto, è divertente e profondo.
Non è un titolo che si farà apprezzare da tutti, e qualche contenuto in più non avrebbe certo guastato il pacchetto, ma come esordio non c'è male.
Sarà fra l'altro interessante vedere in che modo il gioco verrà ampliato nei prossimi mesi, tramite aggiornamenti ed inevitabili DLC.

lunedì 19 giugno 2017

Farpoint

La realtà virtuale è riuscita a stupirmi e a convincermi sin dalla prima volta che ho indossato PlayStation VR e mi sono immerso negli scenari di Rez Infinite. Mi è risultato immediatamente chiaro che stavo sperimentando una tecnologia scomoda e acerba ma dalle potenzialità sconfinate; un'innovazione in grado di portare i videogiochi in territori inesplorati al prezzo di qualche limite tecnico, un po' come era accaduto quando si passò dagli sprite di SNES e Mega Drive ai poligoni delle console a 32 bit.

L'unico aspetto negativo di questi primi mesi di VR risiedeva nell'offerta limitata dei giochi disponibili. Offerta basata principalmente su esperienze interattive intense ma brevissime, parecchie demo tecniche e titoli dall'approccio arcade.
Intendiamoci, per me non è stato un grosso problema: ho goduto tantissimo calandomi nei panni dell'uomo pipistrello in Batman Arkham VR, da amante degli arcade frenetici mi sono divertito un mondo con Thumper e, da buon fanatico di Star Wars, ho rigiocato la missione VR di Battlefront una decina di volte. È tuttavia innegabile che la realtà virtuale fatichi ancora ad offrire esperienze di gioco capaci di competere con le maggiori produzioni tripla A e a solleticare i palati di chi vorrebbe indossare il visore e spararsi un GdR di duecento ore.
A risollevare la situazione ci ha pensato l'ottimo Resident Evil 7, anche se onestamente, dopo averlo provato in demo, non ho avuto il coraggio di calarmi fino in fondo nei suoi orrori e ho preferito giocarlo in modo classico.
Il mese scorso invece è arrivato Farpoint, con la sua ambientazione fantascientifica decisamente più alla portata delle mie coronarie rispetto alla villa dei Baker.

Il titolo sviluppato da Impulse Gear è il primo gioco a traghettare in modo convincente il genere degli sparatutto in prima persona su PlayStation VR.
A determinare la grandiosità di questo FPS è la periferica con cui viene venduto in bundle: l'Aim Controller è un fucile di plastica che funziona alla maniera di un Move e contribuisce da solo a rendere questo sparatutto un'esperienza indimenticabile che svetta su tutti gli altri titoli pensati per la realtà virtuale di casa Sony.

Volendolo analizzare come un gioco normale, Farpoint si rivela essere poco più che un on rail shooter. Ci si può spostare liberamente tramite stick analogico, certo, ma non c'è molto da fare oltre a muoversi lungo livelli "corridoio", sparando a tutto ciò che compare sullo schermo (anzi, sulle lenti). Il gioco Impulse Gear è uno sparatutto adrenalinico e senza fronzoli in cui bisogna tenere costantemente il dito sul grilletto e non c'è assolutamente spazio per enigmi o trovate di gameplay originali.
Descritto così, Farpoint sembrerebbe oggettivamente trascurabile, ma ci pensano appunto PlayStation VR ed Aim Controller a cambiare le carte in tavola: il senso di immersione garantito dall'utilizzo combinato di visore e light gun è qualcosa di eccezionale.

Tramite il filtro della realtà virtuale, il fucile di plastica nelle nostre mani si trasforma in un'arma uscita da un film di fantascienza; un'arma che ci possiamo rigirare davanti agli occhi, ammirandola in tutta la sua fisicità fittizia e in ogni suo dettaglio. È una sensazione incredibile che viene ulteriormente amplificata nel momento in cui esplode l'azione e la canna del nostro mitragliatore inizia a vomitare proiettili sulle creature aliene che cercano di farci la pelle. Possiamo avvicinare il fucile d'assalto al visore e mirare attraverso il puntatore olografico per avere più precisione, oppure gettarci nella mischia facendo esplodere insettoni con il nostro shotgun.

Pilotare un X-Wing nella missione VR di Battlefront era fantastico, ma alla fine ci ritrovavamo pur sempre con un DualShock 4 in mano. Qui invece l'Aim Controller ci restituisce davvero l'impressione di avere un'arma tra le braccia e, credetemi, questa cosa fa tutta la differenza del mondo.
Grazie alla sua periferica, Farpoint trascende la propria natura di sparatutto blando e povero di idee, diventando un videogioco assolutamente soddisfacente, sia come esperienza interattiva che come shooter. Impulse Gear ha confezionato infatti un titolo che, pur non brillando per longevità (la campagna dura cinque ore scarse), offre un gameplay solido, con sparatorie intense e un livello di sfida piuttosto interessante (le missioni finali vi faranno sudare). Le armi a disposizione del giocatore sono tutte divertenti da usare e ben differenziate tra loro, in modo da garantire una discreta libertà di approccio negli scontri a fuoco. Una buona varietà interessa anche i nemici, presenti in diverse tipologie e dimensioni. Peccato solo che la loro aggressività, probabilmente per venire incontro ai limiti intrinseci della VR, non sia mai eccessiva. Non è un dramma, perché la difficoltà è bilanciata con sapienza, dunque ci troveremo spesso ad affrontare situazioni concitate in cui dovremo mettere sotto torchio la nostra abilità di pistoleri spaziali; solo non verremo mai minacciati da pattern d'attacco particolarmente complessi o da un'intelligenza artificiale incredibilmente evoluta.

