lunedì 19 dicembre 2016

Star Wars Battlefront - Rogue One: X-Wing VR Mission

Ricordo nitidamente il giorno in cui giocai per la prima volta a Rogue Leader.
Era un sabato di inizio maggio, correva l'anno 2002, non avevo ancora compiuto diciassette anni e mi sentivo felicissimo perché ero appena tornato a casa con un Nintendo Gamecube. Avevo collegato la console al modesto televisore della mia camera e, attraverso quello schermo di pochi pollici, mi ero ritrovato a rivivere l'attacco alla prima Morte Nera nei panni di Luke Skywalker, ai comandi di un caccia X-Wing.
Grazie anche ad una grafica che all'epoca appariva a due passi dal fotorealismo, mi sentivo immerso in maniera totalizzante nell'universo di Star Wars. Stavo giocando una scena storica di uno dei miei film preferiti ed era bellissimo.
Per anni ho giudicato le sensazioni suscitate dal titolo Factor 5 difficilmente replicabili, in parte per un discorso di nostalgia e in parte perché il gioco era proprio figo.
Poi, pochi giorni fa, è uscita la missione VR di Star Wars Battlefront, che di colpo ha fatto sembrare Rogue Leader non troppo lontano da The Empire Strikes Back per Atari 2600.

Sto armeggiando da qualche settimana con PlayStation VR e ormai credevo di essermi abituato all'impatto devastante della realtà virtuale sui miei sensi. Ma un conto è sperimentare la discesa negli abissi di Ocean Descent o la sinestesia di Rez Infinite, un altro paio di maniche è ritrovarsi improvvisamente catapultati in un universo che amiamo e che vorremmo toccare con mano sin da quando eravamo bambini. È un'emozione che fatico a descrivere a parole, perché si tratta davvero di un'esperienza che travalica il concetto di videogioco e si avvicina ad un sogno divenuto realtà. È meraviglioso e allo stesso tempo un po' inquietante.

A lasciarmi senza fiato poteva bastare la schermata iniziale di questo DLC, con quel torreggiante camminatore imperiale che mi passava vicino in tutta la sua imponenza, ma è stato quando sono entrato nella cabina di pilotaggio dell'X-Wing che le mie sinapsi sono partite per la tangente.
Ero lì, in un caccia stellare, circondato da tutta quella strumentazione dall'aspetto malandato. Se voltavo la testa e guardavo all'indietro, potevo vedere la mia unità R2.
Galleggiavo nello spazio profondo; intorno a me, i miei compagni di squadriglia e, soprattutto, la flotta dell'Alleanza Ribelle. Potevo volare al fianco di gigantesche astronavi come la fregata Redemption per ammirarne le dimensioni e i dettagli. Addirittura riuscivo a sentire il rombo dei motori subluce, se mi avvicinavo abbastanza. Quasi immaginavo lo stato d'animo di Luke mentre vedeva quei bestioni di metallo per la prima volta, dopo aver lasciato Tatooine.

Dunque è iniziata la missione vera e propria. La mia nave è scivolata attraverso le stelle ed è entrata nell'iperspazio, arrivando in un campo d'asteroidi.
Dopo un po' di zig-zag e di tiro a segno con i cannoni laser, la mia squadriglia ha raggiunto l'obiettivo. Sembrava fatta, ma uno Star Destroyer ci ha teso un'imboscata. È spuntato dal nulla, me lo sono ritrovato sopra la testa, minaccioso come nella scena d'apertura di Episodio IV.
In men che non si dica stavo combattendo la guerra contro l'Impero che mi aveva tenuto col fiato sospeso per tre quattro film e decenni di Expanded Universe. Sciami di caccia TIE sfrecciavano nell'oscurità dello spazio con il loro tipico "barrito". Mi sono lanciato al loro inseguimento, mentre l'incrociatore stellare che li aveva vomitati continuava a bersagliarmi con le sue batterie di turbolaser.
In modo un po' rocambolesco, io e i miei compagni siamo riusciti ad avere la meglio sui nostri nemici e a fuggire balzando nell'iperspazio, ricongiungendoci con la flotta ribelle nei pressi del pianeta Yavin.

Poi tutto è finito.
Sono rimasto seduto, con il pad tra le mani e un casco dall'aspetto ridicolo inforcato in testa. Stordito da ciò che avevo appena visto, ma felice come non mai e pronto a ricominciare immediatamente la missione da capo.
Perché sentivo il bisogno di tornare a tuffarmi in quell'universo, volevo tornare lì, dentro le guerre stellari.

Giocare a questo DLC è stato strepitoso. Commovente, oserei dire.
Solo che, accidenti, di realtà virtuale in salsa Star Wars ne voglio ancora e in misura maggiore.
È probabile che, da oggi, desidererò l'annuncio di un vero e proprio Rogue Leader VR più di quanto desideri Half-Life 3.
Incrocio le dita e che la Forza sia con me.

venerdì 16 dicembre 2016

Rogue One: A Star Wars Story

Quattro anni fa, su questo stesso blog, scrissi che probabilmente, in seguito all'acquisizione di Lucasfilm da parte di Disney, mi sarei potuto scordare uno Star Wars sporco e cattivo, che fosse un film di guerra con antagonisti veramente spietati e battaglie davvero tese e drammatiche.
Che dire, a volte è bello essere smentiti. Perché Rogue One, il primo spin-off cinematografico della saga, riesce ad essere sostanzialmente questa cosa descritta sopra, pur con qualche limite dovuto alla sua natura di blockbuster per famiglie che, giocoforza, deve mettere alcuni filtri all'orrore di un campo di battaglia.

Rogue One racconta la guerra contro il Lato Oscuro in un modo che gli altri lungometraggi finora usciti non avevano mai fatto.
Chiariamo, sarebbe stupido affermare che il franchise abbia scoperto la "guerra" solo oggi. L'intera esalogia (più il settimo episodio) non è altro che l'allegoria di una ribellione contro un regime autoritario. La guerra è onnipresente, così come la chiave di lettura politica, più volte evidenziata da Lucas stesso. Nei prequel vediamo l'ascesa di un dittatore che arriva ad ottenere il controllo di una repubblica tramite la menzogna, sterminando sistematicamente i suoi oppositori dopo avergli attribuito la responsabilità di un conflitto da lui provocato. Nella trilogia classica vediamo la Galassia sotto il giogo di un impero che porta pace, ordine e sicurezza disintegrando pianeti. Che detta così sembrerebbe un'esagerazione lontanissima da noi, ma ricordatevi che si parte sempre invocando le ruspe.
Il punto a cui voglio arrivare è che, in questo delicato momento della nostra storia in cui le cazzate populiste hanno facile presa e sembra normale che degli stronzi blocchino una strada per cacciare via un gruppo di profughi, c'è un gran bisogno di film come Star Wars. Film pop, alla portata di tutti, ma che comunque veicolano un messaggio chiaro e non hanno paura di mostrare il dito medio a certe "idee" che non sono idee.

