lunedì 13 febbraio 2017

I magnifici 7

Denzel Washington nuovamente protagonista in un film di Antoine Fuqua. Solo che stavolta è accompagnato da sei amichetti. 
Dopo The Equalizer e Southpaw, il regista di Training Day si assume il compito non semplicissimo di portare al cinema il remake del leggendario I magnifici sette di John Sturges, western del 1960 che a sua volta si basava su I sette samurai di Akira Kurosawa.

Il villaggio di Rose Creek viene occupato dagli uomini di Bartholomew Bogue, un magnate che intende sfruttarne la vicina miniera d'oro. I banditi incendiano la chiesa dell'avamposto e uccidono diversi abitanti. Una donna, in seguito all'assassinio del marito avvenuto davanti ai suoi occhi, decide di andare in cerca di vendetta e chiede aiuto al cacciatore di taglie Sam Chisolm; questi, accettato l'incarico offertogli dalla vedova, recluta altri sei mercenari con l'obiettivo di liberare Rose Creek e uccidere Bogue.

I magnifici 7 è un western molto classico, che magari ci mette un po' ad ingranare; ma che poi, non appena le cose arrivano al dunque, diventa un signor film d'azione.
Il cast è di livello altissimo. Sia i nomi noti (Chris Pratt, Vincent D'Onofrio, Ethan Hawke) che quelli meno noti (Lee Byung-hun, Manuel Garcia-Rulfo, Martin Sensmeier) funzionano alla grande e, guidati dal carismatico Washington, vanno a formare una squadra di improbabili eroi a cui ci si affeziona tra battutacce da cowboy, duelli e sparatorie.
Molto azzeccata anche la scelta del cattivo di turno, un Peter Sarsgaard che ha decisamente la faccia giusta per interpretare un antagonista come Bogue.

Fuqua dirige un western corale apprezzabile senza riserve da chiunque adori le atmosfere alla Tex Willer. Un film solido che, senza particolari pretese, riesce ad intrattenere con tanta azione, splendidi paesaggi di frontiera e un bell'affiatamento tra i suoi protagonisti.
E poi si sa, di western non ce ne sono mai abbastanza.

mercoledì 8 febbraio 2017

The Clone Wars

A prescindere da quale sia la vostra opinione sulla trilogia prequel di Star Wars, non potete negare che La minaccia fantasma, L'attacco dei cloni e La vendetta dei Sith abbiano avuto il grosso merito di ampliare la saga di Lucas oltre orizzonti che, prima del 1999, erano stati solo intravisti in un disordinato marasma di libri, fumetti e videogiochi.

L'universo di Star Wars, nei film classici, era circoscritto a pochi pianeti, spesso desertici o primitivi, che facevano da sfondo ad una guerra tra un regime dispotico ed un gruppo di combattenti per la libertà. Era veramente tutto qui. Forse questo "vedo, non vedo" era parte integrante del fascino di una galassia di cui potevamo solo intuire la vastità, ma ciò non toglie che Episodio I, al netto dei difetti, fu un film ambizioso, che riuscì ad arricchire la saga con una moltitudine di nuovi elementi, alcuni mutuati dall'Expanded Universe, altri totalmente inediti. Oltre ad alieni anfibi dalla parlata bizzarra, infatti, ci regalò un'ecumenopoli che ricordava la Trantor di Asimov, intrighi politici a volontà, un pianeta dall'estetica barocca, podrace, specie mai viste prima, armate di droidi e lo stesso Ordine Jedi.
La minaccia fantasma contribuì a rendere Star Wars più vasto, più complesso e, potenzialmente, più interessante. I due seguiti fecero altrettanto.