Anche sul piano narrativo le cose funzionano abbastanza: immaginate un Interstellar che incontra le battaglie di Starship Troopers e avrete idea di cosa aspettarvi. Forse, dato che comunque si parla di un gioco ignorantone in cui non si fa altro che maciullare alieni, avrei gradito una storia che si prendesse meno sul serio, ma alla fine va benissimo anche così; la vicenda è ben raccontata e si lascia seguire con piacere, senza mai venire a noia.

Farpoint è un graditissimo esperimento che, basandosi su un concept di gameplay rodato, evidenzia la forza latente della realtà virtuale. È senza ombra di dubbio il titolo PlayStation VR più convincente sia dal punto di vista grafico che da quello del sistema di controllo. L'Aim Controller è infatti un'ottima periferica che, si spera, verrà sfruttata da molti altri titoli, magari anche più ambiziosi in termini di meccaniche.
Nel frattempo, comunque, abbiamo già un bello sparatutto che viene esaltato da questo giocattolone di plastica. Credetemi, guardandovi intorno imbracciando un'arma futuristica e posando gli occhi sulla vostra ombra proiettata sulla superficie di un pianeta alieno, la linearità di Farpoint passerà immediatamente in secondo piano. 

giovedì 8 giugno 2017

Tekken 7

Quella di Tekken è una saga capace di scatenare un effetto nostalgia devastante in qualsiasi giocatore che abbia superato la soglia dei trent'anni. I primi tre episodi, usciti inizialmente nelle sale giochi e poi convertiti su PlayStation, segnarono gli anni d'oro della console a 32 bit Sony, diventandone giochi simbolo insieme ai vari Final Fantasy VII, Metal Gear Solid e Ridge Racer.
PlayStation 2 fece il suo esordio annoverando Tekken Tag Tournament tra i titoli di lancio (ah, le discussioni sulle scalette), continuando poi con Tekken 4 e con l'ottimo Tekken 5, probabilmente il titolo della serie a cui ho giocato di più insieme a Tekken 3.
Fu poi la volta di PSP, che ospitò una sorprendente conversione di Tekken 5 Dark Resurrection. Quest'ultimo accompagnò anche i vagiti di PlayStation 3, diventando uno dei primi titoli disponibili su PlayStation Store. Fu proprio sulla terza home console Sony (e per la prima volta su console Microsoft) che la saga di Bandai Namco subì una battuta d'arresto, con un sesto episodio valido ma indubbiamente meno esaltante dei suoi predecessori. Un sesto episodio che, per altro, dovette vedersela con la concorrenza agguerrita di Street Fighter IV. Il ritorno in auge dei beat 'em up a incontri, tuttavia, favorì la nascita di Tekken Tag Tournament 2 e dell'esperimento free-to-play Tekken Revolution.

Ad ogni modo, Tekken è sempre stato un picchiaduro piuttosto amato (almeno da me) e capace di proporre un sistema di combattimento divertente, solido e accessibile, calandolo in un immaginario sopra le righe in cui delle idol combattono contro grizzly e cyborg ninja prendono a calci imprenditori giapponesi posseduti da demoni che sparano raggi laser. Non che solitamente i giochi di menare offrano storie più sobrie, intendiamoci, ma è indubbio che il livello di trash toccato da Tekken sia difficile da eguagliare.

Due anni dopo il suo esordio nelle sale giochi nipponiche (probabilmente qualche cabinato si può trovare anche fuori dal Giappone, ma non ci metterei la mano sul fuoco), Tekken 7 arriva su PS4, Xbox One e PC con il suo gameplay collaudato, le sue novità e le sue faide famigliari che sembrano uscite da un bizzarro incrocio tra Occhi del cuore e un film con Van Damme.
Il settimo capitolo di Tekken si presenta benino, con un motore grafico (l'Unreal Engine 4) che garantisce un buon dettaglio grafico sia nei fondali che nei personaggi. Siamo comunque lontani dall'eccellenza, se non altro perché l'immagine, almeno su PS4, risulta sempre un po' sporcata da decine di effetti grafici, esplosioni e zoomate a caso che appesantiscono il quadro visivo nel suo complesso.

Al di là di questo, comunque, Tekken 7 si lascia guardare e, soprattutto, giocare con piacere.
Il roster è molto ampio e le new entry sono tutte interessanti sia in fatto di look che di mosse. L'unico lottatore che per i miei gusti stona è Akuma, personaggio di Street Fighter che non mi sembra si trovi particolarmente a suo agio con le meccaniche di Tekken e che, nello Story Mode, si rivela un avversario fin troppo ostico e overpowered.
L'aggiunta più importante del combat system riguarda la gestione del Rage Mode. Introdotto in Tekken 6 (ma già visto con un diverso nome nel primo Tekken Tag), questo stato potenziava gli attacchi del personaggio quando la barra d'energia stava per esaurirsi. In Tekken 7 ci permetterà di effettuare una Rage Art o una Rage Drive. La prima non è altro che l'equivalente tekkeniana delle Ultra di Street Fighter. La Rage Drive invece è sostanzialmente una super combo. Entrambe sono tecniche particolarmente potenti che, se usate al momento giusto, possono ribaltare le sorti di un incontro che volge a nostro sfavore.