Nel fare questo, Rogue One è Guerre stellari fino al midollo, pur risultando diversissimo dagli episodi regolari della saga.
È un film più cupo del solito, che riesce ad ampliare enormemente lo scenario della trilogia originale. Per la prima volta ci allontaniamo dalle vicende di Luke, Leia e soci, vedendo sul grande schermo ciò che succede nel resto della Galassia. Ma soprattutto, forse addirittura meglio di come accadeva negli episodi IV-V-VI, capiamo in che misura i vari pianeti siano stati dilaniati dal regime di Palpatine e quale effetto abbia avuto la guerra civile su tutte le creature che li popolano.
La stessa Alleanza Ribelle viene tratteggiata come una resistenza armata impegnata in una disperata lotta contro una forza militare apparentemente invincibile. Quindi sì, sorpresa, in questa guerra anche tra i buoni c'è chi si radicalizza e si sporca le mani, ricorrendo ad ogni mezzo necessario al fine di sconfiggere il nemico.

E qui veniamo ai protagonisti, che sono tutti splendidi e con una caratterizzazione da applausi. Jyn Erso e i suoi compagni sono personaggi che credono in quello per cui lottano, ma non sono facilmente inquadrabili nei canoni degli eroi classici a cui gli Star Wars ci hanno sempre abituati. Ognuno di loro si porta dietro cicatrici dolorose e va ad occupare un posto insostituibile in questo gruppo eterogeneo che combatte contro un male soverchiante.
Ho trovato l'intero cast molto azzeccato sia sul fronte dei ribelli che su quello degli imperiali. Tra un Donnie Yen che si fa amare qualsiasi cosa faccia e un Ben Mendelsohn davvero a suo agio nell'uniforme bianca del direttore Krennic, non me la sento proprio di lamentarmi.
Non mancano poi le comparsate dei personaggi storici della saga. Tre di loro (quattro, se consideriamo che Saw Gerrera compariva in The Clone Wars), si erano già visti chiaramente nei trailer e nelle varie foto promozionali, mentre un paio no. Uno di questi ha un peso notevole nell'economia della storia e devo ancora decidere se sia stata una buona idea ripescarlo nel modo in cui è stato fatto. Da fan con l'ossessione per la continuity mi verrebbe da dire che era addirittura inevitabile e necessario, però capisco che qualcuno potrebbe non apprezzare l'effetto uncanny valley. Ma basta, ho già detto troppo e sono in zona spoiler.

Rogue One è lo spin-off di Star Wars che desideravo vedere.
Un film di guerra drammatico, che mostra un nuovo scorcio di questa galassia lontana lontana e fa comprendere quanto sia gigantesco il potenziale dell'universo creato da George Lucas.
Qualche magagna c'è. La parte iniziale poteva avere un ritmo migliore, il doppiaggio italiano è da denuncia e la colonna sonora stavolta è davvero anonima (maledizione, Giacchino), ma per il resto credo che Rogue One piacerà tantissimo e placherà gli animi di chi si era lamentato (a mio avviso un po' a torto) di una certa mancanza di coraggio da parte di The Force Awakens.
Perché abbiamo uno Star Wars atipico, è vero, ma abbiamo anche un film che, dopo quarant'anni, mette in scena la Guerra Civile Galattica in modo convincente e con i giusti toni. Un film che, facendo tutto questo, riesce comunque a ricollegarsi a Una nuova speranza con un finale di grande impatto, a cui si arriva dopo due ore che sono un'escalation di emozioni e spettacolarità.
Onestamente non saprei che altro chiedere.

mercoledì 7 dicembre 2016

Final Fantasy XV: The Chocobo Awakens

Ci ha messo un decennio, ma finalmente Final Fantasy XV è uscito. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Noi videogiocatori, tuttavia, sappiamo bene che spesso i titoli dallo sviluppo travagliato si rivelano al di sotto delle aspettative maturate nel corso degli anni.
Final Fantasy XV è passato tra le mani di mille persone diverse, ha cambiato pelle e forma più volte (da spin-off di Final Fantasy XIII ad episodio regolare della serie) ed è balzato da una generazione di console all'altra. Il rischio di un disastro di proporzioni epocali era molto alto.
Non è andata così.
Dopo circa venticinque ore di gioco, posso dire che questo nuovo capitolo della storica saga Square Enix è un ottimo titolo, con un sacco di frecce al suo arco. Non è un gioco perfetto, ma riesce nel difficile compito di infondere una bella dose di audacia ad una serie che, pur potendo contare su una schiera di fan tutt'altro che esigua, da troppo tempo si accontentava di stare in panchina.

Sottolineo che questa non è una recensione. Penso di non essere arrivato nemmeno a metà dell'avventura di Noctis, quindi il mio giudizio su Final Fantasy XV non può ancora essere definitivo.
Ci tenevo comunque a condividere le mie impressioni, visto che già ora ho parecchie osservazioni da fare.


- Iniziamo toccandola piano: Final Fantasy XV mi ricorda Metal Gear Solid V. No, non sto impazzendo. Semplicemente, come The Phantom Pain, anche il gioco di Tabata prende una serie storica e la attualizza, introducendo un sacco di novità mirate a svecchiare una formula venuta un po' a noia. Certo, l'ultima fatica di Sua santità Kojima aveva meccaniche più rifinite ed era senz'altro un titolo globalmente meno goffo, ma è anche vero che, molto probabilmente, un vero e proprio Metal Gear Solid VI non lo vedremo mai, a meno di non voler scomodare Death Stranding come "erede spirituale", cosa che francamente mi sembra un po' tirata per i capelli. Un sedicesimo Final Fantasy, invece, ci sarà quasi di sicuro ed è innegabile che le basi gettate da questo quindicesimo capitolo siano estremamente intriganti proprio in ottica futura.