Bello ma non bellissimo, dato che, come ben sappiamo, i tre prequel si rivelarono film pieni di magagne e non esattamente all'altezza dell'universo immaginario che avevano il compito di raccontare. Ciò non significa che non avessero assolutamente nulla di buono, ma parliamoci chiaro: guardate Episodio II e ditemi se non trovate orripilanti i dialoghi tra Anakin e Padme.
"Tu mi sei entrata nell'anima, che si tortura per te."
Pietà. Nella mia testa parte la musica di Occhi del cuore ogni volta che sento parlare di Villa del Balbianello.

Tra sdolcinatezze e recitazione discutibile, tuttavia, i prequel narravano una parte di Star Wars importantissima, affrontando un cruciale periodo storico del suo universo: gli anni dell'ascesa di Palpatine, delle Guerre dei Cloni e del passaggio dalla Vecchia Repubblica all'Impero.
Eventi dalla portata enorme, su cui si era fantasticato per oltre un decennio e che, una volta mostrati sul grande schermo, riuscirono anche ad offrire alcune sorprese. Non era scontato che i cloni fossero dalla parte della Repubblica e combattessero al fianco dei Jedi, ad esempio; lo stesso Timothy Zahn, che all'inizio degli anni novanta aveva tirato in ballo la clonazione nella trilogia di Thrawn, approcciò la questione in modo ambiguo.

In effetti l'arco temporale coperto dai prequel era davvero denso di cose da raccontare, ma i tre film si concentrarono (anche giustamente) sui momenti più salienti della caduta di Anakin Skywalker, trascurando o, peggio, sviluppando in maniera goffa tutte le vicende di contorno. La parte centrale delle Guerre dei Cloni, per esempio, veniva saltata in blocco. Qualcuno potrebbe ribattere che, ai fini della trama principale, era in effetti necessario vedere solo l'inizio e la fine del conflitto; mostrare altro sarebbe stato quasi ridondante. È un'obiezione sensata, ma che non condivido del tutto.
Coprire la guerra in maniera più dettagliata avrebbe permesso di sviluppare meglio la caratterizzazione dei protagonisti e dei comprimari, dando ai fatti tragici di Episodio III tutto un altro impatto.
Pensiamo solo all'Ordine 66: quanto sarebbe stato emotivamente devastante, se Jedi come Aayla Secura o Plo Koon fossero stati più che semplici comparse? Quanto sarebbe stato destabilizzante vedere questi Jedi uccisi dai cloni che erano stati loro amici?
La vendetta dei Sith tentava di essere toccante come Titanic, ma si dimenticava che il film di James Cameron, prima di partire con le morti, passava quasi due ore a farci affezionare ai suoi personaggi, raccontandoci nei minimi dettagli le loro storie e i loro sogni.

Evidentemente persino Lucas, nel corso degli anni, deve aver fatto riflessioni simili. Già nel 2003, infatti, Lucasfilm produsse insieme a Cartoon Network la serie animata Clone Wars, affidandola al regista Dzenndi Tartakowskij.
Caratterizzate da un'estetica spigolosa e minimalista, le tre stagioni di Clone Wars mostravano le battaglie tra l'esercito della Repubblica e i Separatisti, introducendo anche il personaggio di Grievous. Gli episodi erano brevi, con pochissimi dialoghi, ma ricchi d'azione dirompente e sopra le righe (memorabile la scena in cui Mace Windu sgominava un'intera armata di droidi a mani nude).
La serie piacque a tutti. Ancora oggi, pur non essendo più canonica, viene ricordata come una delle migliori cose a tema Star Wars uscite in quel periodo. Personalmente ne conservo gelosamente i DVD.

Anni dopo, nel 2008, Lucas e soci decisero di tornare ad offrire ai fan una nuova dose di Guerre dei Cloni, prima con il film in computer grafica The Clone Wars (occhio all'articolo) e subito dopo con l'omonima serie animata.
Affidata allo showrunner Dave Filoni, questa nuova serie televisiva aveva sempre il compito di approfondire gli eventi intercorsi tra  L'attacco dei cloni e La vendetta dei Sith, stavolta con una narrazione un pelo più articolata.