Tekken 7, come tutti i picchiaduro, dà il meglio di sé giocato tra amici, stravaccati sul divano in una serata estiva mentre sorseggiamo una birra fresca. C'è comunque qualcosa da fare anche per il giocatore solitario.
Sono presenti una modalità arcade (in verità piuttosto breve e scialba), una Battaglia Tesoro in cui dovremo combattere avversari sempre più forti ottenendo crediti e oggetti da usare nella (corposissima) personalizzazione del personaggio e, soprattutto, lo story mode "La saga dei Mishima".
Ora... non so se esistano persone seriamente interessate alla soap opera folle che è diventata la trama di Tekken nel corso degli anni, ma comunque sappiate che questo settimo episodio vi mostrerà finalmente l'epilogo della vicenda di Heihachi e Kazuya. Epilogo che rimarrà tale fino a quando non uscirà Tekken 8 (?).
Vi sono poi alcuni brevi capitoli dedicati ai numerosi personaggi secondari, ma siamo veramente al minimo sindacale (testo introduttivo, scontro e fmv).
In estrema sintesi, il single player di Tekken 7 fa il suo dovere ma non brilla. Ci passerete qualche ora piacevole e probabilmente spenderete molto tempo nella Battaglia Tesoro per sbloccare roba e prendere confidenza con le mosse del vostro personaggio preferito, ma se cercate un buon pestaduro da spolpare in solitudine, fareste meglio ad orientarvi su altro (mi dicono che Injustice 2 da questo punto di vista sia molto convincente, giusto per darvi una dritta).

La carenza di contenuti single player non sarebbe un grosso problema, visto che viviamo nel ventunesimo secolo ed esiste il multiplayer online. Il guaio è che, nel momento in cui scrivo (8 giugno 2017), il netcode della versione PS4 di Tekken 7 è imbarazzante. Non so come sia la situazione su One e PC, ma personalmente in una settimana sono riuscito a giocare solo cinque volte, tentando di trovare qualche partita più o meno ogni giorno e incappando in un'infinità di errori di connessione.
Si spera in una patch che risolva il problema e renda il matchmaking vivibile, anche perché mi manca solo il trofeo dei dieci incontri online per prendere il Platino. Non che ci tenga particolarmente, però che fastidio, no?

EDIT: neanche il tempo di lamentarmi che è uscita la patch. Ora il matchmaking sembrerebbe a posto. Trofeo di platino sbloccato, per la cronaca.

lunedì 13 febbraio 2017

I magnifici 7

Denzel Washington nuovamente protagonista in un film di Antoine Fuqua. Solo che stavolta è accompagnato da sei amichetti. 
Dopo The Equalizer e Southpaw, il regista di Training Day si assume il compito non semplicissimo di portare al cinema il remake del leggendario I magnifici sette di John Sturges, western del 1960 che a sua volta si basava su I sette samurai di Akira Kurosawa.

Il villaggio di Rose Creek viene occupato dagli uomini di Bartholomew Bogue, un magnate che intende sfruttarne la vicina miniera d'oro. I banditi incendiano la chiesa dell'avamposto e uccidono diversi abitanti. Una donna, in seguito all'assassinio del marito avvenuto davanti ai suoi occhi, decide di andare in cerca di vendetta e chiede aiuto al cacciatore di taglie Sam Chisolm; questi, accettato l'incarico offertogli dalla vedova, recluta altri sei mercenari con l'obiettivo di liberare Rose Creek e uccidere Bogue.

I magnifici 7 è un western molto classico, che magari ci mette un po' ad ingranare; ma che poi, non appena le cose arrivano al dunque, diventa un signor film d'azione.
Il cast è di livello altissimo. Sia i nomi noti (Chris Pratt, Vincent D'Onofrio, Ethan Hawke) che quelli meno noti (Lee Byung-hun, Manuel Garcia-Rulfo, Martin Sensmeier) funzionano alla grande e, guidati dal carismatico Washington, vanno a formare una squadra di improbabili eroi a cui ci si affeziona tra battutacce da cowboy, duelli e sparatorie.
Molto azzeccata anche la scelta del cattivo di turno, un Peter Sarsgaard che ha decisamente la faccia giusta per interpretare un antagonista come Bogue.

Fuqua dirige un western corale apprezzabile senza riserve da chiunque adori le atmosfere alla Tex Willer. Un film solido che, senza particolari pretese, riesce ad intrattenere con tanta azione, splendidi paesaggi di frontiera e un bell'affiatamento tra i suoi protagonisti.
E poi si sa, di western non ce ne sono mai abbastanza.

mercoledì 8 febbraio 2017

The Clone Wars

A prescindere da quale sia la vostra opinione sulla trilogia prequel di Star Wars, non potete negare che La minaccia fantasma, L'attacco dei cloni e La vendetta dei Sith abbiano avuto il grosso merito di ampliare la saga di Lucas oltre orizzonti che, prima del 1999, erano stati solo intravisti in un disordinato marasma di libri, fumetti e videogiochi.