- Vediamo dunque quali sono, queste basi. Final Fantasy XV punta sin da subito sull'open world, proponendo un mondo vastissimo e liberamente esplorabile (pur con qualche paletto messo per esigenze narrative e di progressione). La mappa offre un sacco di quest ed attività secondarie in cui perdersi. I vecchi Final Fantasy erano tendenzialmente giochi lineari che si aprivano nella fase finale, qui accade il contrario.
L'idea è buona, anche se, va detto, le varie missioni facoltative tendono un po' ad assomigliarsi tra loro e alla lunga rischiano di venire a noia.
Pure gli spostamenti non sono proprio snellissimi, sia che si decida di viaggiare in auto, sia che si preferisca galoppare in sella ad un Chocobo (scordatevi di andare a piedi, viste le distanze da percorrere).
In ogni caso, il mondo di Eos è a dir poco affascinante; mi è capitato più di una volta di dire "Ancora dieci minuti e stacco", per poi ritrovarmi all'una di notte impegnato a dare la caccia all'ennesimo mostro.


- Ecco, l'ambientazione di questo Final Fantasy XV è davvero splendida. C'è una certa pretesa di realismo che inizialmente potrebbe apparire bizzarra, ma in fin dei conti Final Fantasy VIII faceva un po' la stessa cosa. Perché è vero che qui si parla di quattro ragazzotti che intraprendono un'avventura on the road su un macchinone tamarro, ma è anche vero che il modo in cui questo gioco rilegge tutta la mitologia della serie è a dir poco affascinante. Le summon, giusto per fare un esempio, sono qualcosa di esagerato sia per impatto visivo che per il modo in cui vengono contestualizzate all'interno della storia.
Poi certo, ci sono anche lati negativi. Un mondo che si presenta coerente nel suo essere fantastico deve per forza rinunciare a location assurde come il Gold Saucer di Final Fantasy VII. Ma è una rinuncia su cui si può chiudere un occhio, considerando che i momenti in cui si rimane a bocca aperta non mancano.
I problemi più grossi riguardano forse il ritmo della narrazione, che risente moltissimo della natura sandbox del titolo, apparendo spesso claudicante (ennesima similitudine con Metal Gear Solid V). Però anche qui, la guerra tra l'Impero di Niflheim e il Regno di Lucis che fa da sfondo alla nostre avventure convince. L'unico guaio? Per capire fino in fondo il lore, è necessario guardarsi il lungometraggio Kingslaive (che comunque non è nemmeno così terribile).

- Se si discute del lato narrativo di Final Fantasy XV, è impossibile non parlare dei suoi quattro protagonisti.
Ora, su Noctis, Prompto, Ignis e Gladio si è detto di tutto ed è stata fatta ogni battuta che avesse a che fare con gli emo, con le boy band e con l'incapacità cronica dei gdr nipponici di proporre personaggi caratterizzati in modo maturo.
È inutile negare che i personaggi di questo Final Fantasy siano abbastanza stereotipati. Il punto, tuttavia, è che nell'economia del gioco funzionano. È divertente vedere questi quattro ragazzi che vanno in giro in macchina dicendo scemate e punzecchiandosi a vicenda. Se nei vecchi Final Fantasy erano i momenti epici a suscitare una forte empatia, qui è proprio l'atmosfera alla Stand by Me a tirare il giocatore per un braccio e a farlo affezionare a Noctis e alla sua cricca.
Non a caso anche molte delle caratteristiche di gioco sono, in un certo senso, influenzate dalle peculiarità dei nostri compagni. Prompto, ad esempio, è il buffone del gruppo e passa il tempo a scattare foto (spesso stupidissime) che possono essere condivise sui social network. Ignis è il perfettino saccente della combriccola, ma è anche un ottimo cuoco, quindi può cucinare pietanze che danno un boost temporaneo alle nostre statistiche.

- Dove Final Fantasy XV rivoluziona maggiormente la saga è nel gameplay. Il battle system è stato completamente stravolto rispetto al passato, essendo ora in tempo reale e senza stacchi con le sezioni di gioco esplorative. Il giocatore può controllare direttamente solo Noctis, con la gestione dei compagni limitata ad alcune tecniche attivabili da un apposito menu. È una scelta coraggiosa, che rende i combattimenti estremamente dinamici e frenetici, facendoli assomigliare ad una rivisitazione in salsa action di quelli di Final Fantasy XII. Inizialmente il tutto appare abbastanza confusionario, oltre che martoriato da una telecamera a dir poco scandalosa; dopo un po' di pratica, però, ci si prende la mano e le battaglie iniziano a diventare appaganti. C'è un'enorme libertà di approccio e ogni avversario, pur con le sue debolezze, può essere affrontato nel modo che più ci è congeniale, sfruttando le armi che preferiamo.
Una cosa con cui devo ancora imparare ad andare d'accordo è la gestione delle magie. Sulla carta sarebbe una figata: i vari attacchi magici sono ora delle "granate alchemiche" craftabili combinando elementi di fuoco, elettricità o ghiaccio con oggetti di vario tipo. Molto bello eh, peccato che il tutto sia piuttosto macchinoso. Mi spiace perché un Criora usato nel momento giusto fa un male assurdo e provoca un impatto visivamente spettacolare sull'area di gioco circostante.

- Un altro cambiamento importante riguarda il sistema di potenziamento dei personaggi.
I punti esperienza possono essere guadagnati sia sconfiggendo nemici che completando quest; ora però si accumulano fino a quando non decidiamo di accamparci o di pernottare in un albergo. Nel secondo caso, pagando qualche guil, possiamo usufruire di moltiplicatori che arrivano addirittura a raddoppiarli. Da ciò si può dedurre che salire di livello velocemente sia abbastanza semplice. Con l'avventura principale mi trovo ancora in alto mare, eppure sono già arrivato a livello 44 facendo semplicemente alcune delle quest secondarie. In sintesi: sono overpowered pur avendo sfruttato unicamente le possibilità che il gioco mi offre, senza essermi assolutamente ammazzato di farming forzato. Forse è anche per questo che sto trovando il livello di sfida piuttosto blando, ma aspetto di proseguire, prima di lamentarmi di eventuali problemi di bilanciamento.
Più simile a quanto visto in passato è invece il funzionamento dei punti abilità. Questi si possono ottenere sia in combattimento che nelle attività secondarie e vanno spesi in una sorta di tabella che ci consente di sbloccare tecniche e potenziamenti di vario tipo.