Fino a pochi mesi fa non avevo mai visto The Clone Wars, ma la recente comparsa della serie completa su Netflix mi ha dato l'occasione di colmare questa lacuna che, francamente, iniziava un po' a pesare.
Sono partito con una grande curiosità e con parecchi dubbi (Anakin con una padawan? Il ritorno di "quel" personaggio?), ma devo dire che, dopo essere arrivato al termine della sesta stagione, il mio giudizio non può essere meno che entusiastico. Anzi, per certi versi potrei quasi affermare che in The Clone Wars c'è tutto ciò che avrei voluto vedere nella trilogia prequel e che, purtroppo, i film di Lucas mi avevano dato solo marginalmente.

La serie di Dave Filoni ha una struttura antologica. Ogni stagione dura circa una ventina di episodi (ad eccezione dell'ultima, che ne dura tredici) e presenta diversi archi narrativi che possono coprire svariate puntate, generalmente non più di quattro.
Leviamoci subito il sassolino dalla scarpa dicendo che la qualità non si mantiene sempre a livelli eccelsi, risultando anzi abbastanza altalenante: si passa dall'esaltazione totale dei momenti in cui sembra quasi di guardare un Band of Brothers nello spazio alla depressione degli episodi incentrati su Jar Jar Binks.
Quando le cose girano nel modo giusto, però, The Clone Wars funziona alla grande, diventando improvvisamente il sogno di qualsiasi appassionato di Star Wars e mostrando battaglie tra flotte stellari, assedi planetari, cacciatori di taglie degni di un western e duelli con spade laser assolutamente memorabili.
Ovviamente non bisogna aspettarsi che i valori di produzione siano quelli di un film hollywoodiano ma, nei suoi limiti, The Clone Wars convince e, in determinati frangenti, riesce a stupire.

La messa in scena della guerra che conduce alla nascita dell'Impero si rivela così riuscita e coinvolgente anche in virtù del lavoro d'approfondimento svolto sui rapporti tra i personaggi, soprattutto su quello che lega cloni e Jedi.
Se in Episodio III tutti i cloni erano, ehm, insipidi cloni di Jango Fett senza alcuna personalità, qui i vari Cody, Rex e Fives sono personaggi completi, identici nell'aspetto ma caratterizzati con la giusta perizia. Tra loro si percepisce un cameratismo che nei prequel, molto semplicemente, non c'era e non veniva nemmeno accennato.
Qui i cloni acquistano per la prima volta una dimensione umana, si chiamano l'un l'altro "fratello" e nutrono una profonda ammirazione verso i loro generali Jedi che, a differenza di politici ed ufficiali che li trattano come "numeri" da mandare al macello, li considerano persone con una dignità. Bisogna ammettere, insomma, che l'Ordine 66 ha un sapore un po' diverso, dopo la visione di The Clone Wars.

Un discorso analogo si può fare per i membri dell'Ordine Jedi. La serie di Filoni riesce a rendere molto bene l'idea di questi guardiani della pace che si ritrovano invischiati in un turbine di devastazione e violenza di cui saranno, di fatto, le vittime finali.
Alcuni dei migliori momenti di The Clone Wars sono proprio quelli in cui vengono sollevate questioni morali che portano i vari protagonisti a porsi dei dubbi su ciò che stanno facendo, a rendersi conto di come, malgrado tutti i loro sacrifici, la Repubblica stia lentamente precipitando verso un baratro di oscurità.
Anche qui: stiamo parlando di una serie animata i cui toni non toccano mai picchi drammatici eccessivi (non aspettatevi Game of Thrones), ma The Clone Wars a volte lascia davvero di stucco per la profondità di cui è capace.
Il rapporto tra Anakin e la sua padawan Ahsoka, su cui come ho detto avevo delle perplessità, è ad esempio tratteggiato splendidamente e si chiude con un epilogo molto forte, che contribuisce a dare al futuro Darth Vader un profilo psicologico più sfaccettato rispetto a quello del "giovane accecato dall'amore" visto nei film, facendo persino assumere un nuovo significato ai suoi attriti con il Consiglio Jedi.