L'universo di Star Wars, nei film classici, era circoscritto a pochi pianeti, spesso desertici o primitivi, che facevano da sfondo ad una guerra tra un regime dispotico ed un gruppo di combattenti per la libertà. Era veramente tutto qui. Forse questo "vedo, non vedo" era parte integrante del fascino di una galassia di cui potevamo solo intuire la vastità, ma ciò non toglie che Episodio I, al netto dei difetti, fu un film ambizioso, che riuscì ad arricchire la saga con una moltitudine di nuovi elementi, alcuni mutuati dall'Expanded Universe, altri totalmente inediti. Oltre ad alieni anfibi dalla parlata bizzarra, infatti, ci regalò un'ecumenopoli che ricordava la Trantor di Asimov, intrighi politici a volontà, un pianeta dall'estetica barocca, podrace, specie mai viste prima, armate di droidi e lo stesso Ordine Jedi.
La minaccia fantasma contribuì a rendere Star Wars più vasto, più complesso e, potenzialmente, più interessante. I due seguiti fecero altrettanto.

Bello ma non bellissimo, dato che, come ben sappiamo, i tre prequel si rivelarono film pieni di magagne e non esattamente all'altezza dell'universo immaginario che avevano il compito di raccontare. Ciò non significa che non avessero assolutamente nulla di buono, ma parliamoci chiaro: guardate Episodio II e ditemi se non trovate orripilanti i dialoghi tra Anakin e Padme.
"Tu mi sei entrata nell'anima, che si tortura per te."
Pietà. Nella mia testa parte la musica di Occhi del cuore ogni volta che sento parlare di Villa del Balbianello.

Tra sdolcinatezze e recitazione discutibile, tuttavia, i prequel narravano una parte di Star Wars importantissima, affrontando un cruciale periodo storico del suo universo: gli anni dell'ascesa di Palpatine, delle Guerre dei Cloni e del passaggio dalla Vecchia Repubblica all'Impero.
Eventi dalla portata enorme, su cui si era fantasticato per oltre un decennio e che, una volta mostrati sul grande schermo, riuscirono anche ad offrire alcune sorprese. Non era scontato che i cloni fossero dalla parte della Repubblica e combattessero al fianco dei Jedi, ad esempio; lo stesso Timothy Zahn, che all'inizio degli anni novanta aveva tirato in ballo la clonazione nella trilogia di Thrawn, approcciò la questione in modo ambiguo.

In effetti l'arco temporale coperto dai prequel era davvero denso di cose da raccontare, ma i tre film si concentrarono (anche giustamente) sui momenti più salienti della caduta di Anakin Skywalker, trascurando o, peggio, sviluppando in maniera goffa tutte le vicende di contorno. La parte centrale delle Guerre dei Cloni, per esempio, veniva saltata in blocco. Qualcuno potrebbe ribattere che, ai fini della trama principale, era in effetti necessario vedere solo l'inizio e la fine del conflitto; mostrare altro sarebbe stato quasi ridondante. È un'obiezione sensata, ma che non condivido del tutto.
Coprire la guerra in maniera più dettagliata avrebbe permesso di sviluppare meglio la caratterizzazione dei protagonisti e dei comprimari, dando ai fatti tragici di Episodio III tutto un altro impatto.
Pensiamo solo all'Ordine 66: quanto sarebbe stato emotivamente devastante, se Jedi come Aayla Secura o Plo Koon fossero stati più che semplici comparse? Quanto sarebbe stato destabilizzante vedere questi Jedi uccisi dai cloni che erano stati loro amici?
La vendetta dei Sith tentava di essere toccante come Titanic, ma si dimenticava che il film di James Cameron, prima di partire con le morti, passava quasi due ore a farci affezionare ai suoi personaggi, raccontandoci nei minimi dettagli le loro storie e i loro sogni.

Evidentemente persino Lucas, nel corso degli anni, deve aver fatto riflessioni simili. Già nel 2003, infatti, Lucasfilm produsse insieme a Cartoon Network la serie animata Clone Wars, affidandola al regista Dzenndi Tartakowskij.
Caratterizzate da un'estetica spigolosa e minimalista, le tre stagioni di Clone Wars mostravano le battaglie tra l'esercito della Repubblica e i Separatisti, introducendo anche il personaggio di Grievous. Gli episodi erano brevi, con pochissimi dialoghi, ma ricchi d'azione dirompente e sopra le righe (memorabile la scena in cui Mace Windu sgominava un'intera armata di droidi a mani nude).
La serie piacque a tutti. Ancora oggi, pur non essendo più canonica, viene ricordata come una delle migliori cose a tema Star Wars uscite in quel periodo. Personalmente ne conservo gelosamente i DVD.