Come si può capire da queste mie osservazioni, Final Fantasy XV mi sta piacendo molto, pur con qualche riserva.
Al netto dei difetti, quasi tutti dipendenti da alcune ruggini tipiche di molti giochi giapponesi (perché non mi fate salvare nei dungeon?), lo sto trovando un titolo davvero coinvolgente. Forse dipende dal fatto che è arrivato in un momento in cui sono dell'umore adatto per approcciare un'esperienza videoludica di questo tipo, ma comunque è la prima volta che gioco un Final Fantasy uscito dopo il 2000 che non mi faccia venir voglia di piantar lì tutto e rimettere su uno degli episodi usciti su SNES o PlayStation (anche se le vecchie musiche di Uematsu ascoltabili dalla radio della Regalia sciolgono il cuore).
Anzi, come spiegavo prima, giocando a Final Fantasy XV viene proprio voglia di vedere quale sarà il futuro della saga, più che di tuffarsi nel passato abbandonandosi alla nostalgia. Perché è impossibile non vedere un enorme potenziale nel lavoro svolto da Square Enix. E francamente l'idea di un Final Fantasy XVI capace di giocarsela ad armi pari contro futuri colossi come Cyberpunk 2077 mi esalta non poco.
Staremo a vedere, intanto il mio giudizio è in sospeso. 
C'è chi si lamenta di una seconda parte del gioco che, essendo probabilmente un retaggio di quello che fu Final Fantasy Versus XIII, sarebbe molto più lineare e malriuscita rispetto a quella in cui mi trovo ora. Però insomma, non penso che ciò che mi aspetta possa vanificare totalmente quanto di buono ho visto finora.
Almeno spero.

mercoledì 30 novembre 2016

La terra dei figli

Leggendo La terra dei figli mi sono spesso ritrovato a pensare al romanzo La strada. Entrambe le opere raccontano una storia che si svolge in un mondo devastato da una misteriosa catastrofe, risultando incredibilmente simili per atmosfera e per emozioni trasmesse; entrambe, inoltre, sono incentrate sul rapporto padre-figlio.
Se nel libro di Cormac McCarthy, tuttavia, i protagonisti tiravano avanti in mezzo alla disperazione aggrappati con tutte le proprie forze a ciò che restava della loro umanità ("Noi portiamo il fuoco"), qui la situazione è ancora più sconfortante. Gipi ci parla di due fratelli che non hanno mai visto il mondo prima che finisse, cresciuti con rigore e violenza da un padre determinato ad indurirli, per renderli adatti a vivere su un pianeta dove non esiste più alcun tipo di civiltà. Niente amore, niente sentimenti, solo insegnamenti basilari su cosa serve fare per non crepare ed errori che vengono puniti a suon di bastonate.

È da queste premesse che si dipana un fumetto memorabile, che ci immerge in una storia raccontata in modo essenziale, senza orpelli, ma che colpisce come un pugno allo stomaco.
Il tratto di Gipi è talmente particolare e carico di potenza espressiva che riesce a far sembrare pulsanti di vita anche tavole che somigliano a bozzetti.
I dialoghi sono ridotti al minimo. Non serve una voce narrante che ci spieghi perché questo mondo si sia ridotto così e non serve che i personaggi dicano più del necessario. Persino il linguaggio utilizzato, volutamente sgrammaticato e pieno di riferimenti alla cultura popolare contemporanea ("Questa vale almeno cento laic"), contribuisce a rendere inquietante e credibile ciò che leggiamo.

La terra dei figli è un romanzo a fumetti ruvido, splendido nel suo essere stilisticamente grezzo e profondissimo nella sua semplicità narrativa. So che una descrizione del genere sembra quasi un controsenso, ma fidatevi: il viaggio nella brutale terra post apocalittica partorita dalla mente di Gipi è un'esperienza che non si dimentica tanto facilmente.

martedì 22 novembre 2016

Ghostbusters

Mi dispiace parlar male di questo remake di Ghostbusters. C'è stato un momento, nei mesi scorsi, in cui ho davvero sperato che si rivelasse un film godibile, capace di zittire le orde di hater offesi da "quei maledetti bastardi che stanno rovinando la miglior saga di sempre (saga composta da un film ottimo e da un sequel appena decente) rifilandoci anche quattro donne come protagoniste. Vergogna!!!".

Devo comunque ammettere di aver avuto dei grossi dubbi su questo progetto sin da quando fu annunciato. Perché l'alchimia del film originale non era replicabile, le varie foto scattate sul set mi sembravano tutt'altro che promettenti e il primo trailer faceva oggettivamente ribrezzo. Poi però era arrivato un secondo trailer che lasciava intravedere cose simpatiche, buttava là un paio di battute decenti e faceva pensare ad un film d'azione quantomeno divertente.
Ragionando a mente fredda, inoltre, mi ero reso conto che i nomi coinvolti erano incoraggianti. Il regista Paul Feig aveva girato Spy, una commedia action con Melissa McCarthy che mi era piaciucchiata. Persino le attrici scelte per interpretare le nuove disinfestatrici del paranormale (tra cui figurava la stessa McCarthy) promettevano benino, pur non avendo il curriculum di Bill Murray e soci.
Insomma, mentre su internet fioccavano insulti sessisti e polemiche, io ci stavo credendo. Moderatamente eh, però ci stavo credendo.

Il problema è che siamo nel 2016. E il 2016 ha già ampiamente dimostrato di essere l'Anno del Male in cui tutte le nostre speranze sono destinate ad infrangersi.
Quindi come potrà mai essere andata, con questo remake di Ghostbusters? È andata che, alla fine, a dispetto di alcune recensioni positive (de gustibus), ne è uscito un film veramente brutto.
Lasciamo perdere i confronti con la pellicola del 1984. Perché certo, potremmo dire che qui non c'è traccia dell'ironia volgarotta ma graffiante degli acchiappafantasmi originali o della perfetta commistione tra horror, comicità e azione che aveva segnato le loro gesta. Ma in fin dei conti sono passati anche trentadue anni, mettersi a fare paragoni non ha veramente senso. Senza contare che sarebbe fin troppo disonesto massacrare il film di Feig solo mettendolo in relazione ad un cult anni ottanta che ha segnato la nostra infanzia.
Non è questo il punto.
Il punto è che Ghostbusters 2016, indipendentemente dai suoi legami con i capolavori del passato, è un film poco riuscito, banale e svogliato.