L'Anakin che esce dalle Guerre dei Cloni è, per assurdo, meno bamboccio del cavaliere Jedi irruento, ma ancora fragile, che si vedrà in Episodio III. Ecco, forse l'unico problema di tutto questo approfondimento (che, ricordiamolo, è assolutamente canon) sta proprio nella crescita di Anakin, un personaggio che nel corso di sei stagioni attraversa un percorso di maturazione e supera numerose difficoltà, uscendo bene da prove peggiori di quella che poi, ne La vendetta dei Sith, lo porterà ad abbracciare il Lato Oscuro.
Perché in Episodio III, in seguito alla visione della morte di Padme, il Prescelto ripete sostanzialmente gli stessi errori commessi in Episodio II a causa dei sogni che profetizzavano la morte di sua madre Shmi; la cosa stride con la maturità e la maggior consapevolezza che, si presume, Anakin dovrebbe aver raggiunto durante gli anni della guerra.
Però appunto, questo è un problema legato al modo semplicistico e discutibile in cui il film del 2005 gestiva le motivazioni alla base della genesi di Darth Vader, non a The Clone Wars, che invece fa di tutto per rendere giustizia alla figura di Anakin Skywalker.

Un lavoro di cesello altrettanto curato è stato eseguito nello scolpire l'estensione dell'universo di Star Wars. Ci sono molte nuove idee, ma si pesca a piene mani anche dal vecchio Expanded Universe, che ai tempi delle prime stagioni non portava ancora l'etichetta "Legends" (ritorna ad esempio Asajj Ventress, l'apprendista di Dooku introdotta nella serie di Tartakowskij).
Mettiamo finalmente piede su pianeti come Mandalore, Mon Cala o Ryloth, scendiamo nel famigerato livello 1313 di Coruscant ed incontriamo per la prima volta decine di personaggi che sono ormai parte del canone ufficiale. Il più importante tra questi è sicuramente Saw Gerrera, il guerrigliero ribelle interpretato da Forest Whitaker in Rogue One, che in The Clone Wars appare all'inizio della quinta stagione.
Vi sono anche personaggi della Vecchia Trilogia, che qui compaiono in versione ringiovanita. Senza fare nomi altisonanti, mi limito a dire che i fan più esperti impazziranno trovandosi davanti l'ammiraglio Yularen (se non avete la più pallida idea di chi sia, filate immediatamente a ripassare la lista degli ufficiali imperiali presenti in A New Hope).
Non mancano poi i ritorni inattesi di antagonisti storici; ritorni che vengono gestiti piuttosto bene e portano ad archi narrativi di grande spessore anche quando il rischio di combinare un pasticcio sembrerebbe alto.

Questa padronanza della grammatica starwarsiana rende palese il grande amore degli sceneggiatori coinvolti per l'universo creato da George Lucas. Perché poi, al di là delle citazioni che titillano i fan come la comparsata del giovane Ackbar o la placca pettorale indossata da Anakin che richiama quella portata da Darth Vader, The Clone Wars mostra i muscoli soprattutto quando osa e scava a fondo nella mitologia della saga, andando a fare rivelazioni spesso anche abbastanza sconcertanti.
Esempio emblematico? Beh, si scoprono più cose sul giovane Obi-Wan negli archi narrativi mandaloriani che in Episodio I, II e III. Fate voi.