Anni dopo, nel 2008, Lucas e soci decisero di tornare ad offrire ai fan una nuova dose di Guerre dei Cloni, prima con il film in computer grafica The Clone Wars (occhio all'articolo) e subito dopo con l'omonima serie animata.
Affidata allo showrunner Dave Filoni, questa nuova serie televisiva aveva sempre il compito di approfondire gli eventi intercorsi tra  L'attacco dei cloni e La vendetta dei Sith, stavolta con una narrazione un pelo più articolata.

Fino a pochi mesi fa non avevo mai visto The Clone Wars, ma la recente comparsa della serie completa su Netflix mi ha dato l'occasione di colmare questa lacuna che, francamente, iniziava un po' a pesare.
Sono partito con una grande curiosità e con parecchi dubbi (Anakin con una padawan? Il ritorno di "quel" personaggio?), ma devo dire che, dopo essere arrivato al termine della sesta stagione, il mio giudizio non può essere meno che entusiastico. Anzi, per certi versi potrei quasi affermare che in The Clone Wars c'è tutto ciò che avrei voluto vedere nella trilogia prequel e che, purtroppo, i film di Lucas mi avevano dato solo marginalmente.

La serie di Dave Filoni ha una struttura antologica. Ogni stagione dura circa una ventina di episodi (ad eccezione dell'ultima, che ne dura tredici) e presenta diversi archi narrativi che possono coprire svariate puntate, generalmente non più di quattro.
Leviamoci subito il sassolino dalla scarpa dicendo che la qualità non si mantiene sempre a livelli eccelsi, risultando anzi abbastanza altalenante: si passa dall'esaltazione totale dei momenti in cui sembra quasi di guardare un Band of Brothers nello spazio alla depressione degli episodi incentrati su Jar Jar Binks.
Quando le cose girano nel modo giusto, però, The Clone Wars funziona alla grande, diventando improvvisamente il sogno di qualsiasi appassionato di Star Wars e mostrando battaglie tra flotte stellari, assedi planetari, cacciatori di taglie degni di un western e duelli con spade laser assolutamente memorabili.
Ovviamente non bisogna aspettarsi che i valori di produzione siano quelli di un film hollywoodiano ma, nei suoi limiti, The Clone Wars convince e, in determinati frangenti, riesce a stupire.

La messa in scena della guerra che conduce alla nascita dell'Impero si rivela così riuscita e coinvolgente anche in virtù del lavoro d'approfondimento svolto sui rapporti tra i personaggi, soprattutto su quello che lega cloni e Jedi.
Se in Episodio III tutti i cloni erano, ehm, insipidi cloni di Jango Fett senza alcuna personalità, qui i vari Cody, Rex e Fives sono personaggi completi, identici nell'aspetto ma caratterizzati con la giusta perizia. Tra loro si percepisce un cameratismo che nei prequel, molto semplicemente, non c'era e non veniva nemmeno accennato.
Qui i cloni acquistano per la prima volta una dimensione umana, si chiamano l'un l'altro "fratello" e nutrono una profonda ammirazione verso i loro generali Jedi che, a differenza di politici ed ufficiali che li trattano come "numeri" da mandare al macello, li considerano persone con una dignità. Bisogna ammettere, insomma, che l'Ordine 66 ha un sapore un po' diverso, dopo la visione di The Clone Wars.

Un discorso analogo si può fare per i membri dell'Ordine Jedi. La serie di Filoni riesce a rendere molto bene l'idea di questi guardiani della pace che si ritrovano invischiati in un turbine di devastazione e violenza di cui saranno, di fatto, le vittime finali.
Alcuni dei migliori momenti di The Clone Wars sono proprio quelli in cui vengono sollevate questioni morali che portano i vari protagonisti a porsi dei dubbi su ciò che stanno facendo, a rendersi conto di come, malgrado tutti i loro sacrifici, la Repubblica stia lentamente precipitando verso un baratro di oscurità.
Anche qui: stiamo parlando di una serie animata i cui toni non toccano mai picchi drammatici eccessivi (non aspettatevi Game of Thrones), ma The Clone Wars a volte lascia davvero di stucco per la profondità di cui è capace.
Il rapporto tra Anakin e la sua padawan Ahsoka, su cui come ho detto avevo delle perplessità, è ad esempio tratteggiato splendidamente e si chiude con un epilogo molto forte, che contribuisce a dare al futuro Darth Vader un profilo psicologico più sfaccettato rispetto a quello del "giovane accecato dall'amore" visto nei film, facendo persino assumere un nuovo significato ai suoi attriti con il Consiglio Jedi.

L'Anakin che esce dalle Guerre dei Cloni è, per assurdo, meno bamboccio del cavaliere Jedi irruento, ma ancora fragile, che si vedrà in Episodio III. Ecco, forse l'unico problema di tutto questo approfondimento (che, ricordiamolo, è assolutamente canon) sta proprio nella crescita di Anakin, un personaggio che nel corso di sei stagioni attraversa un percorso di maturazione e supera numerose difficoltà, uscendo bene da prove peggiori di quella che poi, ne La vendetta dei Sith, lo porterà ad abbracciare il Lato Oscuro.
Perché in Episodio III, in seguito alla visione della morte di Padme, il Prescelto ripete sostanzialmente gli stessi errori commessi in Episodio II a causa dei sogni che profetizzavano la morte di sua madre Shmi; la cosa stride con la maturità e la maggior consapevolezza che, si presume, Anakin dovrebbe aver raggiunto durante gli anni della guerra.
Però appunto, questo è un problema legato al modo semplicistico e discutibile in cui il film del 2005 gestiva le motivazioni alla base della genesi di Darth Vader, non a The Clone Wars, che invece fa di tutto per rendere giustizia alla figura di Anakin Skywalker.