Molto semplicemente: non funziona. Non diverte, non emoziona, non lascia nulla.
La scrittura è pessima. Piatta per quanto riguarda gli sviluppi narrativi, tra il moscio e il delirante quando si tratta di costruire momenti capaci di strappare un sorriso. Presumo che parte della colpa sia imputabile al doppiaggio italiano, che come al solito avrà segato via parecchi giochi di parole sensati solo in inglese, ma guardando questo film mi sono sinceramente sorpreso della quantità di dialoghi che, cercando disperatamente di risultare divertenti, mi hanno lasciato impassibile come un pezzo di legno.
A fare da contrappeso alle chiacchiere brutte tra i personaggi ci sono le parti più movimentate, che toccano notevoli livelli di bordello, soprattutto verso il finale. Peccato che troppo spesso si scada nel tentativo di puntare alla spettacolarità fine a se stessa, con scene d'azione belle da vedere (al netto di effetti speciali fin troppo plasticosi e posticci), ma al contempo girate senza alcun brio. Anche le numerose citazioni horror e le strizzate d'occhio al film originale appaiono goffe; e non parliamo dei terrificanti camei in cui figurano gli attori del vecchio cast, per pietà.

Ciò che brucia di più, tuttavia, è come Ghostbusters, in mezzo al bruttume, lasci intravedere qualche spiraglio di luce. Le quattro protagoniste, a mio avviso, avrebbero avuto del potenziale, se solo fossero state alle prese con una sceneggiatura all'altezza. Ho adorato in particolar modo Kate McKinnon: mi aspettavo un clone insipido di Egon, invece ho trovato un personaggio deliziosamente sopra le righe, che rappresenta l'unica cosa veramente degna di nota in tutto questo disastro. Volendo ci sarebbe pure Chris Hemsworth, toh. È adorabile ammirare il modo in cui si diverte a fare lo scemo, anche se il segretario tontolone che interpreta non mi ha entusiasmato.

Mi rattrista davvero che sia andata così. Una bella rilettura in chiave moderna di Ghostbusters me la sarei goduta più che volentieri. La faccenda del cast femminile mi incuriosiva moltissimo e non ho mai avuto particolari preconcetti verso i remake. In fondo le storie sono fatte per essere raccontate una volta e poi raccontate di nuovo, non c'è nulla di male a prenderne una buona e a rielaborarla.
Peccato solo che, stavolta, il risultato sia stato questo.

giovedì 17 novembre 2016

In guerra per amore

Dopo La mafia uccide solo d'estate, Pierfrancesco Diliberto (in arte Pif) torna a raccontare l'influenza nefasta della criminalità organizzata sulla Sicilia. Questa volta lo fa partendo da lontano, proponendoci una sorta di prequel del suo lavoro precedente, che si svolgeva tra gli anni settanta e i novanta.

In guerra per amore è infatti un film in costume ambientato nel 1943, durante lo sbarco delle truppe alleate che diede il via alla campagna d'Italia, in quella che è passata alla storia come Operazione Husky.
Un film di guerra, quindi? Be', non proprio.
Come il titolo suggerisce in maniera abbastanza chiara, le premesse sono quelle di una commedia romantica: Arturo Giammarresi è un italoamericano innamorato di una ragazza di nome Flora. L'amore è contraccambiato, peccato che la donna sia già promessa sposa al figlio di un boss della malavita. Per uscire dall'impasse, Arturo decide quindi di arruolarsi e di andare in Sicilia in cerca del padre dell'amata, così da potergli chiedere direttamente il permesso di sposarla.

A questo pretesto narrativo, che in effetti dà luogo ad un primo tempo forse eccessivamente "stupidino", fanno da sfondo alcuni degli ambigui eventi che segnarono la fase iniziale del fronte italiano: pare, infatti, che per riuscire a penetrare più facilmente nell'entroterra siciliano, gli americani chiesero la consulenza e il supporto di alcuni esponenti della mafia locale, che ovviamente sapevano muoversi sul territorio meglio di un qualsiasi generale statunitense.
Ora: non è semplicissimo, in realtà, stabilire quanto fu determinante e profondo questo contributo mafioso allo sforzo bellico; o quanto, a conti fatti, Cosa Nostra trasse beneficio da questa collaborazione. Tra gli storici c'è ancora un dibattito piuttosto acceso in cui non voglio addentrarmi.
È comunque importante specificare come questo film tratti un argomento complesso e delicato, che Pif riesce tuttavia ad affrontare lucidamente, rendendo piuttosto bene l'idea di un'isola tra l'incudine e il martello: da un lato l'orrore del nazifascismo, dall'altro la spada di Damocle rappresentata da una criminalità assetata di potere e pronta a tutto pur di ottenerlo. Questi fatti sono visti attraverso gli occhi del protagonista; inizialmente concentrato solo sulla sua quest amorosa, Arturo prende progressivamente coscienza di ciò che sta accadendo intorno a lui, rendendosi conto che gli americani, intenzionati a vincere la guerra con ogni mezzo necessario, stanno prendendo sottogamba il pericolo costituito dalla mafia.

Nel secondo tempo In guerra per amore diventa un film molto più incisivo, pur non perdendo mai quella patina un po' trasognata che contraddistingue lo stile di Pif (e che può non piacere, per carità).
Si denuncia la follia di un regime criminale che ha dilaniato un paese, anestetizzandolo a suon di propaganda e retorica patriottica, si sottolineano i contatti della rete mafiosa con un noto partito politico nascente e si evidenzia il totale disinteresse degli americani, dapprima preoccupati solo della propria vittoria militare e, in un secondo momento, ossessionati dalla necessità di contenere la "minaccia comunista".
Il tutto, come ho accennato, viene raccontato con un taglio leggero, magari lontano dalla realistica brutalità che ci si aspetterebbe da un film su questi argomenti (stiamo sempre parlando di seconda guerra mondiale e mafia, voglio dire), ma che comunque riesce a mantenere elevato il trasporto emotivo. Riuscitissimo, ad esempio, il modo in cui viene sviluppato il rapporto d'amicizia tra il personaggio di Arturo e il luogotenente interpretato da Andrea Di Stefano.

Pif dimostra dunque di essere un narratore sensibile che non solo ha una sincera voglia di scavare a fondo su temi spinosi, ma possiede anche l'abilità necessaria per farlo, confermandosi un regista versatile e in crescita. La speranza è che la sua maturazione artistica continui senza deragliare.

venerdì 4 novembre 2016

Doctor Strange

In questi giorni mi è capitato spesso di sentir descrivere Doctor Strange come un film molto simile ad Iron Man, solo con la magia e il misticismo al posto della tecnologia. Ecco, secondo me questa descrizione, nella sua essenzialità, è assolutamente perfetta.