The Clone Wars è una serie gustosissima, meno marginale rispetto a molti fumetti o libri che fanno parte del Nuovo Canone. Mi azzarderei a dire che, nel caso in cui miriate ad avere un quadro completo dell'universo di Star Wars, in modo anche da apprezzarne maggiormente le uscite cinematografiche, la visione sia quasi necessaria.
Se i prequel vi sono piaciuti, avrete l'occasione di approfondirne l'ambientazione, i personaggi e il periodo storico. Se invece siete tra i delusi, The Clone Wars potrebbe darvi emozioni nuove.
È indubbiamente un'opera televisiva destinata principalmente ad un pubblico giovane, ma se saprete approcciarla senza pregiudizi, scoprirete che ha molto da offrire anche a chi segue e conosce Star Wars da venti, trenta o quarant'anni.

venerdì 3 febbraio 2017

La battaglia di Hacksaw Ridge

A dieci anni da Apocalypto, Mel Gibson torna dietro la macchina da presa e sforna un film bellico memorabile, portando la Seconda Guerra Mondiale sul grande schermo con una potenza che non si vedeva dai tempi di Salvate il soldato Ryan.
La battaglia di Hacksaw Ridge racconta la vera storia di Desmond Doss, un soldato statunitense che si arruolò nell'esercito come volontario, rifiutandosi di imbracciare qualsiasi genere di arma per non tradire la propria fede religiosa.
Inizialmente osteggiato da superiori e compagni, Desmond finì davanti alla corte marziale, che gli concesse di partire per il fronte come obiettore di coscienza e soccorritore militare. Il giovane prese parte alla battaglia di Okinawa, in cui salvò la vita a settantacinque commilitoni feriti, diventando un eroe di guerra e guadagnandosi una medaglia.

Hacksaw Ridge non ci prova nemmeno ad evitare la retorica, rischiando di risultare irritante per via del suo continuo tirare in ballo il trittico fede, patria e onore. Questo, tuttavia, non gli impedisce di essere un film di guerra assolutamente incredibile, che mostra l'atrocità di una battaglia senza porsi alcun paletto, trasmettendo al contempo un bel messaggio di pacifismo.

Tutto il primo tempo del film è una lunga introduzione che serve a tratteggiare la figura di Desmond Doss e a spiegare quali furono le motivazioni che determinarono la sua scelta di non violenza. Andrew Garfield interpreta questo atipico soldato con la solita bravura su cui è ormai superfluo spendere parole, ma anche il resto del cast ricopre un ruolo importantissimo, dato che il rapporto tra Doss e i suoi famigliari/commilitoni/superiori è un po' il cardine attorno a cui si muove tutta la vicenda.
Hugo Weaving, il padre rimasto traumatizzato dalla Grande Guerra, è assolutamente convincente, mentre Teresa Palmer, la moglie Dorothy, è talmente adorabile che vorrei sposarla anch'io. Ma la mia nota di apprezzamento personale va soprattutto al sergente istruttore interpretato da Vince Vaughn, che dopo una vita di commedie è ormai lanciatissimo nei ruoli drammatici.

Se la prima parte del film è necessariamente piuttosto lenta e povera d'azione, il secondo tempo è qualcosa di dirompente. Nel momento in cui ci si sposta nel teatro bellico del Pacifico, Hacksaw Ridge inizia a fare sul serio. Mel Gibson mette in scena un inferno di morte, caos e corpi dilaniati, scioccando con una rappresentazione della guerra violenta, brutale e a tratti stomachevole nel suo crudissimo realismo. Non si tratta, però, di una violenza pornografica fine a se stessa come quella di The Passion of the Christ, ma di qualcosa che, nel contesto del film, era necessario mostrare. Tutta questa brutalità esibita in modo così calcato contribuisce a far sembrare ancora più incredibile la storia di questo ragazzo che ha partecipato ad una delle battaglie più cruente del ventesimo secolo senza toccare un'arma.

Il ritorno di Mel Gibson non poteva essere più convincente di così. Hacksaw Ridge è un film di un'intensità inaudita che, nel bene e nel male, porta impressa la firma del suo regista. Un regista retorico e ampolloso, è vero, ma che comunque, quando si mette in testa di raccontare una storia, la racconta in un modo che molti suoi colleghi si sognano.