Un lavoro di cesello altrettanto curato è stato eseguito nello scolpire l'estensione dell'universo di Star Wars. Ci sono molte nuove idee, ma si pesca a piene mani anche dal vecchio Expanded Universe, che ai tempi delle prime stagioni non portava ancora l'etichetta "Legends" (ritorna ad esempio Asajj Ventress, l'apprendista di Dooku introdotta nella serie di Tartakowskij).
Mettiamo finalmente piede su pianeti come Mandalore, Mon Cala o Ryloth, scendiamo nel famigerato livello 1313 di Coruscant ed incontriamo per la prima volta decine di personaggi che sono ormai parte del canone ufficiale. Il più importante tra questi è sicuramente Saw Gerrera, il guerrigliero ribelle interpretato da Forest Whitaker in Rogue One, che in The Clone Wars appare all'inizio della quinta stagione.
Vi sono anche personaggi della Vecchia Trilogia, che qui compaiono in versione ringiovanita. Senza fare nomi altisonanti, mi limito a dire che i fan più esperti impazziranno trovandosi davanti l'ammiraglio Yularen (se non avete la più pallida idea di chi sia, filate immediatamente a ripassare la lista degli ufficiali imperiali presenti in A New Hope).
Non mancano poi i ritorni inattesi di antagonisti storici; ritorni che vengono gestiti piuttosto bene e portano ad archi narrativi di grande spessore anche quando il rischio di combinare un pasticcio sembrerebbe alto.

Questa padronanza della grammatica starwarsiana rende palese il grande amore degli sceneggiatori coinvolti per l'universo creato da George Lucas. Perché poi, al di là delle citazioni che titillano i fan come la comparsata del giovane Ackbar o la placca pettorale indossata da Anakin che richiama quella portata da Darth Vader, The Clone Wars mostra i muscoli soprattutto quando osa e scava a fondo nella mitologia della saga, andando a fare rivelazioni spesso anche abbastanza sconcertanti.
Esempio emblematico? Beh, si scoprono più cose sul giovane Obi-Wan negli archi narrativi mandaloriani che in Episodio I, II e III. Fate voi.

The Clone Wars è una serie gustosissima, meno marginale rispetto a molti fumetti o libri che fanno parte del Nuovo Canone. Mi azzarderei a dire che, nel caso in cui miriate ad avere un quadro completo dell'universo di Star Wars, in modo anche da apprezzarne maggiormente le uscite cinematografiche, la visione sia quasi necessaria.
Se i prequel vi sono piaciuti, avrete l'occasione di approfondirne l'ambientazione, i personaggi e il periodo storico. Se invece siete tra i delusi, The Clone Wars potrebbe darvi emozioni nuove.
È indubbiamente un'opera televisiva destinata principalmente ad un pubblico giovane, ma se saprete approcciarla senza pregiudizi, scoprirete che ha molto da offrire anche a chi segue e conosce Star Wars da venti, trenta o quarant'anni.

venerdì 3 febbraio 2017

La battaglia di Hacksaw Ridge

A dieci anni da Apocalypto, Mel Gibson torna dietro la macchina da presa e sforna un film bellico memorabile, portando la Seconda Guerra Mondiale sul grande schermo con una potenza che non si vedeva dai tempi di Salvate il soldato Ryan.
La battaglia di Hacksaw Ridge racconta la vera storia di Desmond Doss, un soldato statunitense che si arruolò nell'esercito come volontario, rifiutandosi di imbracciare qualsiasi genere di arma per non tradire la propria fede religiosa.
Inizialmente osteggiato da superiori e compagni, Desmond finì davanti alla corte marziale, che gli concesse di partire per il fronte come obiettore di coscienza e soccorritore militare. Il giovane prese parte alla battaglia di Okinawa, in cui salvò la vita a settantacinque commilitoni feriti, diventando un eroe di guerra e guadagnandosi una medaglia.

Hacksaw Ridge non ci prova nemmeno ad evitare la retorica, rischiando di risultare irritante per via del suo continuo tirare in ballo il trittico fede, patria e onore. Questo, tuttavia, non gli impedisce di essere un film di guerra assolutamente incredibile, che mostra l'atrocità di una battaglia senza porsi alcun paletto, trasmettendo al contempo un bel messaggio di pacifismo.