Doctor Strange è il tipico film sulle origini targato Marvel Studios: mantiene un buon equilibrio tra tono scanzonato e serio, presenta in maniera efficace un personaggio poco conosciuto da chi non legge comics, apre una nuova linea narrativa piena di potenziale in ottica "film corali" (ciao, Thor: Ragnarok, dimmi le parolacce) e mette in scena il solito villain di carta velina che non rischia di rubare la gloria al protagonista.
Protagonista per cui è stato scomodato un nome di un certo peso: Benedict Cumberbatch interpreta uno Stephen Strange a dir poco eccezionale e svolge abilmente il compito di rendere sul grande schermo l'intelligenza (ma anche la pedanteria) di questa new entry dell'universo cinematografico Marvel.

Ad onor del vero nemmeno per il resto del cast si è lesinato sugli attori di livello, anche se non tutti sono sfruttati in modo efficace come la star di Sherlock. Rachel McAdams fa il suo, pur non brillando esattamente di luce propria. Benino Chiwetel Ejiofor e bene anche Tilda Swinton. Mads Mikkelsen invece interpreta un antagonista che, come ho anticipato qualche riga fa, è da tradizione la quintessenza dell'inutilità. Per carità, non è un grosso problema, visto che appunto il film si focalizza sulla storia di Strange e lo spazio per delineare un villain degno è limitato, ma fa un po' specie vedere l'ennesimo attorone sprecato per un personaggio che ha ben poco da dire (il Tom Hiddleston del primo Thor è l'eccezione che conferma la regola).

La peculiarità grazie a cui questo film vince e convince, con un poderoso colpo di reni che lo lancia sul podio dei migliori cinecomic usciti negli ultimi anni, risiede nel suo comparto visivo.
Doctor Strange porta i blockbuster Marvel sul piano surreale, negli inesplorati territori delle soluzioni estetiche psichedeliche. I combattimenti in cui Strange si ritrova coinvolto sono bellissimi sia per come si mostrano che per il modo brillante in cui si svolgono. Tra viaggi onirici, proiezioni extracorporee, prospettive che si deformano come in un'opera di Escher e dimensioni che si accartocciano, c'è di che strabuzzare gli occhi. Notevolissima, in questo senso, la trovata che risolve la "scazzottata" finale, veramente una delle cose più stuzzicanti che mi sia capitato di vedere in un cinemarvellone.

Ricapitolando, Doctor Strange è un film in cui i difetti tipici di una storia sulle origini vengono ampiamente bilanciati dagli aspetti positivi. Benedict Cumberbatch, con il suo carisma, è un acquisto fenomenale per il pantheon supereroistico Marvel Studios e gli sbocchi narrativi garantiti da questa nuova storyline spianano la strada a tantissime possibilità.
Ma, lasciando da parte tutti i discorsi sul futuro di questo ormai gigantesco universo cinematografico, Doctor Strange è di suo un buon film, che riesce a far coesistere una storia divertente (ma non scema) con la spettacolarità. Come faceva il primo Iron Man, appunto.

domenica 9 ottobre 2016

Fuocoammare

Il modo migliore per raccontare Lampedusa è limitarsi a mostrarla. Lasciar parlare le immagini, i dettagli e le vite delle persone che la abitano o che cercano disperatamente di raggiungerla.
Fuocoammare fa esattamente questo: descrive la realtà di un'isola di pescatori che, per via della sua posizione geografica, rappresenta l'ingresso in Europa per migliaia di migranti in fuga dal continente africano. Costretti ad affrontare il mare ammassati a bordo di imbarcazioni fatiscenti, uomini, donne e bambini mettono in gioco la vita che hanno per cercare la possibilità di viverne una migliore, lontana da guerra, fame e violenza.

È questa la realtà che l'isola di Lampedusa si trova davanti ogni giorno. Fuocoammare ce la racconta in maniera molto delicata, alternando il gioco di un ragazzino alla testimonianza di un medico che ci spiega cosa significa prestare le prime cure a chi, in condizioni disumane, attraversa il canale di Sicilia. La quotidianità di un piccolo paesino si miscela all'urgenza del soccorso ai migranti. Scene di pesca si avvicendano alla rianimazione di giovani ustionati e disidratati. Una nonna racconta al nipote di come, durante il secondo conflitto mondiale, i razzi di segnalazione lanciati dalla navi da guerra sembrassero incendiare il mare, mentre un profugo, in un centro d'accoglienza, improvvisa un canto che narra il suo difficile viaggio.

Fuocoammare è un film attualissimo, che parla di un mondo spesso conosciuto solo in modo superficiale; un mondo che invece dovremmo ricordarci ogni volta in cui, guardando la TV o leggendo i giornali, ci imbattiamo nel termine "immigrazione".
Perché, prima che di migranti, si parla sempre di persone come noi, solo nate nel posto sbagliato al momento sbagliato. Persone che, in cerca di una vita serena, "sono partite come uno sputo contro una bufera", per usare le parole di un noto cantautore.

martedì 27 settembre 2016

Narcos

Arrivato in Italia all'incirca un anno fa, Netflix è riuscito a convincere tutti noi da subito non tanto per la vastità del suo catalogo, quanto per l'impressionante qualità delle sue produzioni originali. Difficile rimanere impassibili davanti al Killgrave di Jessica Jones, alla sorprendente profondità di BoJack Horseman o a quel meraviglioso atto d'amore per l'epica eighties che risponde al nome di Stranger Things.
Se però vi interessa il genere poliziesco e volete imparare ad insultare la gente in spagnolo, la serie da recuperare è indubbiamente Narcos.

Incentrata sulla lotta della DEA e delle autorità colombiane al cartello di Medellin, Narcos racconta, nell'arco di due stagioni da dieci episodi ciascuna, l'ascesa e la caduta di Pablo Escobar.
Storia vera, dunque, che in uno stile tra il thriller e il documentaristico (con una spolverata di noir) riesce a tratteggiare con precisione la figura del narcotrafficante più famoso di sempre e a narrare una delle cacce all'uomo più complesse e brutali del ventesimo secolo.
La prima stagione si concentra sul repentino successo di Pablo, in principio considerato dalla popolazione colombiana come una sorta di "Robin Hood". Amatissimo da tutti e apparentemente vicino alle esigenze dei più poveri, Escobar nascondeva i suoi traffici dietro una facciata di filantropia. La costruzione di scuole, ospedali, stadi e il sogno di una carriera politica occultavano un impero criminale della cocaina che, a cavallo tra gli anni ottanta e i primi anni novanta, fece sprofondare la Colombia in un baratro di terrore e violenza.
La seconda stagione descrive invece il lento crollo di questo impero, che inizia inesorabilmente a perdere pezzi fino a quando Escobar non si ritrova solo e braccato, stretto in una morsa tra la polizia colombiana e il gruppo paramilitare dei Los Pepes.

Impossibile stabilire quale sia la parte più interessante di questa turbolenta storia. Personalmente credo che la cavalcata del cartello di Medellin verso il dominio del narcotraffico sia molto entusiasmante, ma al contempo ho l'impressione che sia proprio quando le cose iniziano ad andare in mierda che vengano fuori gli aspetti più interessanti e coraggiosi di questa serie tv; è qui che viene tratteggiata meglio la psicologia di Escobar (bellissimo il nono episodio della seconda stagione, a tal proposito), è qui che escono alla luce le debolezze dei suoi sicarios ed è sempre qui che esplodono le ambizioni dei suoi nemici. Lo stesso discorso vale per i personaggi "positivi", che si ritrovano a fronteggiare una situazione fuori controllo, dovendo spesso ricorrere a metodi tutt'altro che ortodossi.
Un lavoro straordinario è stato svolto dagli attori; tutti in partissima e tutti con un talento fuori dal comune, riescono a dar vita a personaggi che bucano lo schermo. I migliori del gruppo sono sicuramente Wagner Moura, che interpreta appunto Pablo Escobar, e Pedro Pascal, ma si dovrebbero davvero spendere elogi infiniti anche per i numerosi personaggi secondari.
A chiudere il cerchio ci pensa la solita, maniacale, cura che caratterizza buona parte delle produzioni Netflix: Narcos brilla per il ritmo e per la qualità della regia, oltre che per numerosi dettagli che contribuiscono a dargli "carattere", distinguendolo dalle altre serie tv simili. Notevole il modo in cui filmati storici relativi a fatti realmente accaduti si mescolano con le scene di fiction e felicissima la scelta di mantenere il doppiaggio in spagnolo nei dialoghi che vedono coinvolti personaggi sudamericani. Questa particolarità contribuisce a dare una botta di verosimiglianza artigianale al tutto e ricorda molto il modo in cui il "romanaccio" rendeva indimenticabili gli scambi di battute tra i membri della Magliana in Romanzo Criminale.

Narcos è dunque una serie televisiva da non perdere, capace di delineare il volto di una leggenda del narcotraffico e di descriverne la disfatta. È un racconto romanzato, certo, ma per nulla edulcorato o retorico nel suo descrivere la violenza come qualcosa di assolutamente brutale, che incrosta ogni nostro proposito di cercare giustizia e che risulta impossibile da contrastare in modo pulito.

Sarà interessante vedere come verranno sviluppate le già annunciate nuove stagioni che, archiviato Escobar, saranno incentrate sulla lotta al cartello di Cali. Arduo fare ipotesi, soprattutto perché quanto abbiamo visto finora si reggeva moltissimo sulle spalle di un villain spietato e carismatico. È chiaro che adesso la faccenda sarà diversa e bisognerà andare a parare in un'altra direzione.
La curiosità, comunque sia, c'è.

martedì 13 settembre 2016

Star Wars: Lost Stars

Sin dal lontano 1977, Star Wars ha varcato i confini del cinema per abbracciare le forme d'intrattenimento più disparate. Fumetti, libri, videogiochi e una quantità immane di merchandising paccottiglia.
Negli anni di transizione in cui la saga di Lucas era lontana dalle sale cinematografiche, autori come Timothy Zahn contribuirono a tenere vivo il Mito tramite l'Universo Espanso, cioè con storie inedite che, appunto, espandevano quanto mostrato nei film originali, raccontando ciò che era successo nella Galassia dopo i fatti di Episodio VI o scavando tra le mille possibilità offerte da questo gigantesco universo immaginario. L'ombra dell'Impero, ad esempio, riassumeva cosa era accaduto tra L'Impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi; i videogiochi della serie Knights of the Old Republic, invece, narravano i fatti che avevano sconvolto la Vecchia Repubblica ben quattromila anni prima della nascita di Luke Skywalker e soci.
Tutto questo materiale aveva una canonicità variabile a seconda di come si innestava nella saga. Esisteva un vero e proprio sistema di catalogazione che, per ciascuna opera, stabiliva il livello di canonicità all'interno della storyline. Il grado più alto era ovviamente quello dei film (il G-canon), l'unico vero punto fisso di Star Wars, superiore a qualsiasi cosa avesse a che fare con l'Universo Espanso. Va comunque sottolineato come l'epopea spaziale di George Lucas abbia sempre dovuto moltissimo alle storie che affollavano la sua continuity, tanto è vero che i prequel ne attinsero spesso a piene mani (il pianeta Coruscant fece la sua comparsa proprio nei romanzi di Zahn, giusto per citare l'esempio più celebre).

Poi arrivò l'acquisizione di Disney, la quale, per non avere le mani eccessivamente legate in vista della realizzazione di nuovi film e spin-off, decise di fare tabula rasa di (quasi) tutto l'Expanded Universe, creando un nuovo canone il più possibile coerente con gli episodi cinematografici e spianando così la strada ad una vera e propria narrazione interconnessa tra film, serie tv, fumetti e quant'altro.
È a questo nuovo canone che appartiene il libro di cui mi accingo a parlarvi: Lost Stars di Claudia Gray.
Diventata celebre come scrittrice di romanzi young-adult, Claudia Gray fa il suo esordio nell'universo di Star Wars raccontando una storia d'amore avente come sfondo gli eventi della Guerra Civile Galattica.
Thane Kyrell e Ciena Ree provengono da Jelucan, un pianeta dell'Orlo Esterno. Lui di estrazione sociale nobile, lei di origini umili, nascono entrambi alla fine delle Guerre dei Cloni e vivono la proprio infanzia indottrinati dall'Impero, sognando di arruolarsi per lasciare il proprio sistema stellare e vivere un'esistenza emozionante.
Una volta adulti, riescono ad entrare nell'Accademia di Coruscant e, dopo aver superato numerose difficoltà, diventano ufficiali della Flotta Imperiale; è a questo punto che capiscono di amarsi, ma alla consapevolezza dei propri sentimenti si associa la scoperta della vera natura dell'Impero. È così che i due finiscono per fare scelte diverse, giungendo a combattere una guerra su fronti opposti, in attesa del giorno in cui si troveranno faccia a faccia sul campo di battaglia.