Tutto il primo tempo del film è una lunga introduzione che serve a tratteggiare la figura di Desmond Doss e a spiegare quali furono le motivazioni che determinarono la sua scelta di non violenza. Andrew Garfield interpreta questo atipico soldato con la solita bravura su cui è ormai superfluo spendere parole, ma anche il resto del cast ricopre un ruolo importantissimo, dato che il rapporto tra Doss e i suoi famigliari/commilitoni/superiori è un po' il cardine attorno a cui si muove tutta la vicenda.
Hugo Weaving, il padre rimasto traumatizzato dalla Grande Guerra, è assolutamente convincente, mentre Teresa Palmer, la moglie Dorothy, è talmente adorabile che vorrei sposarla anch'io. Ma la mia nota di apprezzamento personale va soprattutto al sergente istruttore interpretato da Vince Vaughn, che dopo una vita di commedie è ormai lanciatissimo nei ruoli drammatici.

Se la prima parte del film è necessariamente piuttosto lenta e povera d'azione, il secondo tempo è qualcosa di dirompente. Nel momento in cui ci si sposta nel teatro bellico del Pacifico, Hacksaw Ridge inizia a fare sul serio. Mel Gibson mette in scena un inferno di morte, caos e corpi dilaniati, scioccando con una rappresentazione della guerra violenta, brutale e a tratti stomachevole nel suo crudissimo realismo. Non si tratta, però, di una violenza pornografica fine a se stessa come quella di The Passion of the Christ, ma di qualcosa che, nel contesto del film, era necessario mostrare. Tutta questa brutalità esibita in modo così calcato contribuisce a far sembrare ancora più incredibile la storia di questo ragazzo che ha partecipato ad una delle battaglie più cruente del ventesimo secolo senza toccare un'arma.

Il ritorno di Mel Gibson non poteva essere più convincente di così. Hacksaw Ridge è un film di un'intensità inaudita che, nel bene e nel male, porta impressa la firma del suo regista. Un regista retorico e ampolloso, è vero, ma che comunque, quando si mette in testa di raccontare una storia, la racconta in un modo che molti suoi colleghi si sognano.

lunedì 30 gennaio 2017

Split

Fa piacere constatare che, dopo un periodo buio contrassegnato da "capolavori" come After Earth, M. Night Shyamalan sia finalmente tornato a realizzare film belli.
Probabilmente il trucco per uscire dalla fase di stallo è stato dedicarsi a produzioni minori, con un budget basso, che garantissero maggiore libertà creativa e meno costrizioni sia in fase di scrittura che di regia.
Perché Shyamalan, al netto di alcuni passi falsi, è sempre stato capace di intrattenerci con film interessanti, carichi d'atmosfera e dagli sviluppi sorprendenti.

In Split vediamo James McAvoy nel ruolo di Kevin Wendell Crumb, un uomo con un disturbo dissociativo che lo porta a possedere ben ventitré personalità diverse. "Dennis", una di queste identità, prende il sopravvento sulle altre e rapisce tre ragazze adolescenti, narcotizzandole nel parcheggio di un centro commerciale.
Da questo rapimento si avvia un thriller piacevolissimo che, sulla scia inaugurata dal discreto The Visit, ci conferma che Shyamalan è tornato in piena forma ed è ancora bravo a raccontare storie ansiogene e con un bel ritmo, toccando anche temi non proprio semplici come i disturbi psichici e l'abuso.

McAvoy riesce ad essere un antagonista convincente, camaleontico nei suoi continui cambi d'identità. Magari ecco, non sono d'accordissimo nel definire la sua recitazione così stupefacente come in molti stanno facendo, dato che in fondo, ad eccezione di Dennis, tutte le personalità di Kevin sono perlopiù macchiette poco approfondite, facili da rendere alternando smorfie e vocette (ma su quest'ultima cosa vado per ipotesi e non ci metto la mano sul fuoco; ho visto il film doppiato). Ad ogni modo è evidente che Split funzioni così bene grazie alla performance dell'attore, quindi giù il cappello.
Bravina anche la protagonista Anya Taylor-Joy, già vista nell'ottimo The Witch di Robert Eggers.

Impossibile poi non esaltarsi per il gustosissimo colpo di scena finale, che per una volta non capovolge il punto di vista sull'intera vicenda, ma fa una cosa che i fan di Shyamalan troveranno altrettanto galvanizzante.

venerdì 27 gennaio 2017

La La Land

Che Damien Chazelle fosse un regista superlativo lo avevamo già capito con Whiplash, un film granitico nel mettere in scena il brutale rapporto tra un giovane batterista e il suo insegnante.
Era inevitabile, dunque, essere ansiosissimi di vedere questo La La Land, una storia d'amore nella Los Angeles di oggi che comincia con, ehm, un ballo nel bel mezzo di un ingorgo autostradale.
Un incipit disorientante, se vogliamo, che c'entra poco con l'austerità del precedente film di Chazelle, ma che comunque, con quel piano sequenza tra le auto sulle note di Another Day of Sun, aiuta a mettere da subito le cose in chiaro: possiamo sederci comodi sulle poltrone e gustarci un paio d'ore di regia sublime, da cui usciremo destabilizzati anche se, magari, i musical non sono troppo nelle nostre corde.

La La Land è infatti un film in cui sovente i personaggi partono a cantare una canzone (tipo la bellissima City of Stars) o improvvisano un balletto alla luce del crepuscolo, ma attenzione, è anche un film con una narrazione che procede spedita e acchiappante grazie a dialoghi scritti da Dio, che ribadiscono il clamoroso talento di Chazelle nelle vesti di sceneggiatore, oltre che di regista.
La storia di Mia, ragazza che sogna di diventare attrice, e Sebastian, pianista che vorrebbe aprire un locale di musica Jazz, prende il via per uno scherzo del caso e si dipana con una delicatezza impressionante.
Emma Stone e Ryan Gosling, tanto belli quanto bravi, sono monumentali nel mostrare i sogni e le aspirazioni dei due giovani e il modo in cui queste finiscono per influenzare le loro vite, portandole in direzioni imprevedibili. La Stone, in particolare, tira fuori quella che probabilmente è la miglior prova recitativa della sua carriera, consacrandosi definitivamente come una delle migliori attrici della sua generazione (anche se da queste parti siamo suoi fan incalliti da anni).
Pure Gosling, comunque, fa la sua parte, riuscendo ad essere sempre ineccepibile sia nei momenti comici che in quelli più drammatici. E a proposito di dramma: tra Mia e Sebastian ci sono un paio di confronti verbali che, a riprova della mostruosa alchimia tra i due attori che li interpretano, potrebbero quasi valere da soli tutto il film. Almeno se il film non fosse anche molto altro.

In La La Land è tutto semplicemente perfetto. Dalla colonna sonora sempre azzeccata alle continue trovate visive, passando per un J.K. Simmons che buca lo schermo rimanendo in scena per due minuti e dicendo appena tre frasi.
Questo nuovo lavoro di Chazelle è un omaggio al grande cinema hollywoodiano. Formalmente eccezionale, ma anche dotato di un'anima tutta sua che, attraverso gli occhi dei due protagonisti, parla del rapporto tra amore e ambizione con una disillusione spiazzante.
Un film da guardare (e da ascoltare) cercando di reprimere la tentazione di mettersi ad applaudire ogni dieci secondi.

martedì 24 gennaio 2017

Your Name.

Forte di un successo commerciale a dir poco clamoroso e di un plauso unanime da parte della critica, Your Name dimostra che sarebbe un grave errore credere che l'animazione giapponese significhi solo Studio Ghibli.
Il film di Makoto Shinkai narra la storia di due adolescenti che conducono vite estremamente diverse. Taki è un ragazzo di Tokyo che frequenta il liceo e lavora come cameriere. Mitsuha è invece una ragazza di campagna che abita in un villaggio sulla riva di un lago; orfana di madre e con un padre severo, le sue giornate sono scandite dalle tradizioni folcloristiche che la nonna cerca di trasmetterle.
Taki e Mitsuha non si conoscono ma, durante il passaggio di una cometa accanto alla Terra, tra loro scatta un bizzarro legame: come in un sogno, i due si ritrovano con i corpi scambiati, catapultati in una vita di cui non sanno nulla. Dapprima spaesati, capiscono presto di doversi abituare a questa situazione che si presenta a giorni alterni. Si lasciano messaggi e istruzioni su come comportarsi, cercano di aiutarsi nei loro problemi personali e, mano a mano che il tempo passa, iniziano a provare qualcosa l'uno per l'altra.

Immaginate l'ironia di Ranma ½ che incontra la poetica di Murakami in un anime visivamente fuori scala. Avrete un'idea di cosa aspettarvi dalla visione di Your Name.
Makoto Shinkai ha realizzato un film bellissimo, che si merita tutti gli applausi ricevuti nel corso di questi ultimi mesi; una storia d'amore toccante, che si dispiega con una freschezza che non può fare a meno di lasciarti stampato in faccia un sorriso ebete.
Your Name parte come una commedia romantica, con il trasferimento di personalità che causa continui equivoci e situazioni sceme, fornendo l'attacco a montaggi serrati in cui le vite dei protagonisti si mescolano vorticosamente al ritmo di musica J-rock (strepitosa la colonna sonora dei Radwimps).
Taki e Mitsuha giungono a conoscersi intimamente senza mai incontrarsi in modo diretto, mentre una strana forma di affetto reciproco fa scivolare via l'imbarazzo e la diffidenza.

Non è così semplice, però.
Proprio quando si ha la sensazione di aver capito dove il film voglia andare a parare, ecco arrivare il colpo di scena che mescola le carte in tavola e rende un epilogo positivo meno scontato.
Your Name non diventa improvvisamente una tragedia cupa, perdendo in toto quell'adorabile tono scanzonato della parte iniziale, ma è innegabile che, una volta svelato il plot-twist legato allo scambio di corpo tra i due adolescenti, la vicenda assuma connotati più drammatici.
Allo stesso tempo, tuttavia, il film di Shinkai guadagna "punti torreggianza" in profondità e in trasporto emotivo, sia per quanto riguarda il rapporto tra Mitsuha e Taki, innamorati apparentemente destinati ad una separazione struggente, sia per quanto concerne la complessità delle trovate narrative, che diventano sempre più surreali.

Your Name va ad aggiungersi alla lunga lista dei capolavori dell'animazione giapponese.
Un film tecnicamente sbalorditivo che, stando in equilibrio tra spensieratezza e malinconia, si porta dietro un messaggio toccante.
Uno spettacolo, sia per gli occhi che per il cuore.