Lost Stars è un gran bel romanzo. Sarebbe un grave errore snobbarlo, perché Claudia Gray si dimostra una scrittrice talentuosa, che ha compreso perfettamente come tirar fuori una buona storia dall'universo di Star Wars.
Il rapporto d'amore e rivalità tra Thane e Ciena è praticamente roba young-adult, inutile negarlo, però regge, coinvolge e commuove. I due protagonisti sono caratterizzati splendidamente a partire dal contesto sociale in cui nascono, il loro comportamento è sempre coerente con il loro carattere e la loro particolare cultura.
A tutto ciò si aggiunge il modo spettacolare in cui la Gray racconta, attraverso la prospettiva di questi due giovani amanti, vent'anni di storia starwarsiana.
Lost Stars copre un arco temporale che va dai primissimi anni dell'Impero alla battaglia di Jakku. Il romanzo si collega direttamente ai film della Trilogia Classica, mostrandoci eventi come l'assalto alla Tantive IV o le battaglie di Yavin e di Hoth da un punto di vista inedito. Immancabile la presenza di personaggi importanti come Tarkin e Darth Vader; Claudia Gray si dimostra poi molto abile nell'approfondire in maniera estremamente dettagliata lo scenario storico della guerra civile tra Alleanza e Impero, mostrandoci cosa accadeva a bordo degli incrociatori Mon Calamari o il modo in cui gli imperiali di rango più basso, resi ciechi dalla propaganda e dall'addestramento ricevuto, percepivano i ribelli come folli guerriglieri idealisti che, chissà poi per quale motivo, si opponevano con tutte le proprie forze alla "pace galattica" sognata da Palpatine.
Perché sì, Lost Stars riesce, nella sua semplicità, ad essere interessante anche per quanto concerne il political drama. Non a caso Bloodline, il secondo romanzo a tema "Guerre Stellari" scritto dalla Gray (già uscito negli USA), è ambientato sei anni prima di The Force Awakens e fa luce sullo scenario geopolitico che vede contrapposti Nuova Repubblica e Primo Ordine.

Se insomma non siete ancora saturi di Star Wars e, come il sottoscritto, non potete fare a meno di esultare quando questo immenso mosaico narrativo composto da spade laser, caccia stellari e droidi guadagna un tassello di qualità, il consiglio è di recuperare Lost Stars senza pensarci due volte.
Anche solo per capire che sì, magari il giorno in cui Disney rovinerà tutto arriverà, ma quel giorno non è sicuramente oggi.
Che poi non ho ancora capito cosa ci sarebbe da rovinare. Voglio dire, niente può essere peggio di Jar Jar Binks.

sabato 10 settembre 2016

Independence Day - Rigenerazione

Sarò sincero: ad Independence Day ho sempre voluto bene. Era una scemata in cui il presidente degli Stati Uniti, dopo un discorso da pelle d'oca, saliva su un caccia e andava a buttar giù un disco volante in compagnia di un ubriacone dal cuore d'oro, ma era anche un film di fantascienza divertentissimo, che usciva al cinema nel momento giusto (il mondo era ancora in fissa per X-Files), mostrava almeno un paio di scene di grande impatto visivo e raccontava una storia corale carica di tensione.
Independence Day era stupido, ma nella sua stupidità funzionava egregiamente.

L'idea di realizzare un sequel ambientato vent'anni dopo quel fatidico 4 luglio 1996 poteva essere interessante. Personalmente adoro gli scenari storici alternativi, quindi la prospettiva di un mondo post-invasione aliena tutto tecnologia ibrida mi stuzzicava non poco. Il problema è che stiamo pur sempre parlando di un film di Emmerich, non di un romanzo di Philip K. Dick.
L'intenzione di tratteggiare questa ucronia in cui la storia del genere umano ha preso una piega radicalmente diversa da ciò che abbiamo visto negli ultimi due decenni c'è; peccato che il tutto sia funzionale ad un film che, sostanzialmente, rimane una boiata senza alcuna pretesa di serietà.
Tutto appare molto goffo. Di idee carine ce ne sono, ma poi ecco le auto a benzina in un mondo che padroneggia tecnologie avanzatissime come fusione fredda, antigravità, scudi ad energia e armi laser; oppure ecco una società globale in cui sono sempre e soltanto gli americani quelli che fanno cose, con un minimo d'aiuto da parte della Cina perché, insomma, i biglietti dei cinema li devono staccare anche a Pechino.

I problemi di questo nuovo Independence Day, in realtà, non sono nemmeno legati alle incongruenze tecniche e sociali dello scenario proposto, su cui alla fine si passa sopra facendosi una pera di sospensione dell'incredulità prima d'entrare in sala.
Il film del 1996, come detto, riusciva ad imbastire una storia ricca di tensione. Il disorientamento e la paura dei protagonisti che vedevano gigantesche navi spaziali posarsi sopra le principali metropoli del mondo erano palpabili. Dall'inizio vi era un crescendo drammatico senza sosta, che esplodeva nel momento in cui gli alieni attaccavano e continuava fino a quando il personaggio di Jeff Goldblum non si inventava il contrattacco del "virus da computer", un'apparente idiozia che però era anche una rilettura in chiave informatica de La guerra dei mondi di Wells, quindi tanti cuoricini. In Independence Day, in sostanza, si percepiva l'orrore delle città rase al suolo e il terrore di un annientamento inevitabile.
In Rigenerazione non si prova nulla di tutto ciò.
Il casino parte praticamente subito ma, pur vedendo sullo schermo una distruzione di proporzioni apocalittiche, non si è mai emotivamente coinvolti, nemmeno quando un'astronave madre grossa come un continente ingroppa letteralmente il nostro pianeta. C'è una totale mancanza di pathos.
Non esiste nulla di peggio di un film catastrofico in cui la catastrofe c'è, è enorme e si vede, ma è in completa dissonanza con il comportamento dei personaggi, che reagiscono quasi come se ciò che vedessero fosse normale routine. Personaggi che, a proposito, sono moscissimi. I nuovi volti hanno una caratterizzazione ridotta ai minimi termini che li rende del tutto incapaci di suscitare empatia. Già meglio i membri del vecchio cast, in particolare Jeff Goldblum e Brent Spiner che, da soli, riescono a dare un briciolo di dignità a tutta la baracca, ma anche qui, nulla per cui strapparsi le mutande.

In conclusione, Independence Day - Rigenerazione è una versione più spettacolare e meno emozionante del suo predecessore, con molte idee sulla carta affascinanti ma che, alla prova dei fatti, si rivelano sviluppate male. È un peccato, perché quando il film preme sull'acceleratore e ci delizia con sequenze fracassone e dogfight a colpi di "merdaccia verde" riesce ad offrire una bella dose di divertimento senza pretese. E in quei momenti lì è bello tornare un po' degli undicenni che non sanno neanche cosa sia una sceneggiatura.